Come ce le canta Verdi

Roberto Maragliano
Nuovi Media NuovaMente
7 min readFeb 19, 2018

Non ho mai nascosto che tra le mie passioni c’è quella del melodramma. Lì, nel pieno di quell’ascoltare che è congiuntamente un vedere ed un vivere, da una certa età in poi mi sono sentito in sintonia forte, e sempre più, con l’opera di Giuseppe Verdi: un legame che ho alimentato con dischi, cd, cassette, dvd ecc. e che ora coltivo con streaming e presenze, quando possibile, in teatri; ma che, costantemente, cerca fondamenti tramite l’uso della zona consacrata a Verdi della mia biblioteca domestica.

Se invito tutti, e in particolare tutti coloro che a qualsiasi titolo si pongono problemi di educazione, a mettere in programma la lettura di Meno grigi più Verdi, di Alberto Mattioli, appena uscito da Garzanti, non è però per le ragioni di cui sopra. Bensì per quelle di cui sotto, che esprimo prima in negativo, poi con dei ‘ma’ ed infine in positivo.

Perché andrebbe letto, questo libro (disponibile fin da subito anche in digitale, cosa che comincia ad essere rara, in Italia), e perché sarebbe bello che fossero in tanti a farlo?

Perché non è un saggio di musica. Il che significa, per l’italico vulgo, ahimè (quello che rivendica ‘io non capisco nulla di musica’), che non è roba specialistica, per iniziati. Si può essere stonati, inappetenti di musica, e gustarlo.

Perché non presuppone, nel lettore, un forte interesse per l’argomento. Uno prova a sfogliarlo, leggiucchiarlo, per vedere se l’aggancio funziona. Se poi parte dallo scolastico ‘Viva V.E.R.D.I’ o trova nella sua memoria sonora poco più che il ‘Va, pensiero’ tanto meglio. Le sorprese, ne sono sicuro, saranno maggiori.

Perché non è un libro dotto, né accademico: non porta nemmeno una nota a pie’ di pagine, né ci si trova uno straccio di bibliografia (comunque, nei momenti giusti, le segnalazioni di letture fatte e da fare ci sono, eccome).

Perché non si presenta come l’ennesima biografia del ‘cigno di Busseto’, tra le tante di cui disponiamo, diversamente giocate sull’arco che va dall’agiografico al pettegolo, e pronte a farsi compagnia con quelle dedicate all’ ‘aquila di Ligonchio’ o alla ‘tigre di Cremona’.

Altre ragioni, in positivo, le esprimo ora, però apponendovi dei ‘ma’, che sono sempre utili perché non impegnano troppo chi scrive e chi legge.

Raccomando la lettura di Meno grigi e più Verdi perché è scritto da un giornalista-ma: uno che di professione scrive su un quotidiano (La Stampa) e riviste varie, di settore, ma che assolutamente ‘non se la tira’, come si evince dal fatto che è molto presente in Facebook, dove promuove ed accetta discussioni, e pure posta foto di gatti. Uno che scrive bene, e si fa leggere bene.

Perché questo saggio verdiano è il frutto maturo di una propensione dell’autore alla melomania (o meglio alla operaoinomania, come egli stesso ammette in un precedente lavoro): dove il ma, che io aggiungo, sta a chiarire che quella forte partecipazione emotiva (ed esperienziale, Mattioli tiene in pubblico e aggiorna costantemente il carnet delle sue presenze nei teatri di tutto il mondo) non inquina la serenità dell’analisi e del giudizio.

Perché fin dalla prima pagina questo non-biografo di Verdi se la prende con quel ‘curioso Paese’ (il nostro) dove “ancora nel 2017…per essere dichiarato maturo devi sapere tutto della guerra del Peloponneso, ma puoi tranquillamente ignorare chi fossero Monteverdi o Rossini o, appunto, Verdi”: e qui il mio ‘ma’ ipotizza che se per una qualche follia qualcuno volesse mettere, a scuola, Monteverdi e compagnia al posto delle guerre peloponnesiache, be’ lui sarebbe il primo a dispiacersi.

Sì (e così introduco la più importante ragione in positivo, almeno a mio avviso) perché questo che vi propongo di leggere è un saggio di storia in senso lato, che non disdegna di mettere il naso su questioni di antropologia e sociologia. Meno grigi e più Verdi parla infatti degli italiani, anzi ci invita a riflettere sul fatto che è il teatro di Verdi a parlarne direttamente, e a dare di noi stessi un ritratto veritiero e attuale: assai diverso, peraltro, dai tanti che circolano tuttora dentro l’intellettualità collettiva.

Si badi bene, ho detto teatro, non musiche, né libretti, né interpretazioni.

Teatro. Dunque, una messa in scena che necessariamente si rinnova nel tempo, e che non può non proporsi di essere contemporanea all’epoca in cui viene alla luce come performance interpretativa. Se non lo fosse diventerebbe museo. E non ci sarebbe rispecchiamento.

Anzi (è questa una tesi detta e non detta del saggio) le regie ‘moderne’, quelle che secondo i benpensati travestirebbero e dunque tradirebbero il ‘vero Verdi’, non sono affatto da condannare, se, attraverso realizzazioni anche scioccanti, ma che hanno il merito di farci pensare, mettono a nudo questa capacità del teatro verdiano di fungere da specchio, di parlarci e farci parlare: insomma, di “raccontare gli italiani per come sono, e non per come si credono di essere o vorrebbero essere”.

Quello che viene tratteggiato è dunque un Verdi che agisce, passo dopo passo, da un’opera all’altra, come una sorta “Lévi-Strauss padano”: uno che analizza usi e costumi di un popolo, e li rappresenta vividamente, ma senza proclamare troppo questo suo intento, e soprattutto senza costruirci o farcisi costruire sopra un monumento, come è il caso di altre e ben più scolastiche glorie nazionali. Può essere dunque che, leggendo le pagine di Mattioli, in qualche docente birichino maturi l’idea che accostare uomini (e relative opere) così diversi come Manzoni e Verdi possa far del bene non solo alla comprensione dell’uno e dell’altro, ma anche, più in generale, alla comprensione di quel che comporta, per tutti noi, riconoscersi ed essere riconosciuti come italiani. Sarebbe bello!

“Lo sguardo di Verdi è lucidissimo. Come tutti gli uomini del Risorgimento, come tutta la tradizione liberale della nostra cultura, ama appassionatamente l’Italia, ma non ne ha troppa stima. Sa benissimo cosa non funziona e perché, ha ben presente la fragilità del nuovo Stato e le contraddizioni della sua società, l’influenza della Chiesa, l’autoreferenzialità della cultura, la scarsa fiducia nello Stato, il conformismo intellettuale. Sa che la storia ci condanna a una serie di ritardi da colmare rispetto all’Europa, a cominciare proprio da quello, decisivo, nell’unificazione nazionale”. Questo per il politico.

Quanto all’uomo di teatro, lascio a voi futuri lettori il piacere/dispiacere di scoprire, titolo dopo titolo, tra quelli della produzione verdiana che molto piacevolmente tratta Mattioli, in che cosa e per che cosa lui, Verdi, riesce a cantarcele così bene.

E visto che di attualità e veridicità di un ritratto si discute, mi permetto un’ultima citazione, massimamente ‘educativa’, un’esortazione ad essere, tutti noi, ‘meno grigi’. La prendo dalle pagine finali non senza chiedervi scusa per la lunghezza, che poco si addice ad un post. Ma quanno ce vo’ ce vo’.

“…cosa bisognerebbe fare, per ridare a Verdi il suo posto nella coscienza degli italiani? Intanto, io credo, iniziare a considerare la contemporaneità come un’opportunità, non come una minaccia: concetto, fra l’altro, assolutamente verdiano. Partendo proprio da quella che della contemporaneità è l’espressione più trionfante: la tecnologia. Internet ha cambiato radicalmente anche il modo di andare all’opera: da un lato, rendendo elementari procedure di prenotazione e d’acquisto che un tempo erano complicatissime; dall’altro, con lo streaming, portando sul PC di chiunque abbia una connessione tutte le produzioni d’opera più importanti nei teatri che si sono attrezzati per realizzarlo (la Scala, che pure è uscita da un radicale restauro, ovviamente no, il che la dice lunga sull’ottusità conservatrice che domina in Italia e che purtroppo a lungo ha permeato quel teatro). I progressi tecnici dell’amplificazione permettono di ascoltare l’opera in luoghi impensabili: nei teatri non ce n’è alcun bisogno, ma ci si potrebbe decidere a usarla quando l’opera va in trasferta, in luoghi irrituali o in Arene la cui acustica è ‘perfetta’ solo nelle mitomanie locali, e ogni riferimento a quella di Verona è puramente voluto. A parte tutto, i voli low cost, con l’aereo che costa meno del taxi per l’aeroporto, permettono una mobilità ‘lirica’ senza precedenti, come hanno capito i globetrotter che spendono meno e godono di più in qualche teatro straniero che fra le muffe di quelli italiani. Ormai una nuova produzione in un grande teatro è un prodotto combinato e multimediale, che passa per lo spettacolo propriamente detto ma si moltiplica con la diretta streaming, quella nei cinema, i passaggi televisivi, l’immancabile DVD e tutto il buzz cotto e mangiato su Internet. Parliamo anche dei social, strumento potentissimo di divulgazione intelligente, basta saperla fare senza scandalizzarsi perché i gggiovani scrivono ‘xché’ invece di ‘perché’. È la stessa ragione per la quale Francesco Maria Piave, Dio l’abbia in gloria, scrive ‘tai’ invece di ‘tali’: risparmia una sillaba, e quanto a obbligo di sintesi il suo datore di lavoro Verdi non era meno ossessivo di Twitter. I teatri che sono sbarcati in forze sui social hanno capito che non sono solo un formidabile strumento del loro marketing aggressivo e tambureggiante, ma anche di avvicinamento del pubblico. Sono condivisione: e la condivisione, far sentire la gente, tutta, parte di una comunità, è esattamente la ragione del successo di Verdi”.

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Roberto Maragliano
Nuovi Media NuovaMente

Già Università Roma Tre. Mi occupo di educazione e media. Molto di quanto ho scritto e detto sta in rete su Scaffale Maragliano (https://goo.gl/XbT62M)