Le persone hanno gli occhi

Attimo
ok with my decay
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3 min readNov 25, 2016

Avevo paura di perdere tempo o non stare facendo niente o di fare la cosa sbagliata, solo che in quel momento non lo sai.

Sono dentro alla mostra dei Lele Marcojanni Le città hanno gli occhi da nemmeno due minuti e già le gambe iniziano a tremare. Bologna, fumetti, mappatura spaziale, paesaggi sonori (scusami, Glauco), autori e i loro luoghi dove tutto è nato, seminato, insudiciato, frastornato, riassemblato e rimodulato con il proprio stile, linguaggio, carne. Riviste spuntate in giro per Bologna come fossero rifugi antiatomici, case popolari, abbracci o coltellate alle consuetudini, squarci sui propri ego per far colare inchiostro su una visione del mondo non rintracciabile altrove e altrimenti, forse, se non proprio a Bologna. Ma le gambe mi tremano prima che io arrivi a tutti questi concetti, pesanti, lunghi, mentre staziono di fronte a questa enorme mappa della Bologna del fumetto popolata da nomi propri di persona mi ritornano quelle parole iniziali di uno dei disegnatori raccontati, Lorenzo, che ti guarda ansimante mentre viene sommerso da miti riquadri colorati e spiega i suoi inizi da disegnatore in città, le incertezze, le pubblicazioni. E Bologna scompare, rimaniamo io e lui, e poi io soltanto, e del fumetto rimane il rigore formale della mostra, talmente impeccabile nel rendere un fumetto di carta perfettamente plausibile in questa forma video da risultare seducente, talmente pesante, anche, nei tempi del ricordo così dilatati, in attese che durano minuti, che mi ricordano le dodici pagine del diario del padre di Lino, in quel “La terra dei figli” di Gipi letto giusto la sera prima, piene di scritte inintelligibili, un pugno in faccia al lettore che sembra non finire mai. E ringrazio il dio fiko perché oggi c’è ancora chi si permette di essere dilatato, di pesare e soppesare, di essere impeccabile, appunto fino a ribadire una pesantezza diventata, oggi, necessaria, per definirsi, definire, per sentire la pesantezza di carne sopra a questi corpi ormai tratteggiati, con l’aria che tra un tratto e l’altro si infila ovunque rendendoci palloncini gonfiati. Lele Marcojanni sono pesanti, ti ricordano il peso della tua vita ed esci dalla loro mostra con un’incredibile voglia di mettere in pratica i difetti collaterali dell’esistenza: far rimbalzare le onde sonore contro le pareti, prendere possesso delle visioni, senza vederle, cancellare questi verbi passivi-aggressivi, il vedere e l’ascoltare, per materializzare i ricordi, i luoghi, le città. Gli occhi delle città mappate dai Lele non sono specchio dell’anima o figure retoriche o strumenti, diventano pesanti come corpi, sono grassi, deformi, inadeguati come corpi ma così materialmente proattivi: le visioni acquistano il lessico e le paure, l’estetica e il linguaggio, la dinamica e il sapore di chi le vede. Bologna, i fumetti e chi disegna i fumetti, partire da un punto sulla mappa per perdersi definitivamente: non riuscire a dormire, avere voglia di fare tutto, avere voglia di dismettere i panni di un osservatore e prendere la matita ed essere la matita, essere la parola che si pronuncia, legare tutte le storie di Bologna a sé, andare a cercare tutte le storie del mondo e legarle e costruire la matassa di lana più grande del mondo, fino a farla diventare lei stessa mondo, e noi stessi abitanti di quella matassa.

Forse esagero, ma leggo quella frase di Lorenzo, appena dopo due minuti che sono entrato alla mostra, e Bologna non conta più nulla, i fumetti poi, conta solo ricordarsi se siamo quelli che amiamo o quello che amiamo, percepire in bocca netto il sapore di quella differenza, di quello scarto. «Siamo interstiziali» si legge in un altro luogo della mostra, riferendosi al ruolo marginale, tra le intercapedini degli autoctoni di Bologna che si girava da un’altra parte mentre venivano scritti fumetti con le viscere: siamo quelli che tengono insieme tutto, solo che in quel momento, non lo sappiamo.

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