Il lato verticale

Attimo
ok with my decay
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4 min readJan 15, 2021

La cava nascosta in una gola sull’Appennino vicino alla Futa, dove sembrava di essere in un anfiteatro romano costruito clandestinamente dagli alieni e poi abbandonato. Il bosco coi tronchi tagliati sul ciglio della strada verso Pian del Voglio, Firenze (raggiunta via statale), i cavalcavia asintotici della Variante di Valico, Pavana, Lizzano, Corno alle Scale, la condotta idrica verso il lago di Suviana, quando il cellulare dopo Castiglion de Pepoli non prende più, i confini regionali invisibili cercati su Google Maps e raggiunti in auto o in bici, la discesa da Tolè, il crinale di San Sisto dove stavano in equilibrio le birre, i tramonti, le vite, tutte i possibili modi per salire sui colli da Bologna, i calanchi visti da Sabbiuno, il bar sul Muraglione, la bandiera della Fiorentina a San Benedetto in Alpe, i migranti che giocavano a calcetto, sempre a San Benedetto in Alpe, la val Zena (la stretta di mano che davo sempre alla primavera, ricambiata), la picchiata a Quinzano, repentina e spiazzante, il vento alla Raticosa, essere l’unico ciclista in mezzo ai motociclisti alla Raticosa, la neve che appare solo dopo una certa quota, salendo in auto da Pietramala, le briciole di pane addosso davanti al municipio di Firenzuola, lo stupore a Passo del Giogo di respirare Alpi sugli Appennini, l’insegna ‘Neutro Roberts’ prima di uscire a Firenze Nord, imparare dove parcheggiare a Campo di Marte, le Murate, l’Arno infotografabile, sbagliare regolarmente strada a Pontassieve, il Bombone, gli abeti a Vallombrosa, la nebbia ottocentesca in un paese sconosciuto tra Prato e Firenze a segnare il confine, i murales nel centro di Modena, le fotografie a Reggio, la darsena di Ravenna, quel forno aperto sempre a Ravenna, in chissà quale quartiere, dove si andava dopo il Bronson, vedere come cambia la SS16 dopo Argenta, e poi dopo Alfonsine, e poi fino a Rimini, quella volta che andai a vedere gli Interpol con 38 di febbre a dicembre, al Velvet, le sorgenti del Tevere, quel tono di grigio levigato, opacizzato, smarrito, avvilito delle pareti rocciose che costeggiano l’E45 a Balze, l’assurdità di Gonzaga, il Po a Guastalla, qualsiasi portico scorticato dal sole e dal tempo in qualsiasi paese dell’Emilia in cui sia passato, quell’improbabile pizza a Finale Emilia dopo un altro concerto, un 25 aprile a Carpi «nella piazza più grande d’Europa», prendere l’autostrada per il Brennero e uscire anche solo ad Affi, solo per avere la sensazione di espatriare un sabato sera, la luna tagliata dalle onde mosse dal vento in quello spicchio di Gardesana tra Riva e Limone, il fiume più corto del mondo che sfocia nel Lago di Garda, il buio abitato tra Veneto e Trentino, per nulla rassicurante, dormire in auto nel parcheggio di Secchia Est durante un terremoto, Parma (tutte le volte), guidare fino a “Metanopoli” quella notte in cui ero particolarmente arrabbiato, viale Po, Ezio Mauro a teatro a Bibbiano, Paolo Nori il pomeriggio del mio compleanno a Luzzara, la piada da Denise, Bologna sempre, prendere contromano una via alle cinque del mattino a Padova e voler avere ragione con il vigile, il mattino e un po’ tutto il resto (fallendo), il Tronchetto quando si andava in macchina a Venezia, la mia Trieste, la bufera di neve tra Aurisina e Sistiana con la macchina carica di telecamere, aste, microfoni ed esseri umani, la sera di Pasqua a Colle Val d’Elsa dopo un concerto dei Verdena, tutti i banconi degli autogrill dove ho preso caffè, cochecole, cornetti, camogli, qualsiasi cosa commestibile per rimanere sveglio (senza mai cedere alla Red Bull), dove ho preso tachipirine, bustine in polvere quando rimasi senza voce, i bicchieri d’acqua che mi hanno allungato di notte negli autogrill, il tintinnio del cucchiaio contro il vetro di quei bicchieri, che sarebbe stato l’unico rumore prodotto in tutta la notte, il rettilineo a Bergamo, l’odore di biscotti fuori da Bergamo nei pressi di un’industria alimentare, lo skyline di Mantova dal ponte di San Giorgio, il distributore di latte fresco a Lovoleto quando hai solo 50 centesimi in tasca e una maledetta sete, la spiegazione dell’origine del nome ‘Premilcuore’ fatta da un’anziana tabaccaia a Premilcuore, ancora Firenze, tutte le volte in cui dovevo tornare indietro perché era troppo tardi, vivere puntualmente quella consapevolezza come fosse una sconfitta, una mutilazione, un’ingiustizia, quel tratto della Porrettana dove ci sono solo alberi, alberi e verde, ogni cosa è verde e non ci sono case, distributori di benzina, insediamenti urbani, rotolare a Pistoia quasi solo per voracità cinetica senza sapere bene il perché, finire fino a Viareggio solo per cinque minuti, solo per vedere per una volta un altro mare, una domenica di mille anni fa, il bar a Casaglia, le torri piezometriche al Lido delle Nazioni e un po’ ovunque nella mia bassa ferrarese, Pilastri, Poggio Rusco, Felonica, tutti i nomi che ho imparato a memoria, le uscite della Transpolesana che non portavano da nessuna parte, Lendinara, i buchi neri del Polesine, i tornanti delle Torricelle, Castel San Pietro la prima volta, ogni volta a Verona, sempre una prima volta, Preabocco che finisce contro un muro, nella val d’Adige, e non riuscire a capacitarmi di quei paesi che hanno solo tre lati: il quarto è verticale, è roccia, è sedimento di un ghiacciaio, è questa vita che ci ha tolto l’unico vero vizio che avevamo, le uniche vere benzodiazepine, medicine, droghe, alcol, diversivi: la benzina, l’asfalto, tirare giù tutti i lati verticali di un mondo grande quanto il palmo di una mano, le ore che mancavano all’alba per calcolare il punto massimo cui spingersi per riuscire a tornare in tempo. In questa vita pandemica dove i lati delle scatole in cui siamo parcheggiati non sono quattro ma ventisette, quarantadue, cinquemila, tra le cose che sono rimaste fuori dalla scatola, e noi dentro, stasera mi manca questo: quel lato verticale del prendere e andare, tutto nello spazio di una notte, un pomeriggio, una domenica, quando si riusciva sempre a tornare a casa.

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