L’acqua è fatta per i perversi

Attimo
ok with my decay
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3 min readApr 28, 2019

L’estate arriva anche al quinto piano di un palazzo schiacciato tra le pareti verticali del centro di Trieste. Entra da una finestra che viene usata per insegnare la postura corretta da assumere quando si scatta una fotografia: la mano sinistra deve arrivare in fondo all’obiettivo, la mano destra impugnare più saldamente la camera, e le gambe, soprattutto, devono essere più divaricate, sfalsate sull’asse verticale, il ginocchio sinistro ben piantato per terra. E poi respirare: quando fotografi impari anche a respirare, un’altra attività istintiva che può benissimo venire codificata, assimilata, accertata. È inevitabile oscillare quando si scatta una fotografia, e l’unico modo è seguire la corrente: attendere l’inspirazione, e premere il pulsante soltanto durante l’espirazione, il momento di massimo equilibrio possibile per un fotografo. C’è un vetro, una finestra, il golfo di Trieste, tra l’otturatore e il castello di Miramare che sembra lontano vent’anni e invece è a pochi millimetri dallo specchio della reflex, a pochi istanti tra un respiro e l’altro, tra litri di blu di acqua salata che vorresti berla tutta, rovesciartela addosso, tirarla su con le mani dal fondo perché in fondo ogni fondo è una rincorsa per chi ha fiato ancora da buttare. E anche la fotografia diventa codificata, non c’è nulla lasciato al caso, l’unico elemento casuale non è la luce, da sondare con esposimetri dagli aghi impazziti, non l’inquadratura, da intelaiare dentro grandi o medi formati, o in pellicole da venti centimetri che sembrano lastre di risonanze magnetiche e invece sono rullini per le macchine degli astronauti, l’unico elemento casuale sei tu, l’unica variabile in mezzo a questo mare di costanti: i diaframmi che si tirano dietro i tempi, le impugnature agevolate dalle appendici a motore, i rullini per diapo in bianco e nero, le istruzioni «che le trovi anche su internet». L’unica X da risolvere sei tu, che la fotografia non la devi scattare, la devi sapere «riconoscere», come il presente non dovessi guardarlo ma intuirlo, anticiparlo di una frazione di secondo sufficiente a non far impazzire gli esposimetri, le lunghezze focali, gli obiettivi. Il risultato poi «esce letteralmente dall’acido» quando sei in camera oscura, se usi le macchine fotografiche impiegate nella missione dell’Apollo 11, se ne va sulle proprie gambe e non c’è miscela chimica che tenga, «si sviluppa da solo», e si stende ad asciugare guardando la finestra sul mare, scende le ventisette rampe di scale incrociando chi abita ai piani sotterranei, signore con denti storti, anziani rantolanti, stranieri dagli accenti slavi, tutti i matti di Trieste, fino a rotolare giù per le discese verso le rive, passando per gli anfratti che custodiscono gli oggetti buttati via, libri su Stalin, giocattoli, vestiti, il tempo di imparare canzoni triestine sull’alcol e già sono scomparsi, sostituiti da guide turistiche ingiallite o altra immondizia, e poi la luce diventa gialla, oro, si stampa sui palazzi delle piazza quadrata dove tre lati su quattro sono costanti e la quarta parete non esiste, è la variabile X dove ci finisce il mare e inizi tu, in questa discesa che ti porta dentro l’acqua, scavalca l’Adriatico, ti fa tornare in Emilia.

E ti trascini sulle ginocchia lungo le rotaie fino a Reggio Emilia, una settimana prima o dieci anni prima, a leggere i labiali di Frankenstein in una video installazione di Francesco Jodice: «Le uniche cose che mi sento di dirti sono: usa la protezione solare, mangia verdure e proteggi i tuoi amici». E poi trentaquattro anni di silenzio prima della postilla, «assapora tutto», le insegne Fiori e Cucina, le librerie chiuse al lunedì, non è così divertente, i graffi lasciati dallo scalpello sulle cornici di legno, una rincorsa per chi ha fiato ancora da buttare, i riccioli di legno cui ti verrebbe da parlarci appoggiandoci sopra le labbra, ogni ricciolo ti sembra un arrivederci, ogni foto delle foreste finlandesi di Jaakko Kahilaniemi sembra un addio, le fronde verdi dei platani che esplodono dentro i cortili sembrano futuri appoggiati ai muri, le mele morsicate di Larry Fink sembrano quelle risposte di un bambino troppo serio e troppo ingenuo, un paradosso rinchiuso nello stesso corpo, che mi guarda nella penombra del pianerottolo del quinto piano di un palazzo a Trieste, otto mesi dopo, gli dico «dai, torniamo presto», e lui morsica la mela, mi risponde offeso «sì ma quando?», e mi sento il blu del mare salire fino alle caviglie, anche se siamo al quinto piano, salire fino alle ginocchia, anche se siamo al quinto piano di un muro verticale di Trieste, sento il blu del mare che arriva alla gola, e l’acqua entra dentro per tutte le risposte sacrosante che ancora non mi sono dato.

«L’acqua è fatta per i perversi», dice la canzone triestina, e «il diluvio lo dimostrò».

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