Fino a che mi addormento

Attimo
ok with my decay
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5 min readSep 4, 2016

Non c’è più tempo per mettere in ordine, non c’è più il tempo di imbastire una storia con questi stracci che abbiamo raccattato per strada. Dal soffitto piovono gechi e non riesci ad esimerti dall’affibbiar loro un nome, che è lo stesso che assegni ai gatti nei vicoli e agli spifferi del vento che speri non smettano di soffiare almeno fino a quando non ti sia addormentato. Cosa rimane di quattro giorni rubati ad agosto, all’estate e alla tua vita?

Il bianco dei tavoli di Secchia Ovest, con le sedie tutte vuote tranne una, quella di fronte all’autostrada, occupata da un inserviente in pausa. Questa pioggia di solitudini che si schivano, che non riescono a mescolarsi, ascoltarsi, accettarsi, e rimangono distinte, separate come l’acqua e l’olio, e di noi restano le chiazze a galleggiare. Le ore passate a guidare, dove hai la libertà di fermarti anche senza un motivo tangibile, e finisci per non saltare nemmeno un autogrill, e finisci per sentire addosso tutto il sudore di quello che hai lasciato a casa, e non esiste nessun ghiacciaio che possa asciugarlo. Anzi, la vista del ghiacciaio del San Bernardo che ti guarda severo, che cosa hai fatto, ti chiede, e tu non puoi fare altro che singhiozzare per qualche secondo. Non c’è tempo per mettere in ordine la natura inflessibile, la penombra della salita verso la Lombarda, il bagliore bianco di un torrente che si muove come una fessura sottile tra strati di morbido prato verde, la parete rocciosa che avvolge i ciclisti nei tornanti, il mare della Liguria che si è preso tutte le tue storie: non c’è nessuna indulgenza da parte della natura, che si guarda bene dal svegliarti.

E quattro giorni rubati ad agosto, in cui ti infili in auto perché non sai più fare altro ormai, diventa una caccia ai fantasmi. Smuovi rocce sull’Iseran dopo aver dato un passaggio ad autostoppisti francesi che conoscono la tua città ma non capiscono perché ti ritrovi lì. Discosti tende per guardare di nascosto la corte interna di un palazzo di Torino, il «tipico palazzo a ringhiera» che te la fa assomigliare a una città del sud invece sei in Piemonte, Torino dove «avvocati e operai vivono mescolati», ma dei fantasmi nessuna traccia in Corso San Maurizio deserta a qualsiasi ora del giorno e della notte, ci sono solo indiani che parlano all’ombra di rovine romane, tavoli, questi sì pieni, in Largo Quattro Marzo da cui scappi praticamente subito, per andare a inciampare nelle simmetrie di piazza San Carlo che ti vanno di traverso, e mentre guidi di notte ti verrebbe da chiedere aiuto alle volanti ferme in Corso Regina Margherita, e ti guardi bene dal dispiegare la decadenza e il rigore estetico di una città che hai visto soltanto da poche ore, portandoti via soltanto il macabro ma sincero riferimento del gestore dell’albergo sulle sue origini: «io sono fatto con il sangue della Fiat».

Non ci sono fantasmi dentro i fucili dei soldati francesi sul Mon Cenis, quella salita dove i temporali se ne sono andati e appaiono scritte come «il Corano è una merda» a una quota dove certi pensieri non dovrebbero essere ammessi. L’oste al rifugio a 2770 metri di quota vuole insegnarmi qualche parola in francese, una signora sconosciuta mi deride per il vento nei capelli, i ciclisti si affollano davanti all’insegna del colle per scattare l’ennesima foto: «ne abbiamo fatta una qui anche l’anno scorso, eravamo vestiti uguali». Dormo in una casa interamente di legno, nella Valle Stura, con il gatto della padrona di casa che si adagia sull’altro cuscino libero del mio letto, fissando costantemente la parete di fronte a lui. Alla sera a Demonte non ci sono ristoranti aperti, a Vinadio un’unica pizzeria, con camionisti napoletani che sbagliano tutti gli accenti delle parole inglesi, e mi viene da sorridere. Salgo fin sopra al Colle di Tenda per superare il confine a piedi e invece finisco per parlare di luoghi comuni con una signora piemontese al bar, non riuscendo a vincere nessuna delle tentazioni, compresa quella di non starmene zitto. «Non ho più l’età per avere pazienza», chiosa la barista, me ne esco zoppicando, franando a valle, e poi ancora più giù, di nuovo in Francia, di nuovo a seguire la scia lasciata dai fantasmi sui muri dai calcinacci ingialliti di Tende, nelle curve che la Roja disegna inclino il capo per assecondarne la direzione, un cartello dice che qui il vino «è coltivato sulla roccia». L’ossigeno è rinchiuso nelle serre che ammantano ogni metro libero sulle colline attorno a Ventimiglia, verso Imperia.

E senza rendermene conto finisco esattamente in luoghi in cui ci ero già stato. Solo che ora la catena della bici cade, solo che ora entro in un bar di Noli alzando le mani completamente sporche di grasso, colpevoli di tutto il nero del mondo, ben lontane da una qualsiasi bianca resa. Lego la bici a un guardrail al km 592 dell’Aurelia, c’è spazio soltanto per le auto e un abbandono, scendo la scarpata e mi ritrovo nell’unico momento di tutta l’estate in cui riesco a fissare il blu del mare così a lungo da convincermi a tuffarmi. La corrente non riporta indietro nulla, né un sì, né la voce di uno solo dei fantasmi che mi circondano. Mi asciugo sugli scogli. Risalgo di nuovo, verso la valle del Tanaro, finirò per dormire a Garessio, un paese dove di sera le chiese diventano viola, dormirò in una torre chiudendo la finestra per il suono incessante del torrente. Persino l’acqua finisce per risultare urticante, in questi giorni «da cui non si sa mai cosa aspettarsi», come mi aveva ammonito poche ore prima la signora della pescheria a Spotorno, mentre mi serviva un cartoccio di fritto misto dietro al cartello ‘Vendesi’, e che mi inclina le vertebre come il polso di quel ciclista che ho superato al tramonto, che veniva scrollato per lasciar gocciolare tutta la fatica del giorno, sull’asfalto, che mi sembrava fatto di carta, di cristallo di acqua, come le tue spalle che scuotevo molti anni prima, in una vasca da bagno, soltanto per farti ridere nella notte.

Non c’è il tempo per rimettere a posto tutto e imbastirci una storia: ci sono i colori perfetti del cielo a Senigallia, mentre stai scappando in Abruzzo con una bici nel baule, c’è il tempismo perfetto dell’auto che proprio a Sulmona si arrende, c’è la salita a Campo Imperatore percorsa anni prima per fare una telefonata in cima, dove arrivano i ripetitori, e ora soltanto per vedere se attorcigliati ai cavi della funivia del Gran Sasso ci sia rimasto un fantasma. Non lo troverai nemmeno sul retro delle inspiegabili cartoline con l’effige di Ratzinger in vendita, o sullo scheletro della torre di Santo Stefano di Sessanio. Non lo troverai nemmeno ritornando.

Qualche giorno dopo, alla fine di una pedalata notturna in Friuli, l’ultimissima tra i partecipanti ad arrivare, una donna di anni 68 con un sacco di plastica rosa e un gilet di lana grigia addosso, mi ha guardato in faccia e mi ha detto: «Io quando decido di andare in un posto, io poi ci vado, non importa con che mezzo». Ecco, una delle mie colpe è stata sempre quella di andarci, poi, nei posti in cui volevo andare: molto in alto, molto in basso. Dove vanno a nascondersi i fantasmi.

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