Il Caffè che non c’è
In prossimità della vetta innevata, c’è un ristorante di pietra chiara. Sulla terrazza algida, un tavolino rotondo, di ferro smaltato di bianco, ha al suo centro una tazzina di ceramica.
Nella tazza, uno stagno di nero caffè.
Quel tondo di aroma liquido e profondo è l’unica cosa visibile, nel mezzo di chilometri e chilometri di nulla. E, anzi, il suo essere circoscritto e stabile, in uno forma così definita nonostante uno spazio così indefinito, è ciò che lascia inferire l’esistenza di una tazzina che lo contiene. E la tazzina è ciò che lascia presupporre l’esistenza del tavolino, dalla quale si può dedurre la presenza di una terrazza e indovinare, da quest’ultima, la possibilità di un ristorante, di un montagna, di un intero mondo sconfinato ed invisibile…
Il caffè è, nel vasto e gelido nulla, la sola cosa che possa essere vista. È la sola cosa che possa dirsi, nel silenzio. Ed è esso stesso, con la sua presenza scura e definita, a definire l’essenza di qualcosa che non c’è.
Come tratti di inchiostro che, abbozzati pochi confini, lasciano che siano gli occhi del lettore, e gli spazi di carta intonsa, a costruire l’infinito, affermandolo per negazione. Derivandolo per esclusione.