Say Hello To The Angels

Attimo
ok with my decay
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6 min readJul 24, 2019

«Come i pensieri», gli rispondo, al ciclista che sta sbuffando sulla salita impercettibile della Statale lungo la Valnerina, e la sua goccia di sudore che dalle guance paffute gli cola sul mento sbarbato e poi sul telaio della bici vale più di un “sì, hai ragione”. Se mi chiedessero che lavoro faccio, nel 2019, “completare i pensieri dei ciclisti”, risponderei, facendoli svoltare dietro una curva che nemmeno loro pensavano esistesse, o fosse tracciata sulle mappe. «Se uno ha i rapporti giusti, poi le ruote basta lasciarle scorrere e loro vanno da solo», mi aveva spiegato a proposito di strada sterrata e di come condurre la bici, qualche dignitosa sbuffata prima, e io ci ho aggiunto quella roba che nessuno (tranne chi è pagato per farlo) vuole accollarsi, i pensieri degli altri, e la sua goccia di sudore mi ha sorriso, come se avvertisse dove le ruote l’avevano portato, a lasciarle scorrere: a farsi finire i pensieri dagli sconosciuti con una cinepresa in mano, a vedere l’alba davanti a una chiesa sventrata dal terremoto, a stare sveglio una notte intera guardando sempre e soltanto dritto davanti a sé, senza vedere più in là della luce del fanale. E dietro di lui, il compare sghignazzava con quell’accento bolognese spalmabile come una crema antisole, «dai che finiamo in tv, stavolta».

Invece non ci sono finiti, in tv, e i pensieri che non sappiamo di avere e che le circostanze ci tirano fuori sono come quei paesi che non esistono nemmeno su Google Maps. Tassinare, per esempio, è un borgo di appena un paio di case ormai cancellato dalla storia e dalla cronologia dei nostri telefoni. C’è soltanto una freccia, lungo la Statale di Forca di Cerro, che ci ricorda della sua esistenza: un tempo borgo in appoggio alla stazione lungo la mirabile ferrovia Spoleto — Norcia, oggi sparuti panni stesi a una finestra delle due abitazioni rimaste in piedi. Solo dopo diversi km di polvere e tornanti stretti si arriva a queste due case, forse ancora abitate, forse no, distanti imperturbabili minuti dal centro abitato più vicino. Sono le notti insonni che ti fanno trovare queste deviazioni per aggirare gallerie popolate da pipistrelli e urla primordiali del tuo inconscio, cercando la via di fuga per ritornare alla civiltà. Non sapevo dell’esistenza di Tassinare, prima di diventare insonne, ma quando mi ritrovo a spingere un’auto guasta sopra un carro attrezzi, una domenica mattina, mi rendo conto di averlo sempre conosciuto: Tassinare, le auto guaste, le spinte in discesa per farle ripartire e le notti insonni a completare i pensieri degli altri. Infilo le mani nei polmoni di questi ciclisti che pedalano di notte, e tiro fuori smorfie di insofferenza, sorrisi imbarazzati, pugni alzati; e ancora: apparizioni fugaci di istrici a tagliare la strada, stomaci attorcigliati per rendersi conto che il tempo non scorre mai uguale, che a Norcia si è fermato, e nel petto invece è scivolato via, maglie che si aprono sul petto per ostentare scritte cui si appartiene. Riprendo tutto, aggiungo quello che manca a un pensiero per diventare un concetto buono da masticare, e poi dico all’autista di accelerare, «ok siamo a posto», risalendo al contrario lo scorrere delle ore, arrivare prima dell’ultimo partecipante, indovinarne la perplessità per l’andamento abbastanza scostante dalle sue aspettative.

Come quando mi ritrovo a camminare per le vie del Ghetto della mia città, giorni, settimane, anni dopo, e stavolta non per lavoro. Cos’è questo deserto che mi si attacca addosso, mi chiedo, e non basta dare la colpa al caldo, all’estate, al tempo sputato via per spiegare dove siano finiti tutti. E quando mi raccontano del negozio di giocattoli che c’era all’angolo con via Mazzini, dove ora staziona indifferente un mediocre negozio di abbigliamento, mi rendo conto che già sapevo tutto: dei negozi disseminati su via Vittoria e via Vignatagliata, delle sartorie che le incrociavi ovunque, delle latterie addirittura doppie nello spazio di pochi metri. Del fatto che le vie le abitavano le persone, e non erano le vie a introiettarsi nelle persone, che le persone si prendevano i loro spazi, per vivere, che da tutto questo sono in un moto accelerato uniforme di distacco emotivo e fisico. «Ho chiuso con la mia comunità, dal giorno delle elezioni», mi confessa quando non abbiamo ancora ordinato l’antipasto, «adesso per me esistono solo i singoli, gli individui, in un rapporto uno a uno», e mi vengono in mente altre galassie, dove invece le strade sono calpestate, usate, riempite, dove l’estate riversa le persone per le vie come se non si potesse proprio farne a meno, del cielo, delle voci, del rumore e dell’entropia fine a sé stessa. In questo sistema solare dove il sole non si sforza nemmeno di calare alla sera e rimane sotto il letto a renderti impossibile persino il buio, i pensieri sono così scontati da poterli completare come le parole di un gioco della Settimana Enigmistica, basta girare con una penna e l’entropia in tasca: «se ripenso alla mia via Mazzini, oggi non riesco più a passarci, per la stessa strada». E mi sento le tasche piene di buio, che carpisco a manate dalle fronde degli alberi, dai ciottoli delle strade vuote del Ghetto, dalle considerazioni sociopoliticoantropologiche che si infilano tra i denti come quelle delle alici scottadito, dalla nostra grande tradizione repubblicana che non ci insegna a perdonare, e nemmeno a dormire, a respirare, ad aprire latterie, a mangiare pesce crudo, a camminare sui muri di cinta dei porti, a finire i rullini, ad abbracciare fari sul mare, a svestire melanzane.

E di tutto questo buio, poi, non riesco a farne nemmeno una stanza completamente buia, «hai una stanza dove non entra luce?», mi chiedi, «no, c’è sempre una fessura, comunque», gli dico, «e allora no, tu non ce l’hai, il buio», e penso che ne ho le tasche piene, le orecchie piene, i pensieri pieni, i fine settimana dispari pieni, ma non è abbastanza per aprire macchine fotografiche in sicurezza, per portarle nei prossimi viaggi, e dovrò impacchettarle e partire da solo, scalzo, usando il buio per segnare la strada, argomentare con i baristi sconosciuti che mi danno un panino alle tre del pomeriggio in buchi neri della Repubblica come Osoppo, in cui finisco dopo che le ruote della mia bici sono entrambe esplose per essermi ovviamente distratto un altro, ennesimo secondo, soltanto per aver rischiato di vedere meglio, di accendere la luce.

E con il barista sconosciuto mi ritrovo a completare la litania dei paesi della Carnia che si sono spente come i moduli lunari che non servono più, interrotti come una missione di esplorazione lunare per mancanza di fondi: Chiusaforte, Ugovizza, Carnia, Gemona, Pontebba, pronunciamo un paese a testa, annuendo entrambi all’inerzia: «quando c’erano le caserme parcheggiare a Pontebba era più difficile che a Milano». E con il meccanico d’auto sconosciuto mi ritrovo ad aggiustare le gomme esplose, e gli chiedo come fa, a saperne anche di bici, lui che sistema auto, e lui si gira di scatto, con quello sguardo di pietra azzurra che hanno in Friuli, «perché io ci vado, in bici», e mi racconta di quando percorreva la distanza tra la Terra e la Luna, con la sua bici, quando pestava sui pedali, e io gli reggo la chiave e i pensieri, e poi l’incidente, il non riuscire più a stare davanti agli altri, il non riuscire a star dietro, gli altri, la bici venduta, il divano, il corpo che si gonfia, il non accettare niente, il provare a correre, ma correre non gli piace, «io voglio uscire di casa e andare dove mi pare, correndo sto sempre lì», sempre lì, sempre lì, e non vogliamo stare sempre lì, nessuno vuole starci, lì, così compra un’altra bici, «un missile», gli dico, e lui minimizza, stringe la vite, accende il compressore, butta dentro aria, «la bici ti fa respirare», gli dico, «mi manda via i pensieri», mi dice, e non capisco più se sto lavorando, se sto perdendo tempo, se sono stato salvato, se devo salutare gli angeli, se sono sopravvissuto o fortunato, se sono ancora io, se non sono diventato i miei pensieri, e sono gli altri, a completare me, e sono gli altri, a lavorare con me, a riprendermi, a non mandarmi in tv, a schivarmi, a lasciarmi indietro, ad accelerare quando hanno finito, ad essere un paese che non appare su Google Maps, a essere una deviazione ingiallita, che se tiri dritto, lungo la Statale, non vedi mica, se lasci scorrere i pensieri, non ti fermi mica.

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