La La Land

Attimo
ok with my decay
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5 min readMay 17, 2019

A tutti piacciono i bambini calmi, che se ne stanno imperturbabili mentre scalano l’oceano o smantellano quello che hanno costruito. Da piccolo tenevo tutti i Lego che avevo sempre montati, allestiti, e la situazione in camera divenne presto ingestibile quando sembrava essersi tramutata in un set cinematografico, la La La Land, dove galeoni dei pirati e stazioni dei Vigili del Fuoco erano abitate da uomini gialli sempre con la stessa imperturbabile espressione calma, e io mescolavo donne e uomini gialli, i pirati diventavano vigili urbani, i meccanici diventavano pirati, le navi cargo attraccavano su una roccia in mezzo all’oceano, un camion parcheggiava sulla banchina del porto, gli alberi crescevano nel mare, nelle caserme dei Vigili del Fuoco, piantavo alberi ovunque, gli alberi dei Lego dalle chiome rotonde, precise, che non erano mai troppe, non erano mai abbastanza per essere piantati nel resto della camera, e poi nella casa, e poi lungo le scale per scendere in cortile, sul cemento, sul sole del cemento, sulle rughe del cemento del cortile di quando da piccolo tenevo tutti i Lego sempre allestiti. Venne poi una mano divina a smantellare, a riporre tutto decomposto in una scatola, dieci scatole, cento scatole, le librerie smantellate, le pareti nude, muri bianchi su cui poi negli anni a seguire avremmo potuto appenderci per i capelli, e nell’attesa di quelle pareti sgombre, liberate dai mobili, dai Lego e dai mondi che non si dovevano mescolare mai e che io finivo sempre per ricucire tra di loro, i bambini dovevano restare molto calmi. È stato facile rimanere calmi in questi anni mentre facevo entrare altri mondi in collisione, inclinando certi piani per far scivolare delle storie dentro palazzi rinascimentali abbandonati e ricoperti da guano di piccione e topi liberi di scorrazzare, come fossero scatole con dentro miliardi di pezzi di altri mondi che mai avrei potuto vedere se non appendendoli ai muri di auditorium dei conservatori cittadini o giardini segreti di case nobili che non sarebbero mai più stati riaperti. Era facile sceglierle, quelle storie, prendendo come principio il fatto che ti scaraventassero contro il muro, dalla sedia dove le incrociavi leggendole, sfogliandole, guardandole, come quando vidi la storia di una sorella che non sapeva di essere ammalata e allora nuotava, galleggiava in piscina, rimaneva ferma in cortile d’inverno sotto la neve, a prendersi tutta la neve, ad aggrapparsi al suo stereo portatile, a guardare il mondo come se fosse uno soltanto, uno intero, il mondo di tutti quelli che conosciamo, e non frammentato in miliardi di mondi, i mondi di tutti quelli che non conosciamo eppure ci fanno inciampare mentre camminiamo per strada e ci invitano a rimanere calmi, perché i bambini calmi piacciono a tutti. Di tutte le storie che ho infilato in caserme chiuse, in negozi chiusi, in chiese chiuse, la prima che ho trovato è anche la più bella, la storia di un fratello che ha passato la vita a chiedersi cosa sentisse, sua sorella malata, e la risposta l’aveva trovata (come tutte le altre della sua vita), fotografando, fotografandola, e capire che «mia sorella nel suo mondo stava bene, forse sta meglio anche di noi», perché è suo, il mondo, e decide lei, quando bisogna stare calmi, quando bisogna lanciare lo stereo contro il muro, quando bisogna lanciarsi, contro il muro. Scegliere quelle foto, presentarle, chiedere di loro a chi le aveva pensate, scattate e fatte emergere al mondo degli altri, senza vergognarsene e senza dire una sola parola più del necessario, mostrando tutto mostrando il giusto, mi ha fatto sentire calmo come quei bambini che piacciono tanto, che si tengono in casa, in giardino come i nani, sul comodino come le foto di chi vuoi ricordarti prima di andare a dormire, nei quadri appesi sopra ai nostri divani, e ora uscire da quel mondo perché non riesco più a starci calmo, mi ricorda come ogni cosa abbia una scadenza, tu soprattutto, tu che scegli, soprattutto, e che bisogna non avere troppa calma, nel vivere le scelte che si fanno, e che dai luoghi chiusi, dimenticati, dove scorrono topi e cagano piccioni, ci sono sempre storie da raccogliere al petto come conchiglie. La storia di Trieste, che mi ha fatto amare Trieste dandoci un motivo, dei volti, e non soltanto appoggiandoci sopra le mie inquietudini che avevano bisogno di un porto in cui approdare, quando ne avevano voglia, la storia di un’agenzia che fa luce e che mescola la chimica dei rapporti ai solventi per sviluppare negativi, e inverte le polarizzazioni delle loro vite, il negativo diventa positivo, e viene stampato, appeso alle pareti, perché ci si può scagliare contro anche se non sono sgombre, ci si può perdere anche costruendo ponti tra mondi che non potrebbero stare in piedi, e invece ci stanno, anche un terzo anno ancora, anche se trovi soltanto due mani raggrinzite e tremolanti mentre appoggiano una Leica sul tavolo, o sono strette dietro la schiena, o sono un indirizzo postale di Milano a cui spedirai, senza saperlo, l’ultimo invito di questo mondo, l’ultima volta in cui prendi una scatola dei Lego e la rovesci dentro il cielo di Ferrara.

Questa cosa dello stare calmi, del non essere più adatti a certe cose, mi ricorda l’amico che scrive di «non essere adatto al web, in questo momento», e noi che lo ascoltiamo ci aggiungiamo ognuno di noi la propria postilla, la mia è «non essere adatto a nulla», ma c’è comunque un ponte, tra tutti questi adatti, questi aggettivi che la dovrebbero anche finire, di mettersi al posto dei sostantivi, perché poi ci costringono a ringraziarci delle offese, perché «ho imparato una cosa di me che non sapevo», che non è saper offendere, vorrei dire all’altro amico mio, ma è essere sensibili, che è una cosa che non fa stare molto calmi, e che non piace ai bambini, e non piace ai grandi che devono sgomberare le stanze, per fare posto alla crescita, ai numeri, agli impegni, alle prospettive, ai bilanci, ai compensi, alle ripartizioni, alle strategie, ai presagi seduti davanti al computer e alle birre nelle riunioni, al capire tutto, come andrà a finire anche questa storia, che non sarà più la mia, e mi viene da dire per fortuna, se deve finire così, se deve finire con il sostituire i verbi alle scelte, alle sorelle malate che non sanno di esserlo, alla chimica dentro le case di Trieste, alle grandi navi nelle piccole città, agli anni luce, ai dobbiamo, facciamo, ampliamo, ai verbi che usurpano le nostre vite come gli aggettivi, i nomi, io mi chiedo, i nomi di chi vorremmo appendere ai muri, dove sono, i nomi a cui siamo adatti, chi li fotografa, i nomi di chi vorremmo incrociare in ascensore, chi li sceglie, i nomi degli altri, chi li dimentica, i nomi propri, chi li ricorda.

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