Contre-la-montre

Attimo
ok with my decay
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5 min readMar 8, 2019

Sin viene dalle montagne dell’India vicino al Nepal, dove «fa molto più freddo» anche rispetto al confine italo-austriaco. Ci cucina due pizze, a mezzogiorno, nel bar dell’ex dogana dove non parla nessuno. Sin è venuto a incontrarci con moglie e due figli, una troppo piccola per parlare e l’altra troppo grande per dormire. Prendono tutti e quattro delle sedie, la moglie dilata i sorrisi, Sin invece guarda sempre basso, anche quando sorride, o gli chiediamo dove si siano sistemati, come vanno gli affari. Nel bar di confini parlano solo i proprietari, e comunque poco, quel che basta, premunendosi di assicurarci, per quando sarà, «un pasto caldo». Abbiamo nascosto sei biciclette nel furgone parcheggiato là fuori, tra l’Italia e l’Austria, fa troppo caldo anche per Sin, le sue montagne indiane, il suo sorridere guardando rigorosamente in basso, i piedi. I nostri sono bagnati, anche se fa caldo, e la neve è uno specchio e non è bianca ed è impossibile da guardarla e ci costringe a guardare in basso anche a noi, quando proviamo a sorriderle. Vedo la neve per la prima volta a marzo, quest’anno, e sarà anche l’ultima e non saprò mai come ha vissuto, questo inverno, la neve del Lago di Resia. Si lascia calpestare, si lascia sciogliere dal sole di mezzogiorno, mentre camminiamo verso il centro del lago ghiacciato, ancora, a marzo, creando l’illusione (fugacissima) che lo spessore congelato non sia poi così generoso. È sufficiente una mattina di marzo per scongelare un lago ghiacciato? Prima che sia troppo tardi, disponiamo le sei bici a terra, ad emiciclo, ad avvolgere il campanile inossidabile nel suo non voler affondare del tutto. È l’unico campanile al mondo cui abbia mai rivolto la parola, in tutta la mia vita, ed oggi siamo venuti a porgergli sei bici, con sei storie diverse, che hanno disarcionato i proprietari e ora si muovono, sul ghiaccio, verso un campanile, per ascoltarlo, lo circondano, e noi lasciamo fare, ci bagniamo le scarpe, chiudiamo gli occhi per non guardare la neve in faccia, Sin ci offre il caffè prima ancora che la pizza sia finita: «Qui si sta bene».

La bici numero 1 racconta la storia di marito e moglie, lui proprietario di un negozio di biciclette, lei di un negozio di fiori. La ciclofficina si trova dal lato della strada, la fioreria esattamente dall’altro: le due vetrine si guardano, per tutto il giorno, abbassando gli occhi perché «c’è sempre qualcosa da fare». Poi arriva sera, ci dice la bici numero 1, e il marito abbassa qualche minuto prima della moglie la serranda. Lei è ancora alle prese con i mariti ritardatari, fuori dalle cinque e mezza del mattino, che non possono permettersi di rientrare a casa senza un mazzo di mimose per la moglie. Lui l’aspetta, aspetta la redenzione dei mariti, ascolta il consiglio che la moglie ripete da mattina, «niente acqua, è il modo più veloce per farle seccare, le mimose», nel mentre compra della carne, per la cena. Ogni giorno così.

La bici numero 2 arriva da una valle dove ci passa la strada, la ferrovia, l’autostrada e nient’altro. Si sviluppa solo in verticale, in un senso o nell’altro, come le vite di due sorelle, lei sposata con un camionista «che di notte non riesce a dormire», l’altra che non ha ancora imparato a fare lo spritz come Dio comanda. Hanno preso in mano da solo una settimana questo posto, dove d’estate passano ciclisti da tutta Europa e d’inverno anziani da tutto il paese, e non hanno la minima idea di come andrà a finire.

La bici numero 3 ha le ruote lisce, scivolano sul ghiaccio e non si regge in piedi. Ogni volta che la tiriamo su, per farle riprendere la presa del campanile, ci racconta di quel mucchio di riviste francesi che giacciono nella polvere della sua stanza. Parlano di ciclismo, ma la bici numero 3 non lo sa leggere, il francese, e aspetta il giorno in cui la bici numero 4 si deciderà a bucare una ruota, deragliare, fermarsi a bordo strada e mettersi a leggerla per lei. La bici numero 3 non lo sa, se esista un modo più sincero di voler bene a un’altra bici, che non sia comprare riviste in una lingua sconosciuta, soltanto per fargliele leggere, far risuonare quei termini ciclistici francesi come ‘Contre-la-montre’ o ‘Pèloton’, soltanto per ascoltare il ronzio dei mozzi delle ruote che girano, mentre leggono in francese, soltanto per quegli occhi di una bici che guarda sempre davanti a sé e mai per terra.

La bici numero 5 se ne sta zitta, senza nessuna smania di incrociare gli occhi con il campanile che parla. Ne ha abbastanza di simboli, di totem, di disposizioni, di presidenti che scappano, di crisi isteriche alla domenica e ripicche al lunedì. Pedala tutti i santi giorni per le vie della città che ha più aggettivi che ciclabili, portando in giro sulla sua sella candidati sindaci celtici, segretari di partito dimissionari, inservienti del reparto ortofrutta di ipermercati ritorsivi che attaccano una dopo l’altra etichette su lattuga in offerta, senza potersi scambiare una parola, appiccando etichette sopra carote, zucchine, cavolfiori, in ipermercati dove tutti girano con etichette a sigillare le labbra, e nessuno si scambia una parola e tutti hanno una maledettissima insopprimibile voglia di sbagliare, votare male, pensare peggio. La bici numero 5 ha la catena infeltrita di fango, pezzi di vetro e questa voglia di sbagliare, ancora, e ancora, tutti i giorni, rimanere per sempre fedeli a sé stessi, sbagliatissimi.

La bici numero 6 è l’ultima, ad arrivare davanti al campanile. Tiene in mano un cespo di insalata, ha appena ordinato a una foglia di rimanere ferma lì, a un’altra di spostarsi un paio di centimetri a sinistra. E poi ha ripreso tutta la scena. Si chiede quand’è, esattamente, che siamo finiti a parlare con le foglie di insalata, a spostare i tavoli della cucina di semi-sconosciuti, a usare lampade Ikea come luci di scena, a scrivere la sequenza delle riprese sul retro della ricevuta della psicologa. Scala un dente, bici numero 6, passa su un rapporto più agile, per l’ultimo tratto, quello tra il ghiaccio e la base del campanile, dove l’acqua inizia davvero a farsi strada verso le viscere del lago ghiacciato: sotto, a infilarci la testa, ci sono labirinti di bambù, ricostruzioni di villaggi medievali, facoltà universitarie, case allagate. Si bagna le ruote, per arrivare a toccare il campanile, e senza dirgli niente, gli infila in una fessura tra due mattoni, un semplice fogliettino di carta: «vorrei che mi avessi creduto».

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