Stampare, pensare, digitare libri

Roberto Maragliano
Nuovi Media NuovaMente
7 min readDec 3, 2017

Ho accettato con molto piacere, tempo fa, dagli amici di Proteo e MCE, l’invito a presentare la figura di Céléstin Freinet nel convegno padovano del primo dicembre 2017 dedicato al tema Pedagogia del Novecento per guardare avanti. Strada facendo mi sono reso conto delle notevoli difficoltà che l’impegno nasconde.

Qui ne esplicito solo tre, ma, vi assicuro, sono molte di più.

La prima ha a che fare con immagine e immaginario. Capita frequentemente oggi che chi insegna o si accosta all’insegnamento incontri nei suoi percorsi i nomi di Paulo Freire o Lorenzo Milani, e riconosca alle due figure quella dote di laica sacralità che viene da un impegno, il loro, costantemente e coerentemente alimentato da tensioni escatologiche e istanze palingenetiche, sul piano politico e sociale. Non a caso numerosi fili rossi associano questi due grandi, e li pongono in un costruttivo rapporto di dialogo dentro lo strato più nobile dell’immaginario pedagogico del presente: un’osservazione, questa, che è stata correttamente proposta anche nel corso del convegno, da Marco Catarci. Ma non è così per Freinet. È infatti ben più raro che ci si imbatta nel suo nome, dentro i documenti scolastici e pedagogici che circolano attualmente (se poi a qualcuno il nome dice poco, il mio consiglio è che ricorra per una prima informazione a questa scheda). Inoltre, per come sono generalmente presentati dalla letteratura, il suo agire e il suo dire presentano una dose assai più ridotta di elementi di idealità e nobiltà. Freinet è, di fatto, un convinto materialista, e nulla lo trattiene dal rivendicare questa sua vocazione. Va controcorrente. Non vuole passare per un ‘buono’, tanto meno si riconosce nelle ragioni del pensiero che oggi chiameremmo ‘buonista’ e che nella fase della ricostruzione postbellica lui vedeva presenti in tanta parte dell’elaborazione pedagogica attivistica, di stampo statunitense e non solo. In termini più generali, Freinet non intende figurare come grande intellettuale o politico o sacerdote (sia pure laico): vuole essere, semplicemente, maestro. Maestro di scuola, soltanto. Ma…

La seconda riguarda la possibilità di accedere, oggi, alla produzione dei (e sui) tre. Un semplice giro in libreria e biblioteca toglie ogni dubbio. Nel pescare testi di don Milani e di Freire non si incontrano ostacoli di sorta. La letteratura su Freire è poi relativamente abbondante e comunque aggiornata, mentre quella su Milani appare abbondantissima e più che aggiornata. Diversa, diversissima appare invece la condizione di Freinet. Molti dei suoi scritti sono stati pubblicati, in traduzione italiana, a ridosso della loro uscita in Francia. E hanno incontrato un indubbio successo di vendita, fino agli anni Ottanta, però. Poi, il silenzio. Anche perché (comunque non solo perché) alcuni degli editori che lo fecero conoscere, allora, sono successivamente usciti dal mercato: gli Editori Riuniti, certamente, ma anche La Nuova Italia, almeno per quanto riguarda produzione e catalogo storico in fatto di saggistica. Freinet è insomma colpito da una sorta di damnatio memoriae. Che rischia di riguardare anche molte delle tecniche didattiche da lui promosse: il testo libero, la tipografia scolastica, lo schedario autocorrettivo, la corrispondenza scolastica, l’uso della pellicola cinematografia e delle registrazioni audio. Certo, lo scenario tecnologico generale è drasticamente cambiato, e dunque molte di quelle cose oggi non avrebbero più senso, o al limite ne hanno in una chiave diversa. Ma…

La terza ragione di questa collocazione laterale di Freinet, rispetto alle altre due figure, nel quadro del Novecento pedagogico, chiama in causa la questione linguistica. Non, si badi bene, in quanto oggetto di riflessione e intervento educativo, perché su questo, sulla dimensione liberatoria da attribuire alla conquista della parola e al ruolo che vi potrebbe svolgere l’educazione c’è piena convergenza tra i tre. Quanto sullo stile usato per comunicare esperienze e idee proprie. Quello di Milani e Freire è, sempre, uno stile intellettualmente e letterariamente controllato, anche nei momenti più caldi e tesi. Freinet figura al contrario come un duro, anche quando scrive. Non conosce ironia, piuttosto ricorre al sarcasmo. E non la manda a dire a nessuno. Ma…

…ma a dispetto di questa collocazione marginale (nell’empireo della pedagogia, nella libreria, nella buona creanza espressiva), a dispetto del suo essere tout court comunista (non vetero-comunista), Freinet è attuale; scomodamente, provocatoriamente attuale. Almeno, così la penso io. Costringe a pensare diversamente- Se poi lo si condivide o se ne condivide lo spirito, anche solo in parte, e si è maestri o aspiranti maestri o comunque insegnanti ed educatori, sollecita ad agire in modo nuovo, con bambini e ragazzi, iniziando da domani stesso. Per questo (e non solo per questo) mi piace e m’è piaciuto presentarlo.

Ora lo faccio anche qui con voi, impegnandomi a trattare però un solo tema dei suoi, tra i molti possibili: quello del libro scolastico. Vi chiedo, in cambio, la pazienza di leggere (e meditare passo passo su di)un brano che breve non è. Ma che, ne sono certo, non vi lascerà indifferenti. Soprattutto se lo metterete in anacronistico dialogo con il documento di qualche mese fa sul declino dell’italiano a scuola (per chi se lo fosse perso sta qui). E tanto più ancora se accetterete, almeno come ‘ipotesi di lavoro’, l’idea, che Freinet deriva da Marx, di associare il maestro del Novecento al lavoratore dell’Ottocento. Sono ugualmente proletarizzati ed espropriati, lui sostiene, della loro autonoma e personale intelligenza: il lavoratore è stato reso dipendente dalla macchina (e dall’alienante intelligenza che le è propria), il maestro si fa dipendente dal manuale (e dall’alienante intelligenza che gli è propria). Ve l’avevo anticipato che Freinet è scomodo; è un duro, no? Siete disabituati ad una pedagogia ‘cattivista’? Eccola qui. Provate dunque a leggere direttamente Freinet. Il veleno, in piccole dosi naturalmente, non può che fare bene. Eccolo qui.

“I manuali sono un mezzo di abbrutimento. Essi servono, e talora bassamente, i programmi ufficiali. Molti addirittura li appesantiscono, per non so quale follia, di imbottiture ad oltranza. Ma raramente i manuali sono fatti per il bambino. Essi dichiarano di facilitare, di ordinare il lavoro del maestro; si vantano di seguire passo passo … i programmi. Ma il bambino seguirà se può. Non ci si è certamente preoccupati di lui.
Perché i manuali preparano per lo più l’asservimento del bambino all’adulto e, più specialmente, alla classe sociale, che, per mezzo dei programmi e dell’assegnazione dei fondi, dispone dell’insegnamento.
Vi sono certamente dei pedagogisti liberi e ingenui che si basano, al contrario, sulle esigenze del bambino per arrivare ad una concezione meno ortodossa dell’insegnamento. Ma i loro manuali sono appena tollerati. In ogni modo le case editrici ben pensanti disdegnano di assumerne la pubblicazione e solo i manuali più nocivi conoscono le grandi tirature.
Ma anche se i manuali fossero buoni si avrebbe tutto l’interesse a ridurne il più possibile l’impiego. Poiché il manuale, specie se impiegato fin dall’infanzia, contribuisce ad inculcare l’idolatria della carta stampata. Il libro diventa presto un mondo a sé, un qualcosa di divino, di cui si esita sempre a contestare le asserzioni. ‘È scritto nel libro…’. Mentre bisognerebbe insegnare che il contenuto del libro non è che un pensiero stampato, e, come ogni pensiero, soggetto ad errore, e che dunque si deve poter contraddire come si contraddice una persona che parla.
I manuali uccidono così ogni senso critico; probabilmente, ad essi noi dobbiamo queste generazioni di semi-analfabeti che credono, parola per parola, tutto quanto è scritto nel loro giornale.
Ma, se è così, la guerra ai manuali è veramente necessaria.
Ma i manuali asserviscono anche i maestri. Li abituano a distribuire uniformemente, per degli anni, la materia inclusa senza curarsi se il bambino possa assimilarla. Una nefasta routine s’impadronisce dell’educatore.
Poco importano tutte le aspirazioni infantili quando in quelle centinaia di pagine di scrittura serrata è racchiuso tutto l’ideale: la materia sufficiente per riuscire agli esami.
Bisogna assolutamente che gli educatori si liberino da questa distribuzione meccanica per dedicarsi seriamente all’educazione e all’elevazione del bambino”

Questa pagina l’ho tratta da Elise e Céléstin Freinet, Nascita di una pedagogia popolare, pubblicato da La Nuova Italia nel 1955, sei anni dopo l’uscita dell’originale in Francia. Ė un libro pressoché introvabile oggi. Perché non rimetterlo in circolazione, perché non provano a farlo, dentro i loro circuiti, le associazioni professionali dei docenti o le biblioteche di settore delle università? Gli strumenti tecnici per operazioni del genere (costosissime e dunque impossibili se le si volesse attuare via carta) sono alla portata di tutti. Ma a difettare, piuttosto, sono per un verso la volontà politica di fare questa ed altre operazioni di recupero di una stagione forte dell’elaborazione pedagogica internazionale e nazionale, e per un altro l’impegno a liberarsi di argomenti sul rispetto dei diritti autoriali ed editoriali che spesso vengono assunti acriticamente e impiegati come alibi per coprire l’incapacità di agire. Altre cose potrei aggiungere su tutto ciò, e in particolare sulle responsabilità che è doveroso attribuire anche alla politica, ma chi è arrivato fin qui non avrà certamente bisogno che gliele dica.

Piuttosto, appurato che non c’è una sola delle frasi qui riportate che non meriti discussione, credo che nessuno possa nascondersi l’attualità di simili considerazioni sul libro scolastico, e non solo o non tanto per la scuola primaria, oggi, quanto per quella secondaria, che Freinet ebbe modo di toccare solo marginalmente.

Se vogliamo tener desto lo spirito almeno del pensiero di Freinet (vale a dire l’impegno ad arricchire lo spazio tra docente e allievo di mediazioni e mediatori tecnici, che integrino e compensino le inevitabilmente limitate risorse dei singoli) occorrerà impegnarsi a cogliere nel confronto in atto sul ruolo del digitale nella scuola la occasione per sollevare questioni di fondo sulla didattica e le libertà di azione e di pensiero da far conquistare a docenti e studenti. Personalmente lo sto facendo da qualche tempo, come risulta da miei interventi in proposito nei social (qua e ) e ora dalla pubblicazione di Editori digitali a scuola, dove si invitano gli insegnanti e le loro classi a fare del libro un oggetto e non solo uno strumento di conoscenza e a operare fattivamente nella prospettiva di editare propri libri. Il che equivale, insegna Freinet, a scriverli, illustrarli, confezionarli, diffonderli.

Col digitale tutto questo è possibile. Manca, talora, proprio lo spirito.

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Roberto Maragliano
Nuovi Media NuovaMente

Già Università Roma Tre. Mi occupo di educazione e media. Molto di quanto ho scritto e detto sta in rete su Scaffale Maragliano (https://goo.gl/XbT62M)