Macbeth, twice

Perché le cose senza rimedio non meritano attenzione

Federica Spampinato
mediapocalypse
6 min readJan 25, 2016

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Premessa necessaria

Tutti conoscono Macbeth, la tragedia shakesperiana che, come molti elementi all’interno dei programmi di letturatura inglese, passa come un treno e si sedimenta nella grande scatola cerebrale del nozionismo. Non ricordavo granché della tragedia, se non che era ambientata in Scozia e che rappresentava il crollo della rettitudine dell’essere umano con una dannata catabasi all’interno di follia e delirio di onnipotenza. Ah, e la profezia delle tre donne, certo, come dimenticarla. O, più semplicemente, ricordavo questo schema diegetico:

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Quando ho appreso l’uscita del film nelle sale, non ho pensato di andare a vederlo, perché una fastidiosa campagna di social media marketing aveva inconsciamente instillato in me la convinzione che si trattasse di un colossale peplum.

Poi la mia cara amica ha insistito affinché andassimo al cinema e, nonostante la stanchezza, ho acconsentito. E ho fatto bene.

Ma non è finita qui: ho dovuto assolutamente rivederlo una seconda volta, lottando contro il tempo e sconfinando con il mio fidato complice per trovare uno dei pochi cinema dove lo proiettavano ancora.

E vi dirò di più: lo guarderei di nuovo. E ora vi spiego il perché.

Macbeth il film di Justin Kurzel

[Justin Kurzel è un regista australiano che ha diretto un corto e tre lungometraggi, tra cui appunto Macbeth. Vi annuncio che seguirà un grande elogio a Justin Kurzel.]

[Noto che questo non è il primo adattamento cinematografico; nel tempo la nostra società ha partorito ben DIECI Macbeth diversi]

  • Macbeth, 1908, J. S. Blackton
  • Macbeth, 1916, J. Emerson
  • Macbeth, 1948, O. Welles
  • Il trono di sangue, 1957, A. Kurosawa
  • Macbeth, 1971, R. Polanski
  • Macbeth, 1982, Béla Tarr
  • Macbeth – La tragedia dell’ambizione, 2006, G. Wright
  • Macbeth, 2009, N. Pathon
  • Macbeth, 2010, R. Goold
  • E KURZEL

Forse nella definizione di Schlegel

“Dopo Eschilo, la poesia tragica non aveva prodotto niente di più grande né di più terribile”

si esplicita in poche parole il motivo del grande fascino che il Macbeth ha sempre avuto in registi e sceneggiatori, per portarne dieci – noti e meno noti – a scegliere la cupa vicenda scozzese di William Shakespeare per la loro produzione cinematografica.

Macbeth di O. Welles | Source: http://tinyurl.com/ha6qsjb

Ma torniamo ad oggi: i motivi per cui questo Macbeth si fa molto apprezzare sono molti.

Li riassumo per punti.

  1. Il sublime cinematografico: credo che, quando i codici estetici trovano un’armonia e un equilibrio diegetico, cioè quando l’intera forma del film e del linguaggio audiovisivo riesce ad aderire perfettamente al significato di cui è latrice, si può parlare di sublime cinematografico – dove il sublime rimane, come nell’accezione di Burke, un sentimento di piacere che nasce dalla visione di qualcosa che ci turba, che ci rende inquieti, di cui assaggiamo il pericolo, ma con la distanza necessaria che permette di sentirci al sicuro, e quindi di provare questo piacere (delight). Macbeth restituisce il connubio forma-contenuto anche nell’esteriorizzazione degli attanti; accade dunque che le tre streghe (quattro, con la bambina) — visione demoniaca preludio di tutta la vicenda e allegoria dei sentimenti che il soprannaturale provoca nell’essere umano — diventano a loro volta simboli della loro stessa allegoria, proprio grazie alla loro messa in quadro particolareggiata.

2. La fotografia senza tregua: in questo Macbeth emergono vistose scelte di color grading; due temperature, una fredda e una calda, che si alternano di inquadratura in inquadratura, raggiungendo l’apice nell’osmosi dei montaggi alternati tra il fatto in sé, messo in scena, visibile e il fatto percepito, celato nella mente di Macbeth. Un capolavoro.

Le uniche a godere di una gradazione tendente al giallo, colore simbolo di conoscenza — in questo caso dannata, ma anche attenzione. Presentate, come gran parte dell’incipit, con un ralenti estremo e una carrellata in avanti, in controluce ad evidenziare la loro stessa presenza oscura.

Source: http://tinyurl.com/gvopnka

“Vivete, o siete esseri che l’uomo può interrogare?”

3. Unità di contenuto perfetta. Macbeth così costruito rende giustizia a quella che è la definizione di inquadratura, restituendoci una vera unità narrativa, dando dignità ai segni percepiti consciamente e incosciamente dallo spettatore e sottostando alle più classiche dinamiche della costruzione dell’immaginario e della fascinazione cinematografica. L’inquadratura è grammaticalmente perfetta dal punto di vista contenutistico e formale; un esercizio di stile apprezzato sia dagli addetti ai lavori, sia dal pubblico che nel 2016 può ormai definirsi definitivamente alfabetizzato nei confronti del linguaggio video.

4. I movimenti all’interno dell’inquadratura — del profilmico, di ciò che vediamo — si sposano perfettamente con i movimenti di macchina dell’inquadratura, con una maestria registica spesso destinata a pellicole meno mainstream, che mi sento di descrivere alla stregua del linguaggio poetico, se consideriamo la poesia come il tentativo linguistico di cogliere qualcosa di non comunicabile e dargli una forma sintattica.

Persino il movimento della lacrima di Macbeth, ad un certo punto, sembra adeguarsi a questo stile registico in cui ogni minimo dettaglio risponde ad una logica di tragicità costruita: tutti i codici visivi (quelli dell’iconicità, della fotograficità, della mobilità), i codici sonori (la natura del suono, la collocazione del suono) e quelli sintattici (il montaggio) suonano all’unisono le note di violino che accompagnano, dal primo minuto all’ultimo, la vicenda shakespeariana.

5. Il montaggio alternato. Come dimenticare il montaggio alternato nella scena dell’uccisione del re, che è il primo atto cruento che sancisce l’inizio della dannazione? Le inquadrature dell’atto di sangue dentro la capanna che fanno a botte con quelle dei cavalli impazziti nella notte.6. Gli ordini sintattici della follia. Più il delirio di Macbeth si fa vivo, più ogni inquadratura risolve il sentimento della follia in due ordini sintattici: quello della sua stessa costruzione – cioè nel profilmico – e quello del raccordo con l’inquadratura successiva, per una messa in serie algida e nevrotica, ma rispondente tuttavia a uno schema narrativo protohollywoodiano, dove si contempla un certo classicismo del linguaggio che faccia godere allo spettatore la visione senza disturbarne l’illusione.

Source: http://tinyurl.com/gvopnka

E, a proposito: qui c’è la OST [http://tinyurl.com/jqj7jed]

Poi si potrebbero aprire infinite parentesi ermeneutiche sulla presenza evocativa degli elementi naturali e di come questi appaiano nella costruzione della proporzione del quadro:

Sulla spiritualità diffusa, resa immagine tangibile e percepita:

Sulle ambientazioni affascinanti, in cui la scelta di campi lunghi e lunghissimi rende spesso l’essere umano, ancora una volta, una figura nera che si minimizza al cospetto della natura:

E sulla scelta – non inedita – di mantenere i dialoghi originali del testo teatrale.

Ben oltre le aspettative e ben oltre l’immagine che Macbeth ha dato di sé online, giustificabile unicamente per attirare nelle sale un pubblico vasto, merita di essere visto e rivisto per la redenzione che porta con sé, ponendo l’accento su un’indulgenza plenaria poiché

“le cose senza rimedio non meritano attenzione.”

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Federica Spampinato
mediapocalypse

Di tecnologie digitali, cultura del rischio e fine del mondo