Arco

Attimo
ok with my decay
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3 min readApr 24, 2017

La toponomastica di Arco è eloquente. Cammini per le vie del centro storico e ti imbatti in Vicolo Stretto, Cieco, Doppio, Tortuoso, Erto. Ne capisci l’origine, dei nomi, percorrendoli. C’è anche Vicolo Umido, mi chiedo a voce alta «e questo chissà come mai si chiama così» proprio mentre sta passando un anziano lì residente, che non resiste, forse aspettava questa domanda da una vita intera, e si ferma, si gira e mi spiega, in dialetto: «’Umido’ perché un tempo i gabinetti delle case dei ricchi perdevano, e allora tutta la strada si allagava, era piena d’acqua».

Arco è la cittadina del Trentino in cui siamo finiti a lavorare oggi. Il lavoro consiste, come talvolta capita, in un’improvvisazione estrema: ideare un video promozionale senza aver visto prima il contesto in cui avremmo girato, né la persona protagonista del filmato. E soprattutto, senza sapere come si girano, dei video: non è il nostro mestiere. Eppure ci tocca improvvisare, è una di quelle cose, come l’afflato per la tensione nervosa che divora ma dona anche vita, anzi, giustifica l’esistenza stessa, che perpetua la dicotomia tra quello che ti tiene in piedi e quello che i piedi te li sega. Improvvisare con il trascorrere degli anni ha lo stesso effetto che hanno le salite in bici: una volta più sangue sputavo e più volevo sputarne, ora mi fanno solo venire mal di testa. Così, mentre passeggiamo per le strade di Arco disarmati perché stiamo facendo un lavoro che non è il nostro e dobbiamo inventarci nel giro di qualche ora un modo efficace per estorcere una dichiarazione genuina da una persona sconosciuta, la testa si contorce, si spreme, e penso che vorrei restarci per sempre, a pochi chilometri da un posto dove ci sono adesivi di cuccioli di tigre sbiaditi attaccati ai portoni o bacinelle di plastica abbandonate alle fontane, ma soltanto per non improvvisare niente. Invece mentre azzardo a toccare i lenzuoli stesi da un balcone per ricreare (improvvisare) l’effetto del vento, esce subito la padrona di quei lenzuoli a ritirarli dentro, anche se non erano affatto asciutti. Arco è la parabola disegnata dalla mia testa che avverte dietro l’angolo il momento in cui verremo scoperti, che il mondo si accorgerà che questo non è il nostro mestiere, è il punto in cui nasce e finisce l’arcobaleno dell’improvvisazione e nel cielo scende il buio di un ospizio a Riva del Garda, qualche chilometro più a sud, a stare seduti per sempre a guardare il lago chiuso dalle pareti rocciose, a bere un Chinotto, a non tornare mai più a casa.

Durante l’improvvisazione si finisce nel Parco Arciducale, un giardino zen trapiantato nelle Alpi, adornato da un manto erboso perfettamente tagliato, canne di bambù fitte come sull’isola di Lost (ma senza Vincent che sbuca dalla foresta, ha smesso di improvvisare pure lui, probabilmente), e gli alberi che si aprono sulle nostre teste e lasciano precipitare un cielo sereno. C’è un laghetto, anche, dentro il parco di Arco, dove gli abitanti vanno ad abbandonare nell’acqua rancida e ferma i pesci rossi, che finiscono per crescere indisturbati. Una frase che non finirà nel video promozionale è questa: «Hai presente i pesci rossi? Di solito sono costretti a vivere in vasche di trenta centimetri. Ecco, immaginati pesci rossi liberi di crescere a dismisura». E sotto il pelo dell’acqua ci sono i pesci liberi di crescere, lunghi dieci, venti, cinquanta centimetri, con i colori tipicamente sgargianti ma dalle dimensioni assolutamente sproporzionate, e sono tantissimi, fitti, ed alcuni superano il metro di lunghezza. Poco lontano una bambina a piedi spinge giù correndo per la discesa la compagna su una carrozzina, improvvisando l’amicizia, mentre nel laghetto si improvvisa l’orrore grottesco della libertà. Finiscono le riprese, infiliamo la camera nello zaino, richiudiamo il cavalletto, e mentre risaliamo i tornanti verso la val d’Adige, scappando dai pesci rossi liberi, non vorremmo altro che rimanere lì per sempre, a vedere come tramonta il sole, sul lago, come crescono le persone fuori dalle vasche di vetro, di che colore si diventa, a non sapere mai le risposte.

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