So you’re dreaming of after

Attimo
ok with my decay
Published in
8 min readAug 16, 2023

So you are tired of us
So rest your head
Turning back fourteen years
Of what I did and said

So you are breathing disaster
I did what I was told
But I was a man born invisible
Was it something I said or some kind of joke?

So you are tired as the sun
Are you with or without a friend?
Bring me back everything caught in your shield
Let everything else descend

È trascorso ormai un mese dalla fine del tour delle Bike Night, ma i riverberi della fine dei tour, dei progetti, dei lavori (perché Bike Night per me è un lavoro, anche e soprattutto) sono come i cerchi nell’acqua: «non sanno nuotare, si infrangono», si confondono con i riverberi dei tour futuri e passati, e una fine compiuta non si può mai tracciare veramente sull’asfalto (o sulla ghiaia). E quando finisce di evaporare la stanchezza accumulata nel cercare di tenere insieme tutti i pezzi, rimangono sul greto del fiume i resti della piena notturna di cicliste e ciclisti: tronchi, sassi, accenni di alberi e piante cresciute proprio dove passava l’acqua, e chissà mai se resisteranno alla secca invernale.

E di tutto un tour in bici confesso che la bici non è mai la prima cosa che rimane impressa. Una contraddizione non sempre confessabile nel mondo della bici, ma tanto è il sedici di agosto e possiamo concederci il lusso di ricordare. Ricordo le persone che mi hanno aiutato senza essere minimamente consci del sostegno che mi stavano dando: e allo stesso modo quelli che sì, lo sapevano eccome e sono arrivate apposta, magari prendendo un Freccia alle nove di sera da Bologna verso Milano. Ricordo il numero di caffè che avevi già preso e mezzanotte non era ancora passata, l’espressione del commissario mentre intimava il “sequestro del veicolo”, ricordo il rumore della ghiaia sotto ai piedi mentre mi allontanavo pochi secondi prima di una partenza, il rumore di chi di fronte agli imprevisti non sceglie di mettersi di traverso ma nemmeno di fronte, e spera per una volta di essere semplicemente schivato. I riverberi di un tour portano a riva il conforto e il lavoro di chi al tour non c’è neppure mai stato, ma da chilometri di distanza alla domenica mattina comunque era lì a chiedere, inviare, raccogliere improbabili Wetransfer inviati con lentezza esasperante. Portano tutte le parole spese per restare svegli di notte nell’unica auto che segue la tappa per intero, dall’inizio all’arrivo, quella dei video e delle foto. Capitava sempre, in ogni tappa, che si finisse a parlare tutt’altro, e non basterebbe un podcast agostano con sobrie puntate da 80 minuti l’una a infilarci dentro tutto: i figli che abbiamo, i figli che non avremo, i lavori che vogliamo cambiare e i lavori che invece cambiano noi stessi, la programmazione musicale delle radio locali alle cinque del mattino, le frasi epocali che ti segnano come «quando non c’è il contenuto, buttati sulla forma», e ancora deviazioni su deviazioni fino a perdersi in città invisibili dallo spazio, in quartieri lontani, in viaggi interstellari di un altrove lontano dalle bici, dai tour e molto più vicino ai nostri ricordi: i quartieri di Bologna, i quartieri di Milano, di Rimini, di Ferrara, fino ad arrivare ai racconti dei padri che vivevano a Bari mentre tornavamo dal mare sulla superstrada deserta per Ferrara.

I riverberi di un tour sono fatti delle rughe delle persone che anno dopo anno continuano a stare svegli di notte per organizzare ristori, passaggi, smistare volontari; le rughe di chi ti offre pane e pancetta nelle pause dei sopralluoghi, di chi con le mani giunte dietro la schiena in pochi secondi riesce a fare un’analisi sociologica dei partecipanti (parzialmente in dialetto ferrarese) più precisa e meticolosa di chissà quale ricerca di marketing: «quelli improvvisati non si vedono più». Di pura improvvisazione invece è fatto un tour, e soprattutto quello che accade prima e dopo un tour: salvare una tartaruga che si è piantata sulla rampa d’accesso dell’argine del Po a Serravalle, spostare a mani nude tronchi di alberi spezzati dal temporale a Osoppo. Di improvvise pause non previste come il bicchiere di prosecco e un panino ad Abbiategrasso, i cocktail con i nomi di ciclisti come Oldani o Moschetti al Bar Binda, il radar delle previsioni sul vento sul Lago Maggiore ad Arona. Di nomi che piovono come pietre sul parabrezza: Golasecca, Panperduto, Tornavento. Di storie e di ricordi che arrivano da lontano eppure sono sempre lì, a seccare la gola, come i racconti della frana del 2003 su Ugovizza, o la cabina di comando di un vagone di un treno della vecchia Pontebbana, ora spiaggiato a Resiutta. I riverberi di un tour finito ormai da un mese sono come diapositive che scopri di avere perso tra le tasche dei pantaloni tra uno scontrino e una ricevuta dell’autostrada: lo stormo di iris eremita nella piana vicino al Tagliamento, il sole che si infrange nell’acqua del Naviglio Grande a Boffalora, la pianura che inizia dove finisce l’argine del Po e non finisce mai, e quel mai dopo quarant’anni che ci abito dentro continua sempre a sembrarmi così impossibile e pesante e commovente. I riverberi di un tour che chissà mai quando finirà sono gli odori: gli odori dei campi coltivati dentro cui ci finisco fino alle ginocchia, gli odori dei biscotti appena sfornati che sprigiona la pasticceria nel centro di Venzone, il mais alto come montagne lungo il Cormor, la sabbia bagnata che cola dalle giunture delle sedie a sdraio che carichiamo al Lido di Volano, il mare ancora intonso delle sette del mattino, e il freddo e il buio delle gallerie dell’ex Pontebbana quando non passa nessuno: non passano i ciclisti, non passano i rumori, non passa l’estate e non passa la luce e pensi sempre di essere inghiottito da un buco nero.

Eppure le gallerie alla fine cedono e si divaricano di nuovo e ti risputano fuori all’aperto, sotto un cielo di stelle o di sole ma sempre sincero come l’estate. E in mezzo all’estate tu rincorri l’inquadratura giusta, che è sempre quella che non hai ancora fatto prima e mai più farai dopo, rincorri le farmacie prima che chiudano alle otto di venerdì sera per una segreta scatola di paracetamolo, rincorri la scia del profumo «sporco di cioccolato» delle torte sfornate alla stazione di Chiusaforte, rincorri quei ritornelli di Tiziano Ferro che ti entrano stupidamente e inspiegabilmente in testa alle quattro del mattino e che canti sottovoce per non svegliare la dignità.

I riverberi dei tour continuano a infrangersi sulla tua coscienza anche quando sono conclusi, quando ti capita di ritornare in quei luoghi per una bandiera dimenticata, quando ormai se ne sono andati tutti, delle cicliste e dei ciclisti della notte, e sei rimasto da solo a guidare e a “parlare coi cani”, e mentre ti lasci alle spalle le cave del Predil e quell’azzurro sincero del Fella capisci che tra tutte le tristezze che hai generato, una di cui ti senti più colpevole è quella che ti prende alle spalle ogni volta che lasci le montagne. I cieli verticali su cui arrampicarsi a mani nude, gli orizzonti che invece di finire mai come la pianura finiscono subito, proprio dove inizi tu, le persone che ti conoscono appena eppure ti chiamano per nome proprio quando ti vedono, le persone di novant’anni che al mattino scoprono di una folle pedalata notturna e allora di notte vengono spontaneamente a dare una mano, «tanto io ho fatto la guerra, cosa vuoi che sia star svegli una notte», i ragazzi aspiranti deejay che si presentano con una console in mano e chiedono se possono suonare e si inceppano emozionati se li riprendi, la ruggine dei ponti sospesi peraria (uno si chiama appunto così), entrare nei cortili privati per raggiungere cascate mal segnalate, le notti in cui non finisci a “parlare coi cani” o a “fare lo scemo per strada o su Facebook” perché finalmente vedi le stelle, vedi il buio con i tuoi occhi e non ricordi nemmeno più perché sei lì, cosa stai facendo, e finisci per ricordare invece finalmente tutto: perché sei arrivato lì, quanta strada hai fatto, quanta strada ancora vuoi fare.

Le parole che più mi rimangono impresse, di questo tour 2023 delle Bike Night, arrivano quando il tour è già concluso, e anche questo forse vorrà dire qualcosa. Sono le parole di un vecchio amico a tavola, arrivano in una di quelle incomprensibili giornate di fine luglio dove ogni cosa è compressa e sembra non ci sia più spazio per niente, e invece basta mettersi di traverso, a quel fiume in piena, per fare spazio a una piccola e silenziosa verità: «Io pensavo — dice Gianni — che la bici fosse semplicemente un mezzo per andare da un punto A a un punto B, e invece ormai mi accorgo che viene sempre più concepita come un fine, invece che un mezzo». Siamo così stanchi, Gianni, penso, ma non te lo dico e questa superflua verità me la tengo per me, e ripenso alla mia immagine preferita di questa estate a guardare i giri in bici degli altri. Periferia di Arona, su nelle colline dove il lago non si vede. Siamo fermi in attesa in un bar di un benzinaio, sono le otto di sera e dall’altra parte della provinciale gli unici raggi di sole che ancora riescono a oltrepassare il crinale colpiscono il balcone al primo piano di un’abitazione. Illuminano un uomo che sta chiudendo le tende attorno ai sostegni della tettoia: il sole sta svanendo, e non serve più proteggersi. Accanto a lui il suo cane è seduto a fissarlo: lo guarda compito, segue minuziosamente e compostamente i lenti movimenti del padrone mentre lega con una corda la tenda. Quel cane, quell’uomo e quel balcone mi sembrano così lontani, così distanti nella loro autosufficienza e asciutta calma, da ricordarmi in fondo a cosa (mi) serva davvero la bici, i progetti, i lavori, le persone che prendono i treni il sabato sera, che ti ascoltano alla domenica mattina, che ti aspettano tutta la vita, a cosa serva pure l’estate.

--

--