Come un elastico

Attimo
ok with my decay
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3 min readSep 15, 2020

Come un elastico, l’inseguire bici per un lavoro diventato nel frattempo fuori dal tempo, incompatibile con questo tempo dove le persone non possono muoversi insieme, mi lancia verso ovest, a Milano, e poi fino quasi a toccare con un dito Torino, e poi mi ritrae verso est, trapassando paesi che in questo tempo esistono senza più esistere. Prima di ritornare al punto di partenza, l’elastico che mi cinge il petto mi fa correre alle sette del mattino lungo il Naviglio Pavese, oppure arrampicarmi sopra Superga, e poi rovinare di nuovo sull’alveo del Po. Soltanto in rare occasioni ascolto parole che sanno perforare la mia perplessità per questo vano inseguimento. Come quando, racconta il professore nella Biblioteca Civica di Casale Monferrato, «c’era quel viandante che ogni anno percorreva esattamente gli stessi itinerari, perché fanno nascere gli stessi pensieri», certificando così i luoghi non come contenitori, o palcoscenici o scenari o sentimenti ma come attori, macchinari, leve, come spartiti di canzoni che sappiamo che musica ci faranno piovere addosso ed è proprio per questo che scegliamo di ritornare, ritornare, ritornarci sopra. La riproducibilità dei pensieri diluita nella scelta monocorde dei percorsi da compiere, divelle ogni recinto morale e ogni consapevolezza mnemonica. Non siamo qui per inseguire bici, penso mentre affianco i binari del treno a Borgo Revel, paese che esiste soltanto come contrapposizione alla ferrovia, come muro di contrafforte, come sosta e bilanciamento in linea retta: ma per riprendere gli stessi pensieri, farli nascere come piantagioni di basilico, sterminate come le risaie vercellesi che vedi per la prima volta asciutte e mature a settembre, grazie a una pandemia che ha sciroppato il calendario gregoriano. Perché coltivare è l’unico modo per soccombere all’esistente, scomparire senza che nessuno se ne accorga, quando tutti sono impegnati ad attingere. Non basta però sporgersi appena sul ponte sopra la Dora Baltea, ancora la natura si accorge dei miei passi, come quando lungo la Doretta, minuto corso d’acqua occultato dagli alberi a Crescentino, rane impazzite saltano a fiotti dall’erba per rovinare in acqua mentre ci cammino in mezzo. Ancora mi accorgo, mentre l’elastico mi tira verso est, strattonandomi, che esistono paesi dimenticati dove il mondo va avanti comunque, ignorato e dunque autosufficiente in modo disperato e dignitoso: a Verolengo, il lunedì di riapertura delle scuole, davanti alle elementari la banda del paese attende l’ingresso nelle aule degli scolari per celebrarli, fargli forza, vallo a capire, e mi viene un inatteso nodo in gola; nelle sale della Biblioteca di Casale invece un bambino sputa un chiodo in uno storico dipinto, accanto a raffigurazioni sacre di secoli fa; a Trino le guardie giurate ti fermano mentre ti muovi di fronte alla centrale nucleare in perenne fase di smantellamento, e ti fanno domande a cui sai rispondere. L’elastico mi cinge i fianchi, e mentre sono seduto, un martedì mattina di settembre, nel retro di un furgone sull’argine lodigiano del Po, a mangiare la polvere del selciato e i gas di scarico, con piedi penzolanti e il portellone posteriore attendendo di filmare i ciclisti come fossero Tartari, rimango sospeso tra il desiderio di sfilarmelo di dosso, quell’elastico, e rovinare sulla ghiaia dell’argine maestro, e aggrapparmici invece, perché in quel secondo di polvere che impregna l’aria, in quel margine di spazio vuoto tra la suola delle mie scarpe e il fondo della strada bianca che scorre, ci sono gli stessi pensieri, gli stessi itinerari, intrappolati dall’energia cinetica.

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