Capossela, il realismo magico e il letto sfatto

Un certo sud

Federica Spampinato
mediapocalypse
3 min readJan 31, 2016

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Ve lo dico subito: non è la recensione del film. È una storia personale, delirante e nevrile. E il film, qui, è solo un pretesto.

Sono andata a vedere “Nel paese dei coppoloni”, il film-documentario del cantautore pugliese, tratto dal quasi omonimo romanzo “Il paese dei coppoloni”.

Questo adattamento mi fa ironicamente pensare al fatto che attraverso il linguaggio scritto non sia concessa la penetrazione del luogo, l’ingresso dell’antro, cosa invece delegata all’audiovisivo. Grazie al cinema, e con gli occhi del regista, entriamo infatti davvero dentro paesaggi solitari, fermi, immobili.

Questo sud lo conosco bene, anche se non è proprio il sud che conosco io, ma è sempre un certo sud. È un luogo che ci ostiniamo a non voler rappresentare, o a relegare al passato, negando che sia vivo nel presente. È come se non accettassimo nella nostra quotidianità la nostalgia a cui veniamo costretti, che è una nostalgia non del passato bensì proprio del presente: il punto non è se, cinematograficamente parlando, questa rappresentazione sia o no una piaga post-neorealista; il punto è che questa è una fotografia, ancora viva, ancora immortalata.

Un certo sud esiste, eccome se esiste.

Un certo sud nega la sua esistenza e lo fa consapevolmente. È al tempo stesso schiavo del suo immobilismo: esiste, ma non esiste. Invoca, ma preclude. C’è, ma si annulla.

Un certo sud può condizionarti la vita, soprattutto se non lo vivi, un certo sud. Soprattutto se è una presenza fantasmatica. Ce l’hai dentro, ma non sai cos’è. Ce l’hai, ma non ce l’hai. Ce l’hai, ma non sai che fartene.

Un certo sud ti costringe alla nostalgia di una cosa che non hai mai avuto. In un certo senso, ti perseguita.

A volte finisci per amarlo, e non sai nemmeno perché. In alcuni casi, potrebbe anche assumere la forma di un amore stantìo.

Un po’ come i matrimoni dell’Irpinia raccontati da Capossela: giorni di distruzione precedono il banchetto nuziale, affinché dalle ceneri i novelli sposi possano costruire la loro nuova vita insieme.

Sgraziatamente e senza attendere che sia tutto pronto, è proprio questo certo sud che insegna l’importanza della convivenza di passato e presente, della memoria, dell’immagine eidetica, vissuta non come presenza ingombrante e incombente, ma come eredità culturale.

Il documentario di Vinicio Capossela è una piccola prosa dei corpi.

Formalmente ben fatto, ma non particolarmente originale — se non per qualche grandangolo dal basso che, con inquadratura fissa, riprende talvolta una messa in scena onirica e suggestiva, il racconto è recitato dallo stesso musicista, che ci accompagna nel viaggio alla scoperta dei riti e delle tradizioni della sua terra.

Capossela è un viandante che mette insieme, secondo la logica dei sogni – e della “cupa” – ciò che è solo intimamente evocato: il tentativo di rendere oggettivabile e filmabile l’emozione soggettiva della nostalgia del sud esistente.

Chi sono? Da dove vengo? Cosa vado cercando?

La risposta, Capossela, la trova nella bestia; nelle fiere del Bosco della Cupa. Nelle donne evocate, non concesse; nel buio, nei lupi, nell’animale; nel sacro; negli anziani di paese che suonano alla Posta. Nelle pale eoliche – piccolo scorcio di timida modernità imposta in un paesaggio che non vuole invasione. Sì, è vero, si fa abbandonare, ma espelle l’inorganico con un gesto di inerzia vitale.

Un certo sud può fare molto male al cuore. Anche se è concepito, interpretato, messo in scena da un’altra persona – che ha un altro sud: ognuno ha il suo patto implicito e ognuno attraverserà il cinema corpo per avere l’esperienza di fascinazione cinematografica, ed erotica, con il suo proprio certo sud.

Amore semplicissimo che crede alle parole
poiché non posso fare quello che voglio fare
non ti posso abbracciare né baciare
il mio piacere è nelle mie parole
e quando posso ti parlo d’amore.
Così seduta davanti un bicchiere
in un posto pieno di persone
se la tua fronte si increspa veloce
io parlo ad alta voce nell’ardore
tu non mi dici fa meno rumore
che ognuno pensi pure quel che vuole
io mi avvicino sciolta di languore
e tu negli occhi hai un tenero velame
io non ti tocco, no, neanche ti sfioro
ma nel tuo corpo mi sembra di nuotare,
e il divano di quel bar salotto
quando ci alziamo sembra un letto sfatto.

(Patrizia Cavalli)

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Federica Spampinato
mediapocalypse

Di tecnologie digitali, cultura del rischio e fine del mondo