Il Cane e l’inane

Federico Ruysch
Nulla Dies Sine Linea
3 min readApr 28, 2016

Al paese erano tutti dei grandi imbroglioni. C’è poco da dire, al riguardo. Eravamo poco più di 400 anime, e nessuna di esse aveva mai fatto nulla per non meritarsi, un giorno, l’inferno.

C’erano i due figli di Fisk il carpentiere, Luke e Samuel, ch’erano grandi e grossi, e passavano le loro giornate a prendere in giro Ches, il figlio dell’elettricista, solo perché era grassottello e, a undici anni, non sapeva ancora parlare. Era strano, e buffo, ma non meritava di essere picchiato, nel bosco, una notte in cui i fratelli Fisk erano più ebbri del solito…

C’era Gut, il contadino, che lavorava senza sosta, dalla mattina alla sera, sotto al peso del Sole cocente, o tra le lacrime fredde dei più grigi giorni di pioggia. E, per quanto grande fosse il campo da zappare, per quanto pesante fosse il vitello da trascinare fuori dalla stalla, per quanto colmo di frutta fosse il cesto di vimini da caricarsi in spalla, lui sentiva di doverlo fare, e di meritare quella fatica e quel dolore. Così come, giunta la sera, sentiva di meritare un bicchiere di vino. E altri nove meritati bicchieri di vino, nei quali riusciva a trovare il coraggio di dare, a moglie e figlia, le sberle che — a sentir lui — quelle due si meritavano tanto.

C’era Brandine, la bella figlia di Uthor, l’oste. Un uomo pallido, debole e gracile, che tuttavia riusciva, con un’alzata di voce, a placare le risse e le bestemmie di quelli che, ogni sera, si raccoglievano nel suo locale, come sporcizia e sudiciume, lungo il greto di un fiume di birra scadente. Un uomo che, però, non fu capace di fermare quelli che, una notte, aggredirono lui e Brandine per prendere, della giovinezza della ragazza, una purezza che non sarebbe mai più tornata.

Un giorno, poi, al paese giunse un Cane randagio, e tutto cambiò.

Aveva occhi tristi, curiosi, e in qualche modo inquietanti. L’espressione di quell’animale era, nel suo complesso, stupida. Eppure, negli occhi vi era qualcosa di profondamente antico, minaccioso, penetrante.
Furono proprio quegli occhi a comparire sempre più spesso, al paese, proprio mentre qualcuno stava per commettere un illecito, un atto deplorevole, un furto, una monelleria o un truce omicidio.

Gli occhi del Cane, puntualmente, sbucavano da dentro una botte, oltre un cespuglio, dietro ad un muricciolo a secco, al di là dei serramenti screpolati e scricchiolanti delle finestre delle nostre case.
E bastava sentirsi addosso quello sguardo, mesto e minaccioso, rammaricato e rabbioso, perché ogni delinquenza svanisse, e alla malvagità subentrasse il pentimento, qualche lacrima, e la più profonda redenzione. Bastava che quel bastardo ci osservasse, per far sì che fossimo noi stessi ad osservarci, come mai avevamo guardato nelle più recondite pieghe delle nostre anime malvagie. Avevano il potere, quegli occhi, di mostrare l’inutilità del male.

Un giorno, poi, come era venuto, quel randagio se ne andò via. O, meglio, molti pensarono che se ne fosse andato, anche se rimase per sempre il sospetto, in ognuno di noi, che il Cane potesse essere celato da qualche parte: in fondo a un vicolo, dietro ad un fienile, tra l’erba alta di un campo incolto.

E, così, è dal Giorno della Comparsa del Cane che, al paese, non si commettono più crimini e nessuno più è vittima di ingiustizie. Qualcuno dice che, se siamo tutti più buoni, è soltanto per paura. Altri dicono che è stato Dio a mandarci quel Cane, ed altri ancora sono certi che fosse il Diavolo incarnato.

Ciò su cui tutti concordano, però, è che quel Cane ci abbia lasciato il dono di una profonda incertezza. E, anche, la consapevolezza che il dubbio del bene, in fin dei conti, sarà sempre superiore alla futile certezza del male.

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