Afterlife

Attimo
ok with my decay
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16 min readJul 7, 2015

Afterlife, oh my God, what an awful word
After all the breath and the dirt and the fires are burnt
And after all this time, and after all the ambulances go
And after all the hangers-on are done hanging on to the dead lights
Of the afterglow

Il ciclismo si basa su alcuni principi crudeli della fisica. Se smetti di pedalare, ti fermi o peggio, in salita, addirittura torni indietro. O ancora. Se in discesa prendi anche soltanto un sassolino molesto, può capitarti di schizzare via a 90km/h sull’asfalto: un secondo prima, vedi la strada, un secondo dopo, vedi il cielo. Il ciclismo è una sequenza di drammatici momenti “prima”, e momenti “dopo”. La notte del 14 febbraio 2004, quando Pantani è inciampato nell’ultimo sassolino della sua ultima discesa, lasciandoci in mano un ciclismo putrefatto, come si lascia un figlio nato da una gravidanza non desiderata in un cesto davanti a una parrocchia o nell’immondizia, di notte, ho capito alcune cose del concetto di assenza, prima di tutto, e anche del ciclismo stesso, della strada, e dei secondi prima e dopo. “E’ morto Pantani, cazzo”: venni a saperlo così, con un laconico sms da parte di un amico. Mi rintanai allora in casa, incredulo prima ancora che abbattuto. Perché non si trattava di ciclismo, e di lutti, e di drammi, come sempre del resto nelle storie in cui si mangia asfalto e si distruggono persone. Si trattava di consapevolezza, semmai, la coscienza che si può stare male anche per chi non hai mai conosciuto, ma solo visto in televisione, si può stare male anche soltanto per un innocente pomeriggio di fine luglio, quando la cosa peggiore che possa capitarti è addormentarti sul divano e perderti la diretta della Rai, e la cosa migliore, invece, è innamorarti della scia di un copertone colorato di giallo sull’asfalto di una salita che non avevi mai visto con i tuoi occhi. Si chiama ciclismo, ma a che fare più con la psicoterapia, la metafisica, la filosofia travestita da tutine sintetiche aderenti, barrette di maltodestrine e cartelli stradali. Si chiama ciclismo, cazzo, ma è soltanto una tremenda questione di assenza, di assenze, di rievocazioni e di sassolini ingoiati.

I’ve gotta know

In camera mia tra le prime cose che vedo alla mattina appena mi alzo c’è la prima pagina della Gazzetta dello Sport del 28 luglio 1998, di una bellezza definitiva, non soltanto per il titolo e l’immagine che narrano della leggenda di Pantani, “Eroe nella bufera”, quanto per l’eccezionalità di riportare esclusivamente un solo argomento. C’è solo ciclismo, in quella prima pagina, tutti gli altri sport assenti, a fuoco c’è soltanto il ghigno furioso di Pantani. Sono passati talmente tanti anni, da quel giorno in cui Pantani aprì il Tour de France come si dischiude un uovo, che ormai nemmeno mi ricordo esattamente come andò quella tappa. Pioveva, sicuramente, pioveva talmente forte sulle strade francesi da inondare d’acqua gli obiettivi delle telecamere, offuscando le immagini della tv. Gianni Mura descrive la scena così: “Si scende nella nebbia, si risale verso il Galibier. Qualcosa, qualcuno si muove. Leblanc dà qualche colpo di spillo, Riis lo placca. Leblanc ci riprova, con Escartin. Stavolta interviene Ullrich in persona. Terza bottarella di Leblanc. Utile, comunque, ha sfoltito il gruppetto, ha fatto perdere i gregari alla maglia gialla. E prima e ultima deflagrazione di Pantani. Ullrich resta di marmo, Leblanc è passato in tromba. Allacciate le cinture, Pantadattilo decolla. Mancano esattamente 4500 metri alla cima del Galibier. Quelli più duri dell’intera salita”.

Can we work it out?
Let’s scream and shout ‘till we work it out
Can we just work it out?
Scream and shout ‘till we work it out?

Ci sono molti vuoti nel ricordo di quel pomeriggio di fine luglio, ma un nome mi è sempre rimasto stampato, come un tatuaggio scritto dalla Storia sulla mia pelle, Galibier, il nome, come soltanto i luoghi e le strade possono rimanerti impressi. Galibier come, che so, Stelvio, Gavia, Tourmalet, Piave, madre, acqua, terra, idrorepellente, Berlino: il sillabario di un inchiostro che la pioggia non sbiadisce, ma rinfiamma, nomi con cui vorresti chiamarci i figli, o i tuoi cani, o scriverli sui muri di casa tua. Una toponomastica fatta di sentenze, prima ancora di ricordi o affetti o eventi. La storia si fa con colpi di scalpello, come un falegname scolpisce una tavola di legno, e i nomi come Galibier sono i colpi di scalpello che lasciano rughe sulla nostra pelle. Quel pomeriggio di luglio Pantani ha scavato una ruga sul mio stomaco, e ci ho messo anni per riempirla con il vento che meritava. Una ruga come una gola tra le Alpi dove volteggiavano falchetti e prati gialli, come i suoi tubolari. Ci ho messo anni per arrivarci, in quel punto, con i miei occhi, e bagnare una ruga invisibile con l’assenza che ora regna in quel tornante, quando Pantani fermò un attimo l’andatura, il ritmo sui pedali saltò una nota sullo spartito, per vedere se qualcuno lo stava inseguendo nell’impresa, e non vide nessuno. Solo assenza. Il vuoto di un eroe, sul Galibier.

Afterlife, I think I saw what happens next
It was just a glimpse of you, like looking through a window
Or a shallow sea
Could you see me?
And after all this time
It’s like nothing else we used to know
After all the hangers-on are done hanging on to the dead lights
Of the afterglow

Così, quindici anni dopo da quel pomeriggio, mi decido. Vado in cima alle montagne, a rimanere immobile a bordo strada, tra cartelli stradali da rubare ed esporre in camera come fossero un urlo muto di Munch, in un passo alpino dove si sono celebrate le battaglie combattute sul divano o nei bar di fine luglio, a mettermi in coda in un rifugio sferzato dal vento e dalle chiassose famiglie in coda al bar per acquistare una Coca-Cola per il figlio lamentoso. Salgo in macchina in direzione Francia, Col du Galibier, tagliando tutta la pianura che separa me dal ciclismo per respirarne l’essenza purissima, invisibile. Raggiungo le Alpi francesi anche soltanto per appoggiare la mano sull’asfalto, come uno stetoscopio sul petto di un anziano signore con la canottiera bianca dalle strette spalline sollevata, che mi lascia ascoltare il suo sordo battito. Ecco, decido di salire, in un pellegrinaggio profano che di sacro ha soltanto il rimpianto per non riuscire più a farsi così male, per un campione, un uomo, un ciclista in mezzo alla bufera, come un Dio perduto, caduto dal cielo e finito nel burrone, come quando c’era Pantani, la sua divisa Mercatone Uno, prima che finisse rinchiuso in un’enorme biglia a lato dell’autostrada.

But you say
Oh
When love is gone
Where does it go?
And you say
Oh
When love is gone
Where does it go?
And where do we go?
Where do we go?

Ripercorrere il Col du Galibier e le salite del Tour de France è come sfogliare un vocabolario in una biblioteca deserta: serve a riannodare il proprio stomaco attorno ai significati dello sport, in una scena disadorna di tifosi ammassati, spoglia di rifiuti a bordo carreggiata, senza pale degli elicotteri che ti spettinano i timpani e ti trasportano dentro uno spettacolo televisivo, prima ancora che in una mattanza ancestrale. Dove andiamo? A immolare litri di benzina e giorni di ferie (agnelli sacrificali delle estati nel nuovo millennio) per ripercorrere più che possiamo quelle strade. Quella salita. Perché nel silenzio di un tornante della D902, la mitica Route des Alpes, tra un camper e l’altro, riesco a distinguere che cosa voglia dire il ciclismo, che cosa significhi l’assenza, perché davvero si muore e si vive e si risorge e ci si danna per l’eternità, in bicicletta. Trionfi e cadute, imprese e sconfitte. Il buio di una cotta e l’incredulità di volare su pendenze quasi verticali. Questa è la retorica del ciclismo. Poi c’è la nostalgia per uno sport nato vecchio, cresciuto con le borracce piene di passato (e dunque anche di vizi e sotterfugi più o meno inconfessabili). La fatica e la sofferenza, in un set cinematografico illuminato dai fari delle Fiat rosse, le auto della Giuria, l’esaltazione di telecronisti dai cognomi taglienti (De Zan) e grossi tedeschi come Jan Ullrich curvi sui manubri che assomigliano, nel momento dell’umiliazione sportiva, più a un capo ufficio invece che a un corridore. Il candore del bianco e del giallo di una pietra miliare a bordo strada, sia nella sua versione granitica che in quella scintillante di contemporanea lamiera, a indicare chilometri da tradurre in fatica, una salita che non si turba di scalfire prati ricolmi di fiori gialli, dello stesso colore del primato al Tour de France. Dove andiamo? Saliamo verso l’assoluto, con la naturalezza ingegneristica e stilistica della Route des Alpes, che accomuna uno stradino o un ingegnere civile che la disegnò all’inizio del secolo scorso, alla dolce ferocia di Pantani nella bufera del 1998.

Where do we go?

Il ciclismo è una lotta per l’emancipazione dagli altri, dalla gravità, da tutte quelle forze negative e contrarie che cercano di ritrarti a loro, siano Ullrich o un avversario qualsiasi, le tattiche di squadra, un’alimentazione non adeguata, una preparazione condizionata dagli infortuni, le invidie, le speranze, i sogni che sempre avvelenano il pozzo della lucidità, trasformandoti in impresa o fallimento. Se il ciclismo è una continua e perseverante emancipazione dal fallimento o dall’anonimato, il Tour de France rappresenta la piazza Tienanmen dei corridori. Guido Vergani lo definì «un massacro», che «Henri Desgrange organizzò a partire dal 1903 per il giornale L’Auto, in sei tappe da Parigi a Parigi, toccando Lione, Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Nantes: sei lunghissime e anche notturne tappe, inframezzate da tre giorni di riposo ciascuna. Era, il Tour del pionierismo, un’avventura zingaresca, fitta di eroismi, ma anche di imbrogli, di chiodi seminati sulle strade, di corde lanciate dalle auto a trainare gli spompati».

And after this
Can it last another night?

Negli anni Novanta il ciclismo stava compiendo il suo processo di trasformazione da leggenda a fenomeno manipolato da tattiche (e alchimisti). Marco Pantani era l’ultimo corridore rimasto che ci ricordava come si sognava su due ruote. Reduce dalla vittoria al Giro d’Italia, nel luglio del 1998 il Pirata non era il favorito di quell’edizione del Tour. Eppure, proprio nel punto più difficile dell’intera corsa, nell’ultima occasione per far saltare il banco e ribaltare una situazione che vedeva in testa un armadio tedesco, il passistone Jan Ullrich, nella tappa che si concludeva a Les Deux Alpes, Pantani ha chiuso gli occhi e si è messo a sognare. Staccando tutti, sulla salita del Galibier, lontanissimo dall’arrivo, nella tempesta. Prendendosi la maglia gialla, e le nostre viscere. Infatti, quando vedi che finalmente qualcuno riesce dove tu nemmeno ci provi (che sia una salita delle Alpi o la vita poco importa), il Farcela è sempre la miccia che fa divampare l’entusiasmo, un flash che ti lascia cieco per tutti gli anni a seguire, fino a una sera di febbraio buia e inutile dove si muore soli dopo aver tentato di vivere, soli, anche solo per un tornante.

After all the bad advice
Had nothing at all to do with life
I’ve gotta know

Devo sapere dove finisce l’impresa e inizia la perenne assenza, culla dell’eco della vittoria. Culla ancestrale del ciclismo, e del Tour de France, che Mario Fossati così sintetizzava: «L’ammirazione e l’angoscia, la rivolta contro l’ingiustizia del destino e la rassegnazione sono i sentimenti contraddittori che hanno abitato e ancora abitano il Tour. La grande corsa sfiora boschi e vigne, raggiunge laghi preziosi come acquerelli: l’Oceano, a volte il Mediterraneo di raso. La accolgono i francesi in vacanza, che hanno incominciato ad amare il Tour da ragazzi: e che in attesa del passaggio trasformano il loro Paese in un gigantesco picnic. Pedala sempre verso i luoghi dannati: le montagne che possono essere il Puy de Dome, un cratere spento: il Galibier, l’Izoard, l’Iseran: i vischiosissimi, resinosi Aubisque e Tourmalet». Devo sapere. Andare dove tutto parla di ciclismo, per provare ad ascoltare la voce del fantasma di Pantani e della Storia.

But you say
Oh
When love is gone
Where does it go?

La vera prova di ammissione nel tempio della storia è il versante nord della salita verso il Gran Galibier, quello che percorro scrollandomi di dosso l’iniziale euforia da dogana italofrancese, passando per il dolce e abbandonato Moncenisio, imparando a conoscere l’infatuazione dei francesi per l’energia idroelettrica (dighe e centrali disseminate ovunque, tra i boschi e le rupi), attraversando il Col de Telegraphe, il cui nome didascalico non può che ispirare rispetto. Mi fermo un attimo dove la strada spiana, già brulicante di ciclisti, fotografando una foto, un’immagine storica di corridori d’epoca per celebrare il Tour de France. Nulla di eclatante, solo l’eccitazione di una scritta che emana fascino e storia nell’alternarsi superbo delle sue stesse vocali e consonanti. Leggo Tour de France e sono rapito magneticamente dalla strada, che ora si spoglia di ogni velleità per mostrarsi cruda e verticale. La salita del Galibier spiega molte cose sul rapporto tra mito e ciclismo, e tra propaganda del mito stesso sull’immaginario collettivo mondiale. Mondiale, sì, perché mentre salgo con finestrini rigorosamente abbassati, supero pedalatori della domenica che parlano tutte le lingue del mondo. Inglesi, statunitensi, australiani, canadesi, ovviamente francesi, qualche italiano. Olandesi, belgi, danesi, spagnoli, argentini. Ci siamo proprio tutti a celebrare messa, in una folla sui pedali tra ostie di carbonio e borracce di acqua santa di una tale intensità numerica, oltre che emotiva, finora mai incrociata sulle sorelle salite alpine italiche. E’ la potenza delle parole, delle sigle che cento e più anni di storia ci hanno iniettato, a cavallo di un marketing più robusto di quello roseo, nelle nostre vene. Io sono lì, vorrei abbandonare l’auto a bordo strada e rubare la bicicletta al primo che passa. E mi sento contrito, nell’indegno quanto misero sforzo dei miei muscoli che si riduce a pigiare il pedale della frizione e nulla più, e sfogo questa mia frustrazione automobilistica fermandomi quasi a ogni tornante. Voglio il silenzio, lo cerco e lo trovo, quando tutte le macchine che arrancavano innervosite dietro al mio ritmo riflessivo, finiscono di superarmi, trovo il silenzio che si adagia a farmi compagnia in tornanti di cui nemmeno s’intravede lo sviluppo successivo. Un silenzio rotto come un bisbiglio notturno di una falena dall’ennesimo ciclista sfinito, il cui spasimo dei polmoni s’intona perfettamente, come in un balletto tra tenore e baritono, con il cigolio della catena oliata. E il diaframma che si richiude dopo il mio scatto è il faro di un’auto sul cui parabrezza la falena si va a schiantare: senza dire nulla, l’immagine del ciclista stanco e sudato e paonazzo si stampa nelle viscere della mia reflex, scomparendo dietro il crinale della montagna. Riprendo la marcia, scalando tutti i 2645 metri di un dipinto stampato a muro, un affresco più che un quadro a olio, dove i colori impregnano l’intonaco unendosi inscindibilmente.

Can we work it out?
Scream and shout ‘till we work it out?
Can we just work it out?
Scream and shout ‘till we work it out?

Pantani il 27 luglio 1998 mise a ferro e fuoco il Tour proprio qui, a Les Granges du Galibier, 2301 metri di altitudine. L’incendio divampò nei pressi di una latteria, Fermé du Galibier, dove si possono acquistare formaggi di alpeggio. La riconosco nel prato a fianco della strada, racchiusa da assi di legno verde. Osservo minuziosamente l’asfalto di quel rettifilo, dove nel ’98 rimanemmo tutti smarriti, di fronte a qualcosa che prima non era (lasciarsi alle spalle gli altri) e dopo qualche colpo di pedale diventò (essere, finalmente, definitivamente, soli). E’ il tratto con la pendenza più dura del Galibier, dove la strada è scavata tra le rocce: “Figurarsi se le cose francesi non sono grandi. Qui la montagna non ha complessi, il viaggiatore è bombardato di superlativi” (Paolo Rumiz). L’atmosfera diventa sacrale, perché proprio nel punto dell’incendio del ’98, in una radura racchiusa da un tornante dolce e rotondo come un grembo materno, si erige il monumento ‘Pantani Forever’, una lastra di vetro che raffigura la sagoma del Pirata, bianca come le nuvole alle spalle nelle quali il numero di gara, il 21, si confonde. L’hanno voluto i francesi, anche loro sedotti dai fuochi d’artificio di Pantani, è stato costruito da un artista italiano, Massimo Salvagno, ed è sorretto da pietre piemontesi. Cerco di chiudere gli occhi senza sembrare retorico, sovrapponendo mentalmente l’asfalto asciutto e bagnato dal sole di oggi, con quello bagnato dalla pioggia e dalla folle ferocia di Pantani, dei suoi tubolari gialli, della bandana zuppa sul suo capo bollente, di allora. Quando i due flussi collimano, avverto tutto il peso dell’Assenza. Il peso di un luogo che è diventato mitico non per quello che era in sè, ma per le persone che l’hanno reso un tempio profano, per coloro che ci hanno lasciato soltanto da soli con il peso dei ricordi. Arriva una famiglia di turisti francesi, dall’auto zeppa di valigie e frigo-bar scende una fanciulla dai capelli mossi e scompigliati dal vento come una maglia gialla in discesa. Guarda la lastra di vetro, guarda la madre, attende un secondo e poi le chiede di che cosa si tratta. Non capisco una sola parola di francese, ma mi basta sentire risuonare con accento d’oltralpe “Le Pirate” per mandare in frantumi il velo tra Impresa e Assenza. Serve una voce straniera per farti piovere in tasca, per tirarti una palla di neve addosso direttamente dall’Aldilà, con il ghiaccio che finisce tra la tua schiena e il collo della maglietta, serve un accento diverso a scandire qualcosa di tuo, per sentirtelo scendere sulla tua pelle. “Le Pirate, Pantanì”. Quell’uomo minuto, rabbioso, come e te e tutti noi, non se n’è mai andato da qui.

But you say
Oh
When love is gone
Where does it go?

Dove se ne va Pantani, quando scatta “senza voltarmi indietro, senza pensare a niente”, come raccontò il giorno del Galibier? In mezzo a queste cime severe e semplici, dove i gerani dai balconcini dei paciosi paesini di fondovalle scompaiono insieme ai balconcini stessi, e ci si può aggrappare soltanto al guardrail, e poi nemmeno più a quello, perché si sale in alto, si sale troppo, sbattendo in faccia a cime di granito, così severe nei loro oscuri colori, così semplici nelle loro geometrie, molto meno artistiche rispetto alle vezzose e rosee Dolomiti, per esempio. Qui le Alpi sembrano austere, solenni, laddove la dolomia barocca e seducente è assente: serve materiale perentorio, buono per un monumento sovietico prima ancora che per una catena montuosa, dove scolpire le verità del ciclismo. A Torino, per dire, c’è un monumento dedicato al Campionissimo, quel Fausto Coppi che fu l’ultimo italiano, prima di Pantani, a vincere Giro e Tour nello stesso anno. Attorno al suo bronzeo busto, sono deposte le pietre delle montagne che Coppi attraversò in bici. Maurizio Crosetti le descrive così: “La prima cosa che viene in mente è il viaggio che avranno fatto i sassi, e le persone che li avranno raccolti, e le altre persone che avranno guardato le prime raccogliere, caricare (su un vecchio furgone? nel bagagliaio di un’auto nuova?) e poi ripartire. Come un gioco, o un passaparola del tempo. La pietra dello Stelvio è rosa e marròn. Quella di Trafoi è beige. L’Alpe d’Huez è grigia con una riga rossastra, invece il Galibier è bianco ghiaccio. E poi il mitico Izoard, bianco e grigio a struttura reticolata. La memoria è come un dolore di pietra, pesante nel tempo passato”.

And you say
Oh
When love is gone
Where does it go?

Proseguo nel pellegrinaggio puntando la cima, il volto del Gran Galibier che si staglia a ovest della sella. La strada diventa ancora più tortuosa, azzardata, cinematografica. La vegetazione scompare e rimangono solo pietre e vento. In un’altra sosta, in uno degli ultimi tornanti (saranno almeno una quarantina, salendo da nord), un ciclista italiano ansimante mi chiede di immortalarlo con la sua fotocamera compatta. Accetto, sto per scattare ma lui mi ferma, “aspetta che torno indietro, fammi la foto mentre pedalo, si deve vedere che sono scoppiato”. Ansimante e onesto. Così gira la bici, carica di borse da viaggio appese al parafanghi posteriore, scende e risale camminando, sorretto alla bici stessa come se fosse un bastone. Vuole ostentare la sua fatica. Mi spiega poi sorridente che viene da Bergamo, e che sta pedalando da giorni, ma oggi “non ne ha più, è troppo dura”. Risalgo in auto e lo supero impietosamente, ormai sono arrivato. Scoprirò poi al ritorno, su una Wikipedia che durante il pellegrinaggio ho avuto il pudore di non consultare, che la strada del Galibier venne tracciata per scopi militari e fu terminata nel 1890. A due chilometri dalla vetta appare una galleria (vietata al passaggio delle biciclette), che evito accuratamente per scegliere il libero e aperto ricciolo finale: fu realizzata per evitare alle truppe e ai carri il transito sul passo sempre battuto dal vento.

Where does it go?

Il Tour de France conobbe le sentenze del Galibier il 10 luglio 1911, nella ricerca del dramma perpetuata dal fondatore della Grande Boucle, l’Herni Desgrange il cui monumento si staglia imperioso proprio all’uscita della galleria, un totem di pietra dal morbido colore caffelatte e dalle dimensioni così orgogliose, ben superiori persino a manufatti militari. Il primo a passare in testa al Galibier fu tale Emile Georget, dopo due ora e mezza di indicibile fatica. Desgrange alla notte scrisse così: “Le altre cime del Tour finora toccate, Tourmalet compreso, sono nullità al confronto di questo gigante”. I miei occhi, in una domenica di agosto del 2013, vedono invece una congestione di ciclisti che cercano di conquistare il cartello che recita la fine della salita, “Col du Galibier”. Un cippo sommerso da polpacci depilati, barbe sudate, caschetti colorati, è tutta così colorata, la cima del Galibier dove si sentono tutte le voci del mondo, dove il silenzio è congelato quattro chilometri prima nel vetro del monumento a Pantani. Lì sopra, invece, non si riesce a sentirne l’assenza. Proprio sul crinale del passo una riga bianca, àncora dei cronometristi delle mille corse passate, non è ancora sbiadita, calpestata dai tacchetti delle scarpe dei ciclisti che rendono incerta l’andatura sull’asfalto. E’ tutto quello che rimane della storia, che nemmeno il vento riesce a cancellare.

It’s just an afterlife

Perché il ciclismo, chiosa Gianni Mura, “ha un sacco di difetti, diciamo pure di colpe, ma è ancora lo sport più ricco d’umanità, di solidarietà”. Mi fermo, scendo dalla mia auto con la ventola di raffreddamento in azione. Cammino fino a uno dei mille burroni a disposizione, mi scorgo e vedo sotto di me, centinaia di metri sotto di me, il serpente che la Route des Alpes incide sul fianco della montagna. E non ci sono auto, nemmeno divinità, in quel momento, sulla D902: e Dio diventa una macchiolina bianco e rossa vibrante, scintillante, una vestigia sacra tessuta da Decathlon, che si muove lentamente ma costantemente e tra qualche ora arriverà in alto. Non si colmano i vuoti nelle catene internazionali di abbigliamento sportivo, non si riscrive la storia con le forcelle in carbonio, lo so, ma il sorriso onesto stampato sul viso di chi la indossa, di fronte all’insegna “Col du Galibier“, mentre lo fotografo su sua richiesta, è abbastanza per ricacciare in valle tutte le bugie della nostalgia.

It’s just an afterlife

Originally published at Ciccsoft on July 7, 2015.

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