Ho visto le stelle con le mie mani

Attimo
ok with my decay
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14 min readJan 26, 2013

In un periodo dell’anno, l’estate, in cui i discorsi delle cicale ci sembrano più convincenti rispetto a quelli degli esseri umani, il granoturco è alto quanto le persone, e quando ci passi di fianco ti viene quasi voglia di fermarti e provare a confrontarne l’altezza, tra te e le spighe, come quando da piccoli si veniva appoggiati contro il muro e si segnavano le tacche con una matita. E’ un periodo dell’anno, l’estate, in cui i campi di mais diventano padimetri dei nostri orizzonti, segnano le piene di cosa possiamo vedere e di cosa vorremmo vedere, e anche nella piatta pianura padana spuntano ostacoli visivi che innescano una pericolosa reazione: la voglia di scoprire che cosa c’è oltre.

Foto di Lucia Ligniti

Guido verso Copparo, finestrini abbassati da dove si infila un vento conciliante il cui suono viene interrotto dai platani ordinati sul ciglio della carreggiata, metronomo di una viabilità antica dove la natura serviva a contenere, mentre oggi finiamo a sbatterci contro. A Tamara lascio la provinciale e mi dirigo verso il centro del paese, dove non c’è una piazza ma una strada larghissima, sproporzionata al contesto, una colata d’asfalto che si conclude di fronte alla chiesa che funge da bivio: giro a destra, la carreggiata si restringe poco dopo il cimitero, tutto si fa più intimo e desolante. Mi fermo poco distante da un minuto paesino, tale Sabbioncello San Pietro, le solite due case che ci si può aspettare da un paesino, una ragazza che porta a spasso un cane davanti a un capannone ormai abbandonato, residuo di civiltà contadina, forse, non si capisce. Non c’è nessuno in giro, alle sei di un sabato pomeriggio di luglio, più del caldo è la distanza dalla Città ad aver sterminato la popolazione, attirandola altrove ed estirpandola dalla campagna. Eppure, nascosto tra la boscaglia adiacente a un campo di grano già mietuto, si nasconde forse il tesoro più grande dell’intera provincia ferrarese.

Foto di Lucia Ligniti

La perla si chiama Angelo Fiacchi, anche se tutti lo chiamano più correttamente “Anzul, e lui, prima ancora di quello che ha costruito negli anni, è una di quelle persone di cui quasi fatichi a parlarne, come tutte quelle cose preziose che dovrebbero stare sulle guide turistiche prima del Castello o dei fenicotteri delle Valli, perché davvero più contemporanee e ferraresi e meritevoli di pietre accatastate secoli fa. Ma allo stesso tempo, da vero ferrarese, te la vuoi tenere per te, perché ne sei geloso, come di tutte le cose belle che ti stanno vicino.

Foto di Lucia Ligniti

La storia è semplice: Anzul è un baffuto signore che si è costruito da solo, con le sue mani, un osservatorio astronomico. L’ha costruito nel cortile di casa, la stessa dove 72 anni fa è nato, in cui vive da sempre. Anzul ha un rigoglioso paio di baffi, per l’appunto, occhi azzurri e vispi come quelli di un bambino cui hanno appena regalato una scatola Lego del galeone dei pirati, e una “cosa dentro di sè” che nemmeno lui mi sa spiegare. Si chiama curiosità, frenesia, passione, non si riesce a etichettare: è quella pulsione che nel corso degli anni gli ha fatto tenere lo sguardo rivolto in alto, fin da quando era bambino, e le mani sempre in movimento, a martellare chiodi, a piegare ferro, a incurvare lenti. Fino a realizzare, la butto lì semplice come semplice è la persona, un telescopio e poi tirarci su attorno un osservatorio. “Il primo della nostra provincia — precisa lui stesso -, costruito interamente da solo negli anni”.

Foto di Lucia Ligniti

Anzul purtroppo o per fortuna non sta su nessuna guida turistica, e per scoprirlo esiste soltanto un unico metodo: il passaparola. Io ci sono finito così, ormai una decina d’anni fa, me l’aveva segnalato un amico che a sua volta gliel’aveva consigliato un altro amico. Negli anni ho cercato di farlo scoprire a chi volevo bene (la storia della gelosia, avete capito). Di giorno, però, non ci ero mai stato, ci ero sempre finito di notte, al buio: si arriva in una casa di campagna, si entra in una proprietà privata dove il cancello è sempre rigorosamente aperto, a qualsiasi ora. Erba alta, gatti adagiati ovunque, una cupola di lamiera color carta da zucchero è un guscio che protegge un’altra dimensione. Una piccola porticina, con in alto un cartello che recita, dalle 22 alle 1 di notte, la scritta ‘APERTO’, ribaltata durante il giorno in ‘CHIUSO’. Dentro, ci si ritrova di fronte a un telescopio issato su una pedana rotante: a spanne, sarà lungo almeno 2 metri, costruito con lamiere color oro e pieno di leve, pulsanti, interruttori. C’è una scala per raggiungere l’obiettivo, dove Anzul sale, aiutato dal suo fedele bastone, per aprire la calotta e dischiudere il cielo.

Foto di Lucia Ligniti

All’interno di quella stanzetta, però, il telescopio è solo la torta su una costellazione di ciliegine: le quattro pareti sono ricoperte da bacheche impolverate, colme di minerali, fossili, pietre, reperti, animali, foto, documenti. E strumenti, anche, infiniti, molti costruiti dallo stesso Anzul: per esempio, un microscopio con un monitor tondo, che sembra provenire dal set di Spazio 1999, poi la plancia con i pulsanti che azionano la calotta, lo schermo dove, nelle giornate di luna piena, Anzul proietta i Mari lunari, di cui conosce tutti i nomi, e durante il racconto ci infila anche aneddoti sulle spedizioni americane. C’è pure uno sismografo, grazie al quale monitora “tutti i terremoti del mondo”, che poi riporta sul calendario ormai fittissimo: per ogni giorno, varie segnalazioni. Non si entra dentro un osservatorio, si entra dentro una scatola magica ricolma di artigianissimo sapere umano, dove la polvere è lo zucchero a velo sopra una torta che vorresti divorare.

Foto di Lucia Ligniti

Gli occhi diventano schegge impazzite, spuntano oggetti come un rotolo di carta che riporta su un lato l’ovvia scritta “Non sederci sopra“. Una stella militare attaccata da chissà chi. Il libro delle presenze, soprattutto, consumato come un quaderno di bordo di una nave dell’Ottocento che ha solcato mille mari: e invece, sempre lì è rimasto, dal 1991, quando ha aperto per la prima notte, e da allora, precisa, “sono venuti, aspetta che guardo, allora, fino il giorno, aspetta pur, fino al 2012 compreso, 87315 persone, sono venute”. Perché Anzul apre tutte le sere, perché Anzul si segna tutte le sere chi passa a trovarlo per vedere le stelle, la Luna, e lui accoglie sempre tutti, “senza chiedere un soldo”, dice curvo sul quaderno, che riporta una tremolante calligrafia su fogli di carta ingialliti. Ti viene voglia di toccare tutto, perché tutto ti sembra così dannatamente reale, vissuto, così privo di nostalgia retorica e così semplicemente ostentato. Mi siedo, sulla base di cemento che sorregge il telescopio, e ascolto Anzul che parla a ruota libera: provo più volte a indagare metodicamente sulla costruzione dell’osservatorio, ma mi arrendo subito alle sue frasi sparpagliate (sempre in dialetto) tra la campagna e il cielo. Impossibile mettere ordine nel disordine di una vita intera di una persona.

Foto di Lucia Ligniti

“Sono nato qui. Mi sono sposato, sono andato ad abitare a Tamara, poi è morto mio padre e sono tornato qui: non lascio mica mia madre da sola. Il telescopio l’ho fatto a Tamara. Qua ho fatto l’osservatorio. La prima sera che ho aperto l’osservatorio è stata nel 1991. Ci ho messo diversi anni a costruire l’osservatorio, sono partito negli anni ’80. Ho fatto tutto io, da solo. Prima è arrivato il telescopio, ma stava fermo a Tamara. Poi mi sono deciso a tirare su i muri, qui in cortile a casa mia. Ho chiamato l’impresa per fare la gettata di cemento, poi ho costruito la cupola di lamiera, deve essere tonda se no non gira mica. Poi il cavalletto e ho montato su il telescopio. Sai, la cupola gira con quell’ingranaggio lì, per seguire le stelle. Meglio del tuo orologio. E poi niente, quando ho finito ho aperto. Da allora ogni sera io sono qui, dalle 22 in poi (indica il cartello sopra le nostre teste). Non chiedo niente a nessuno, intànt. A me fa piacere se la gente viene. Negli anni è venuto chiunque: matti, bambini, scuole, maestre. Chi veniva poi lo raccontava ad altri e così stai sicuro che la sera dopo venivano i suoi amici. E via andare. Ho pure il vino, si sta qui, in compagnia, e io faccio vedere le stelle. Ho iniziato a guardarle da piccolo, non lo so il perché. E’ una cosa che hai dentro, non si spiega mica, che ti fa guardare sempre in alto. Io l’ho sempre fatto, avevo questa passione, sono sempre stato curioso. Volevo sapere tutto. Ho fatto la quinta elementare, non ho mica studiato sui libri. Io le cose le volevo toccare con le mani. Infatti è un peccato, oggi a scuola insegnano tutto sui libri, così i ragazzi non imparano mica niente. Le cose le devi vedere, toccare tu. E io volevo toccare tutto, vedere tutto”.

Foto di Lucia Ligniti

Continua.

“Sono cinquant’anni che guardo il cielo con altri telescopi più piccoli. Ad un certo punto ho pensato: mi son stancato di fare roba piccola, ne faccio uno grosso e basta. Ne ho fatti una marea prima. Ad ogni modo in cinquant’anni ne ho vista tanta roba che ne ho vista un mare. Capì? Ho visto pianeti, stelle, ammassi stellari, nebulosi, galassie. Il sole, anche. Le lingue di fuoco. Capì? Comete. Halley no, non l’ha vista nessuno qua nel nord. Ho visto i buchi su Giove, nell’atmosfera. L’eclissi totale di sole, e sai quanti anni avevo? Tu non eri ancora nato, diciassette diciotto anni, lavoravo a Copparo e quel giorno lì son stato a casa da lavorare, per vederla. Eclissi totale, che le galline sono andate a letto. Io facevo il verniciatore. Ho verniciato per tutta la vita. I telescopi l’è un altar quél, è un hobby. Chiunque può farlo, non è una roba difficile. Piano piano si fa tutto, no? Roba da ridere. Da solo, certo, sempre, io di mestiere facevo tutt’altro. Ah, ne ho fatti di lavori: son stato nei militari, ho fatto il verniciatore. Ho fatto anche il pittore. Ho fatto anche il ladro, eh (ride): andavo nei campi, a rubare i cocomeri, però prima ritagliavo un quadratino col coltellino, se era rossa la prendevo, se era bianca la lasciavo là. Insomma, di giorno lavoravo, poi quando ero a casa mi mettevo lì e facevo il telescopio. Carta e penna, ho fatto i conti, per vedere la calibratura delle lenti, quelle cose lì”.

Foto di Lucia Ligniti

Ancora. “Eclissi totale, le galline sono andate a dormire, dava fastidio guardare a occhio nudo, perché le lingue di fuoco del sole brillavano, bastava prendere un vetro, affumicarlo con la candela, e a posto. Adesso quell’eclisse lì viene nel 2081. Forse i suoi figli la vedranno, anche lei, quando girerà con la zanetta, con i reumatismi. Capito com’è la faccenda? Ho studiato su un librettino, come fare i telescopi. I primi li facevo con le lenti degli occhiali. Poi mi son stancato, ne faccio uno grosso e basta. E’ bel gros, quel lì. Il tubo l’ho fatto venire da Milano, col corriere. Era nero, poi dopo l’ho lucidato, l’ho pulito, tagliato e poi tutto il resto. Le lenti le ho fatte fare a Venezia, un certo Zen Romano di Venezia. Son andato io a prenderle, a portare i disegni, come la volevo la lente, tutti i dati, poi sono andato a prenderla. Non mi ricordo neanche più quanto speso. Le lenti, sono lavorate in quattro parti: son due lenti, positive e negative, lavorate in tutti i lati. Ha capito? Ci ho messo tre o quattro anni a farlo, a tempo perso eh, lavoravo anche in fabbrica intanto. La prima cosa che ho visto? C’era Giove in cielo. Tira eh! Ho fatto le diapositive sulla neve su Marte, le diapositive di Saturno mentre tramontava dietro la Luna. Ne ho fatte, di foto. Saturno, coi suoi anelli. Ho il cronografo, vedo anche le Lingue di fuoco. Ne metta poche di foto su internet, eh, che poi le donne mi corrono dietro (ride).

Foto di Lucia Ligniti

All’inizio ci guardavo io soltanto, nel ’90, non c’era ancora la scala, c’era la scala per staccare la frutta soltanto, e se uno cade vado nei guai. Fatto la scala, ho aperto. Faccio venire tutti, non voglio niente da nessuno, spiego tutto, i vulcani sulla Luna, i mari. Qua mi conoscono dappertutto, capì? Tutta la gente che è venuta qua, si dava la voce l’uno con l’altro, hai capito? Per esempio, viene uno studente universitario, sta sicuro che dopo tre giorni i vien tuti chi. Il genitore col bambino? Dopo una settimana la maestra con gli alunni. Anche se sono di Copparo li faccio entrare lo stesso (ride). Il sismografo me l’hanno dato tutto rotto, l’ho aggiustato e rimontato. E funziona! Questo è un proiettore per le diapositive, quest’chi. Questo qua ce n’è uno di questi strumenti, uno solo: alla mostra dell’hobby ho portato via una bella medaglina d’oro, mostra nazionale, il primo in tutta la mostra, è quello il bello. E’ l’unico microscopio con cui si vede una goccia di sostanza chimica, si vede mentre si formano i cristalli. Anche quell’altro fa da 150 fino a 9500 ingrandimenti, altra medaglia d’oro, l’ho fatto io. Posso vedere oggetti solidi e liquidi, poi il principio dell’invenzione di Backster, che fa vedere l’intelligenza delle piante. Poi là c’è la bacheca dei minerali, la sabbia da tutto il mondo: 2750 provette. Faccio scambio con altri collezionisti. C’è un uovo di struzzo, anche, dal Sudafrica. Gli struzzi, io li ho visti anche a Copparo, però (ride). Sono contento? Quello che ho visto io in cinquant’anni io guardando il cielo! Ne ho vista di roba. Mi spiace per gli studenti, che hanno visto solo la roba sui libri e basta. Allora io gliela faccio vedere. La passione per le stelle? Ci si nasce matti. Ci si nasce, sì. Seria butega, alòra? Ci nasce, viene così la passione. Sono curioso, vado a cercare minerali. Andavo in giro per l’Italia, sabbia qua e là e via andare, poi la scambiavo. Sono andato a Napoli, mi hanno corso dietro, alla solfatara è vietato, non si può più far niente. Però li ho fregati: li ho portati via lo stesso, i minerali (ride). Sono italiano e non posso prendere roba italiana?”.

Foto di Lucia Ligniti

“Eh. Ma si che tutti possono fare un osservatorio così. E’ stato il primo nato a Ferrara. Capì? Il primo a lenti. Poi a Ostellato a specchio, poi a Bondeno. Brava gente anche loro, venivano anche loro a vedere, così. Tra di noi andiamo d’accordo, eh. Ogni sera c’è pieno di gente, vengono da tutte le parti, i vièn. Da tutta Italia, anche dall’estero, loro parlano la sua lingua, io parlo in dialetto. I giovani hanno il microchip nel cervello. Chi fa da sè fa per tre. Ho conosciuto nella mia vita un grande personaggio, sempre stato disprezzato, dalla popolazione durante la sua vita: era l’aiutante di Guglielmo Marconi. Sapeva tanta di quella roba, Pierluigi Ighina, quello là col maglione blu (indica una foto sulla parete). Ho imparato un mare di roba da lui: la gente rispetto a lui è indietro di duecento anni, garantito. Era un personaggio, scoltamo chi: mai conosciuto un personaggio del genere. Sempre disprezzato: calcolato matto, dalla popolazione. L’aiutante di Guglielmo Marconi”.

“Il telescopio che fine farà? Lo lascio a mio figlio, poi veda un po’ lui. Però c’è della gente che non se lo merita. Sono andato a minerali, sull’Appennino, c’erano due donne, vengono da me, ‘Vuole comprare dei minerali? Siamo due maestre, un signore è morto e ha regalato alle scuole i suoi minerali, e noi vogliamo sbarazzarcene’. Gli son corso dietro. C’è della roba che rimani disgustato. Fai una bacheca, la lasci nelle scuole, spieghi agli studenti, così li vedono coi loro occhi, i minerali. Va bèn. Chiudiamo? Gente strana qui è passata, di tutte le razze, anche gente che la sapevano lunga come la povera Margherita Hack, che per vivere però facevano altri lavori, ma la sapevano ben lunga, quelli là. Un altro, un professore, cercava le mappe astronomiche, ‘ha una matita e un pezzo di carta?’, gliel’ho data, prende misure, ‘volevo vedere l’anulare della Lira!’, gliela faccio vedere dico, ‘no, la voglio trovare io’, fa i calcoli, alla fine gli dico: ‘guardi che nel telescopio mancano i dischi orari, se vuol vederla gliela faccio vedere io’. A occhio nudo non si vede mica, io però vado senza calcoli, vado con le costellazioni, con i disegni che ci sono in cielo. La mappa (indica un planisfero appeso alla parete) ormai è solo per bellezza, io guardo in cielo ormai, io vado direttamente dove si trovano le costellazioni. La mappa è il cielo. Capito? C’è l’ammasso globurale di Ercole, la Lira. Sono cinquant’anni che guardo in su. Di giorno lavoravo, di sera guardavo le stelle. Tutte le sere spiego alla gente, le distanze, tutto, gli anni-luce. Hai capito? Sono una persona curiosa.

Ce ne sarebbe di altra roba da scoprire. Ho anche una rana con sei gambe (apre l’armadietto, tira fuori un vasetto con dentro in formaldeide una rana da sei gambe). Ho una collezione di lumache, conchiglie microscopiche. La rana stava qui, le avevo fatto il recinto, le davo da mangiare, l’avevo anche addomesticata, stava in mano. Perché aveva sei gambe? Perché poi chi la mangia paga di più (ride). C’è un mare di roba, qua dentro. Ferrara? Ferrara è una bella città. Sono rare le città col castello in mezzo. E’ bella da vedere. Però dipende dalla gente, poi. Le faccio vedere la rana, poi chiudo e vado a fare qualcosa. Quanta robina che c’è qui dentro (apre una bacheca). Questo è un pesciolino mummificato con la piramide. Questa è la coda di un serpente a sonagli. Questa è una testa di squaletto. Quanta roba che c’è. Denti dell’ippopotamo. Pallina di erba sputata da un gabbiano. Disinfettata, nel diluente mezza giornata, eh. Questo è un baco da seta, guarda s’lè bèl. Ac zapèl. Il fiore del cotone. C’è solo a Ferrara, ma qui dentro però. Il nido dell’ape regina, è di cera eh. Questa è la radio. Funziona senza pile, senza valvole, senza niènt: si alimenta con la corrente nell’aria, l’energia elettrostatica. Capito com’è la faccenda? Con questa qua da bambino sentivo fino a Radio Praga, trasmissione in lingua italiana. Capito che confusione qui dentro?”

“Tutte le sere, anche a Natale, io apro”, conclude. Aziona la cupola, entra un po’ d’aria, le zanzare continuano a rosicchiarci la pelle. “Vado a inchiodare le mie assi, allora”. Mentre saluta, guarda per un po’ in basso, per terra, armeggiando con il suo bastone. Mi sembra quasi stanchissimo, per tutto quello che ha visto, senza muoversi mai da qui. Ma non si stanca mai, di tenere aperto tutti i giorni? “Ma no. Passo il tempo in compagnia”.

Originally published at www.listonemag.it on January 26, 2013.

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