Supersymmetry

Attimo
ok with my decay
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24 min readSep 12, 2014

I lived for a year, in the bed by the window
Reading books, better than memories
Wanna feel the seasons passing
Wanna feel the spring

Un campo da basket, un muro di cinta, i binari del treno, una catena montuosa o una pista ciclabile, la pancia rotonda di un finanziere. Una sbarra arrugginita o iniziali incise su un cubo di pietra. Un dialetto, una linea immaginaria, una diga o un ponte. Un atteggiamento, una risposta o un sorriso. O l’assenza, di sorrisi. La scortesia o l’indifferenza, la bonarietà o la meticolosità. Cortili senza recinzioni o case cantoniere dimenticate a bordo strada. Ci sono infiniti modi per tracciare confini tra uno Stato e l’altro, e infiniti modi per rimuoverli, accantonarli, metterli da parte. La parte più divertente e sadica dei confini è la loro capacità di lacerare ma senza strappare: sono linee tratteggiate che ci divertiamo a percorrere con i polpastrelli sugli atlanti o su Google Maps, che servono a separare paesi e nazioni ma inevitabilmente uniscono come le cuciture di un sarto. Il vestito che risulta da questa confezionatura non ha nessuna taglia, sta bene su tutti e su nessuno perché i confini non appartengono ad altri se non a loro stessi. Esistono per ricordarci che possiamo andare oltre, si esauriscono nel tempo, agevolati dal benessere e dalla pace europea, per assottigliarsi fino a mutarsi in specchi invisibili: un alto atesino coincide irrimediabilmente con un sudtirolese, un valtellinese assomiglia a uno svizzero, uno sloveno a un triestino. Una corrispondenza dei sensi non soltanto tautologica (un altoatesino é un sudtirolese, fu il confine a inventare definizioni che non esistono in natura), ma che diventa reciproco addomesticamento. È una conclusione cui sono giunto dopo averli attraversati di passaggio, come una sarta distratta e di fretta cerca di infilare ago e filo nella stoffa delle Alpi, in fin dei conti si trattava soltanto delle mie vacanze, per di più estive. Eppure più il pallino blu si spostava su Google Maps, di qua e di là dall’Italia, più sentivo che i confini sono specchi, che rimandano l’immagine deformata di ciò che siamo. E che attraversandoli ci si possa scivolare dentro come Alice nel paese delle meraviglie, cadendo in precipizi infiniti ricchi di gemme incomprensibili, dove la benzina finisca per costare meno o la crema napoletana sia migliore a Trieste che a Napoli. In fin dei conti, le verità più bugiarde e convincenti della mia vita le ho sempre baciate d’estate.

Abbiamo caricato in macchina ago e filo, provando a rattoppare le strade statali italiane. Allergici ai pedaggi, siamo usciti quasi subito dall’autostrada, per gusto e non per sfuggire alle code. Cercavamo il blu del mare ma prima di tutto il blu della segnaletica delle strade urbane, racchiuse tra capannoni industriali e supermercati che fuori dal confine della provincia natia assurgono alla stessa dignità di monumenti segnati sulle guide turistiche. A Redipuglia e al Sacrario Militare c’ero stato da piccolo, in gita scolastica alle medie, un tempo necessario per rimuovere l’alienazione che quel luogo emana. Quasi patetico, nel suo ostentare un rigore formale, estetico e didascalico in ogni dettaglio. L’ossessiva ripetizione ‘Presente’ che si staglia sul limite ignoto di ogni gradone. La geometria infinita che si perde nell’orizzonte, sporcato soltanto dagli alberi e da tre innocenti croci. La segnaletica bruciata dal sole, soprattutto: “attenzione al traffico”, con un simbolo dalla mimica comica, “zona sacra”, con quel livore patetico da Stato Famiglia ormai inesistente, eppure comunque commovente, le targhe “Uomini” e “Donne”, affisse agli angoli opposti di una baracchina destinata ai bagni, vuoti e dunque puliti, nascosti dal monumento. Non c’è praticamente nessuno, in un lunedì mattina di agosto dove a nessun italiano in ferie verrebbe in mente di farsi gradoni costellati di cognomi e nomi che non ci riguardano, e infatti le uniche presenze sono straniere, forse ingannati da qualche guida. Ci scappa pure da ridere, percorrendo la salita lateralmente nell’erba, tradendo quel monito, “Non curiosità di vedere ma proposito di ispirarvi vi conduca” e rendendoci così colpevoli fin dal primo giorno delle nostre mediocri vacanze.

Perché proprio di curiosità di vedere sono armati i nostri cuori sfiatati che scelgono Trieste come asola della cucitura, dove l’ago si infila nella carne e il filo stringe nodi inestricabili. La metà dei nomi sui campanelli è straniera, il caffè non si chiama caffè e nei bar usano un codice così intimo e militare per ordinare un espresso o un macchiato (che non svelerò, lo potete trovare su una qualsiasi guida turistica o scoprirlo direttamente da soli), il respiro delle vie del centro è chiaramente asburgico ma con un filtro ai colori così desaturato che ricorda il Decumano Napoletano. Trieste è come ogni città di mare, che prima o poi finiscono per assomigliarsi, a parte in Piazza Grande, come la chiamano i triestini, Piazza Unità d’Italia che si trasforma in cinema e nell’abiurazione totale del reticolato stretto e irto che la circonda: aperta, sfrontata, esageratamente spalancata sul mare. A sera finiamo a mangiare patate in tecia cullati dall’accento sloveno di una nostra amica triestina, slovena all’anagrafe e distante nella mimica, nei tratti e nella goniometria dei pensieri dal mio disordine italico. Petra ci elenca con semplicità le dicotomie triestine, che sono «più italiani degli italiani e meno italiani degli stranieri». Ci suggerisce pasticcerie di inizio Novecento e negozi di fotografia dove vendono ancora rullini. Entriamo la mattina dopo alla Pirona, dove assaggiamo uno strudel con le albicocche e una pasta chiamata “Napoletana” perché di crema fritta, «come fanno a Napoli», ma il sapore è ancora migliore, se possibile. La titolare spegne l’entusiasmo per una possibile gita a Opicina tramite l’antica funicolare, raccontandoci le traversie del tram numero 2, deragliato e poi sospeso e poi ripristinato, ma soltanto per un giorno, poi di nuovo sospeso, e chissà per quanto. Alla fermata in piazza Oberdan ci andiamo lo stesso, però, anche solo per vedere il solco dei binari, e ripieghiamo sulla gomma per salire all’Obelisco di Opicina, laddove inizia la Strada Napoleonica. Serve per collegare visivamente le due parti di Trieste, l’acqua e la terra, nell’unica direzione possibile concessa dalla storia e dai sentimenti: in verticale. Come il taglio di una lama, come la parete di roccia carsica, percorsa da un uomo a torso nudo a pochi centimetri dal suolo nell’unica direzione possibile concessa dall’ozio estivo: in orizzontale.

Il topolino che schizza dall’erba e spaventa una coppietta accovacciata sopra una panchina al Giardino Pubblico ci ricorda che non siamo in una cartolina, come il ragazzo asiatico che si appoggia a un tavolo da ping pong di marmo usurato dal tempo, tenendo ritto il telefonino collegato su Skype. Siamo forse dentro pagine di un libro, ci sono le statue di Joyce e di Svevo sparse per il centro. La coscienza di Zeno la lessi appena dopo la maturità, quando pensavano avessi la mononucleosi e fui costretto a restare in casa settimane, invece di godere della libertà da esami superati. Abbiamo scelto Trieste anche per riscattare tutte le estati abortite, per abbracciare scrittori di bronzo di cui abbiamo letto poco o nulla, perché sentiamo di essere frammentati in milioni di pezzettini sempre, e avevamo così bisogno di città frammentate. Trieste è rimasta straniera per anni, invece di godere della Patria, e trovo corrispondenza della nostra disgregazione interiore nella varietà di volti (come direbbero quelli bravi) che incrocio alle fermate di Piazza Goldoni, o nei dintorni del Mercato Coperto. Volti improbabili, anziani sgrammaticati e poco rassicuranti, signore composte, giovani apparentemente omologati ma tutti con un dettaglio, un vezzo estetico o un difetto fisico o un bagliore nel corpo o nel tono di voce che rende impossibile una classificazione. Il vento si abbatte di sera sul Molo Audace, a coprire il tramonto come un mantello che si adagia sul sole e nasconde le complicazioni logistiche, storiche e sociali di Trieste, quando invece per le nostre non basta il bavero alzato o un abbraccio.

Rigorosamente su strade statali raggiungiamo Gorizia, la città dalle insegne dei negozi chiusi, un po’ per ferie e abbastanza per decadimento economico, forse. Evitiamo la frontiera principale per perderci (letteralmente) nella periferia di Gorizia. Il passaggio da uno Stato all’altro è silenzioso, e sono i cortili delle case senza cancellate ad avvisarci che siamo passati dall’altra parte. Il bambino che giocava a Risiko in me sobbalza di fronte a una pista ciclabile che segna il confine, o il muro di recinzione di un edificio. Basta così poco per derubricare secoli di storia? Nova Gorica è soltanto un altro modo di dire Gorizia, qualche isolato e il confine assume le sembianze del binario della ferrovia. I cartelli esistono, ma forse più per noi turisti che per reale utilità. La dogana è ovviamente abbandonata, una casetta di legno dipinta di bianco e imbrattata da scritte in sloveno e vetri rotti. Dalla finestra si scorge l’adiacente campo da basket. Due uomini attempati, con la camicia che esce loro dai pantaloni, attraversano i binari (e il confine) uno a piedi e l’altro in bicicletta. Una ragazza bionda come il sole è seduta a bordo strada. I confini sono diventati parco giochi per noi provinciali che quando attraversiamo il ponte sul Po ci sembra di iniziare un inter-rail. Decidiamo di proseguire da Nova Gorica lungo il lato sloveno delle Alpi, seguendo semplicemente il nord e l’esuberanza da assenza di operatori telefonici italiani.

Deskle, Kanal, Tolmin, Kobarid: è la filastrocca slovena colorata di verde che ci riporta all’essenzialità di agosto, viaggiare in macchina coi finestrini aperti senza sapere esattamente in che direzione si sta procedendo. L’euforia da segnaletica in idioma incomprensibile termina al Prelaz Predel, con la dogana lasciata al suo destino di rovina per fotografi hipster. Dietro ai vetri ormai opachi un telefono a rotella grigio, fogli di carta sul pavimento, pezzi di intonaco e polvere ovunque, una bustina di Tè Lipton, memoria di inverni nemmeno troppo lontani. Passando per le Cave del Predil, notiamo le ferite della montagna, la pietra rossa che sanguina a cielo aperto di fronte a inermi palazzoni per le colonie estive. Ovunque cartelli ‘Pericolo di caduta neve’, meno minacciosi delle urla rabbiose di un passante al telefono che smuovono l’interesse borghese dei turisti attorno. Ci dirigiamo verso Tarvisio, attratti dal tratto distintivo dei luoghi di confine e di montagna soprattutto: ancora insegne di esercizi commerciali ormai chiusi, vittime dello spopolamento irreversibile verso le città. La topografia di una comunità in via d’estinzione, sgretolata come i muri di case abbandonate nel pieno centro di Tarvisio: Articoli Sportivi, Merceria, Abbigliamento. E poi cognomi, firme del passato congelate in una targa sopra a portoni di legno austeri e sbiaditi. Dove se ne sono andati tutti? Ogni vetrina sembra un viaggio nel tempo, sembra una cornice di un istante della vita di questi paesi di montagna. Dietro a un vetro c’è ancora un manifesto di ringraziamento per il passaggio del Giro d’Italia 2013, quindi un anno fa. Il presente sembra non esistere in montagna, la roccia delle cime, il profumo del legno degli alberi, il rumore dell’acqua dei torrenti, i gas di scarico sulla statale, e queste vetrine di hotel e attività commerciali, ancora aperti o irrimediabilmente chiusi, cancellano la dimensione del presente: la vita è ricordo o attesa, è celebrazione o finzione, è premessa o profezia, quasi mai azione. Quest’ultima è destinata al fondovalle, ma nei paesi di montagna, perlomeno dalla mia prospettiva veloce e istantanea della strada statale, vive soltanto il passato o il futuro.

Mentre sto fotografando la facciata di un palazzo grigio e austero, sento posare sulle mie spalle un’occhiata quasi indispettita. «Lei è del giornale? Se vuole le spiego tutto», mi chiedono due occhi azzurri impazienti. «Lo sa che quella casa che sta fotografando è mia?». No, non lo so, e il senso di colpa da giapponese-che-fotografa-tutto mi predispone all’ascolto. Chi mi parla ha un filo d’erba sulla guancia e tantissima voglia di conversare, anche con uno sconosciuto. E’ un anziano originario di Ugovizza con una banconota da dieci euro in mano e capelli bianchi diradati in testa come zampilli di una fontana. Prova a spiegarmi come funziona la faccenda dei possedimenti in quelle aeree montane, il diritto legnatico, quante case possiede, le contraddizioni del sistema abitativo della zona. Fatico a seguirlo, ma lui prosegue, mi spiega che ne ha cinque, di case come quella che sto fotografando, ora proverà ad aprirci un ristorante. Poi divaga, varca i confini e finiamo a parlare di Africa, il canale di Suez, il canale di Panama, Tunisi e il deserto, dice che lavorava per le costruzioni delle dighe, almeno così credo di aver capito. Si professa sloveno, «il mio cognome è Prešeren, come quello del Dante sloveno, il poeta pupillo dell’Imperatore». Prima di congedarmi mi garantisce che «il futuro è l’elettricità», io annuisco. Poi mi ringrazia «per averlo ascoltato». Non gli ho chiesto nemmeno il nome, e lui mi sta comunque ringraziando.

Risaliamo in auto, fermandoci prima dell’Austria soltanto a Pontebba per un caffè macchiato nel bar della piazza centrale. Fuori ci sono due spaventapasseri di paglia seduti su una panchina. Dentro il gestore da dietro il bancone si lamenta con presunti amici per i ritardi nei lavori di sistemazione dell’impianto audio. La sensazione di essere osservato e leggermente compatito per la mia macchina fotografica al collo, alle sette di sera, a Pontebba, è tangibile. Annusano la mia estraneità al luogo. Puzzo di straniero, sebbene parli la loro stessa lingua. Saliamo al Passo Prampollo, con il sole ormai stanco alle nostre spalle. Poi è Austria, che sembra ancora Italia. Un laghetto costeggia una curva della discesa, finiamo per farci galleggiare sopra bolle di sapone che una bambina tedesca osserva quasi sconcertata. Le strade diventano più larghe, quasi fossero più abituati di noi italiani, alla montagna. L’odore di fieno che entra dal finestrino ci fa quasi sentire persone migliori, anche solo per un tornante. Arriviamo tardi all’hotel a Birnbaum, giusto il tempo di una cena tipica di un albergo alpino: carne e pesce e riso e verdure, assieme. La moquette nei corridoi odora di stantio, alle pareti quadretti di stoffa improbabili, meravigliosi come i tappeti colorati sotto acido della Stanza dello Svago, adornata di riviste dai titoli accesi.

Austria è fieno e legno. È la rassicurante distanza di sicurezza tra il nostro presente e quello che ci lasciamo alle spalle: una catena montuosa ammantata di alberi separa i nostri occhi stropicciati dal mattino all’Italia, che teniamo legata al guinzaglio come un palloncino sgonfio che rimbalza per terra. Non ci vogliamo allontanare troppo perché non sono mondi nuovi che ci mancano da scoprire ma l’appropriarci una volta per tutte dell’esistente, che nella sua impalpabilità seriale ci sembra essere la cosa più lontana dal concetto di ‘casa’. Dopo Sillian di nuovo la frontiera, che staziona muta a fianco di un’enorme segheria. La strada è a scorrimento veloce, frotte di targhe italiane sfrecciano avanti e indietro dal confine, a indicare la vicinanza a quelle Alpi confezionate su misura per lo stereotipo italiano delle Alpi: l’accento tedesco, l’ordine, la pulizia e il rigore formale (quasi sterile) dei prati tagliati al millimetro, dei marciapiedi lindi e rifiniti, dei fiori colorati (spettrali) ai balconi. Nel minuscolo parcheggio di un supermercato di una San Candido intasata come il Grande Raccordo Anulare alle sei di un pomeriggio feriale risuonano accenti romani, toscani, emiliani. Siamo nel posto meno italiano in Italia, colmo degli italiani più italiani d’Italia. Lontani anni luce dalla mestizia della montagna friuliana, degna ma abbandonata, dall’innocenza della montagna slovena, che ha soltanto da offrire un colore, il verde, come una persona gentile sa offrire soltanto le buone maniere. San Candido è la porta d’accesso del nostro viaggio nel Sud Tirolo, l’Alto Adige che di italiano ha soltanto i turisti, che ha preso la montagna per trasformarla in una brochure da leggere distrattamente dal parrucchiere o in giardino, inumidendo i polpastrelli per sfogliare le pagine. Così come l’abbigliamento urbanissimo e curato dei passanti bagna di stridente incongruenza il sorriso dei ciclisti che scelgono i percorsi in discesa, con figli al seguito. Nelle tute aderenti acquistate da Decathlon vedo la fine della montagna come l’ho conosciuta: infatti il mio k-way non respinge più nulla, assorbe ogni goccia d’acqua, e divento bagnato anche io, in questa rappresentazione scenica della Montagna che è diventato l’Alto Adige.

Ne avremo la ferale conferma lungo le sponde del Lago Braies, delizioso scenario ideale per il prossimo film di Wes Anderson, dalla simmetrica corrispondenza delle pendici rocciose che si specchiano nella parete d’acqua orizzontale, perturbata soltanto dal lento intercedere delle barche a noleggio per i turisti. Ecco, appunto: i turisti. Italianissimi più che mai, sguaiati, inopportuni, schiamazzanti, si spogliano per prendere il sole sdraiandosi tra le macerie di alberi recisi da una mano invisibile (tutta la natura è levigata da una mano invisibile, in Alto Adige, dall’erba al fieno ai torrenti). Corpi seminudi atterrati su un pianeta alieno, pelle pallida (ancora per poco) che luccica sopra a un tappeto soffice di aghi di abete. Mi muovo tra le rovine di tronchi mutilati armato di macchina fotografica, lo sbarco di Normandia della mia estate, ma invece di interpretare le truppe di liberazione sono l’invasore che finisce in trappola. La valle di Braies è chiusa, uno dei tanti vicoli ciechi in cui è finita la nostra montagna, oltre un autoscatto non si può procedere. Anziani dai capelli bianchi che spuntano da sotto i copricapi si aggirano per la spiaggia di sassi bianchi perplessi, cani che abbaiano all’acqua, forse infastiditi dall’unico elemento che tace, il lago, perché anche le fronde del bosco si agitano per il vento. Verrà pure a piovere di lì a poco, ma con il sole, e la natura ci negherà uno di quei temporali estivi che non guarda in faccia a nessuno.

Ero venuto in questa valle cieca per starmene in silenzio, e vengo accontentato grazie a quei litigi epocali che solo in vacanza possono accadere. Le incomprensioni e il fastidio per il vociare altrui mi fa sedere sulle rive di un torrente secco, dove scorre soltanto un filo d’acqua che trasformo nel mio frigo portatile per raffreddare le bevande. Mentre mangio svogliato la mia insalata, racchiusa nello stesso contenitore di plastica che uso quando vado al lavoro, i passanti che scendono a valle mi guardano attoniti. E nemmeno dietro le quinte della messinscena, lontano dal lago imperdibile, si sente il rumore dell’acqua. Urla dei bambini, disquisizioni sull’orario del pranzo, vaneggiamenti su tragitti futuri: tutto il risibile umano si concentra in questa valle chiusa e non trova sfogo, e si scioglie nell’acqua del Lago di Braies che diventa scura, saranno le nuvole grigie gonfie di pioggia, vorresti sperare, e invece le onde innescate dai remi delle imbarcazioni turistiche sono le pieghe della nostra fronte corrucciata. Sarà il temporale allora: nemmeno, sono le vene di un lago che sembra il clown di un circo di periferia, che gli tocca sfoggiare il sorriso triste per far contenti grandi e piccini, e che in cambio ottiene le briciole dei nostri panini, l’erba infilata nei nostri calzini, i sassi lanciati in modo ferale da bambini senza nessuna pietà per chi deve reggere il peso delle nostre aspettative per tutta l’estate. Sono le vene di un lago che chiude gli occhi e conta fino a mille, sono le mie vene che trascinano fino in cima le contraddizioni dei rapporti interpersonali e dei flussi turistici. Litigare in questo scrigno di bellezza alpina è forse la cosa più sincera che potevo pretendere da questa estate.

Nulla che una frittata non possa curare, però. Alla sera ci inerpichiamo in un’altra valle chiusa, per respirare e dimenticare. Il traffico sostenuto della statale lungo la Valle Aurina, che termina con la vetta geograficamente più a nord d’Italia, stupisce: dove se ne vanno tutti in questa vallata che non ha sbocco? In una delle infiniti diramazioni, ci defiliamo quattrocento metri più in alto, finendo a dormire sotto lo stesso tetto di una famiglia che fabbrica il burro in proprio. Piove ancora, ovviamente, e scendere in paese per la cena ci sembra un’impresa sfibrante. Chiediamo un piatto caldo e una ragazza dalla erre plastica ci prepara un’onesta frittata. La chiama «omelette del contadino» per ambire alle cinque stelle su Booking.com (riuscendoci, peraltro), ma non è nient’altro che un paio di uova sbattute in padella. La divoro accanto alla stube, fissando le foto di matrimonio dei suoi genitori, in bianco e nero, e quei sorrisi da Shining di tutti i loro amici riuniti in un prato il giorno di festa. Un computer fisso dalla lamiera ingiallita, un lettore dvd, un videoregistratore vhs, forse è la stanza dei giochi di quella scontata locanda. Eppure c’è talmente tanta gentilezza e riverenza ostentata, in questo rapporto tra avventore e gestore, che si finisce per stare al gioco volentieri, e anzi, è tutto così casalingo che ci arrendiamo alla banalità degli aggettivi. Sì, ci sentiamo davvero ospiti di una famiglia sudtirolese, sì, fingono davvero gentilezza, sì, questa notte voglio addormentarmi e non credere nient’altro che alle uove sbattute in padella, alla tovaglia di lino bianca e spessa e ruvida, alle erre arrotate sulle piste da sci nei tornei giovanili e a quei ventidue anni passati quattrocento metri più in alto della strada statale ad accogliere turisti italiani. Quando mi sveglio la mattina seguente per un attimo non piove, e riesco — finalmente — a guardare in faccia le montagne. Dietro di loro c’è l’Austria, sono montagne di confine, e hanno la forma del latte cremoso, del burro che se fatto in casa non ha sapore, dei bicchieri riempiti di zucchero sopra il tavolo della colazione, che poi sarebbe quello della cena e lo sarà del pranzo successivo. Non c’è nemmeno il portazucchero in questo lembo di montagna verticale, e i crinali rocciosi della Valle Aurina sono opachi anche al mattino, sebbene illuminati dal sole. La erre plasticosa della ragazza sembra realmente afflitta per la nostra immediata partenza, mi immagino la sua voglia di relazionarsi con esseri umani, per chi invece rimane recluso a quattrocento metri di distanza dalla civiltà. Poi mi ricordo che ci sono sempre in gioco le cinque stelle di Booking, che anche quel dispiacere potrebbe essere frutto di anni di recitazione, e quindi risaliamo in macchina. I giorni in viaggio passano, i chilometri percorsi aumentano di pari passo alla nostra capacità di resistere alle finzioni. Seguire il confine come una cucitura ci porta a confonderci e a confondere le due parti che combaciano, a baciare le differenze e credere che in fondo la necessità di dialogare di quella locandiera reclusa dall’altitudine si intersechi con il nostro bisogno di darsi la buonanotte soltanto chiudendo gli occhi, riducendo al minimo ogni dialogo, se non per ridere di beceri luoghi comuni. Frantumare le distanze, senza chiedersi il perché.

Brunico, Vipiteno, il Passo Giovo. Un rifugio dove non hanno voglia di servirci, nemmeno al bancone, e i davanzali delle finestre sono pieni di peluche e animali di pezza colorati, rosa, bianchi, azzurri. Perché. Discesa fino a Merano, ascoltiamo la radio, non abbiamo più cd per sigillare questa vacanza, e un po’ quasi ce ne vergogniamo di questa assenza, come confezionare un pacco regalo senza fiocco, come lasciare uno scatolone aperto, senza chiuderlo col nastro adesivo. Ecco, forse i cd e la musica sono i nastri adesivi delle nostre vacanze, e ora ne siamo sprovvisti, non vogliamo ascoltare nulla che ci ricordi altri viaggi, mentre risaliamo la Val Venosta, perché finiremmo per esserne contaminati, perché le cose fatte in casa sono meno saporite, quasi non sanno da niente, ecco, i viaggi senza musica non sanno di niente ma sono fatti con le nostre mani. Le persone che scorrono davanti al parabrezza non aiutano a innescare suggestioni: gli abitanti dell’Alto Adige sembrano non esistere, trincerati dietro banconi d’albergo o scaffali di mele. Le strade sono popolate da clienti d’hotel, turisti che sterilizzano ogni possibile indagine sociale alla Paolo Rumiz. Questo posto non è di nessuno. Il campanile di Curon che spunta nel Lago di Resia racconta dove possano finire, le indagini antropologiche alla Rumiz in Alto Adige: sott’acqua, sommersi dalla marea di una diga che andava costruita, di un paese deliberatamente consegnato allo sviluppo economico che non ha lasciato tracce visibili e ora ci osserva di nascosto mentre noi lo fotografiamo da sopra il pelo dell’acqua. E le proteste, e le resistenze, e le storie e gli strepiti di chi non voleva essere sommerso trovano spazio soltanto nelle tabelle informative accanto alla riva, e rimane a prendersi i nostri flash soltanto la punta del campanile. C’è qualcosa di sinistro in questo campanile sommerso che spunta solitario a pochi km di distanza dal confine, c’è una conclusione di fondo che mi consegna tra le mani la malinconia di una sconfitta tramutata in attrazione turistica. Forse non c’era altro modo per sopravvivere. Svariati chilometri prima, all’altezza della chiusa sull’Adige, a Tel, avevamo incrociato un’altra tabella informativa di altrettanto disarmante tristezza. Accanto all’arcobaleno generato dallo schiumare dell’Adige contro la roccia della diga, è trascritta in modo conciso la storia dell’inventore (secondo i tirolesi) della macchina da scrivere, tale Peter Mitterhofer, abitante di Parciles nell’Ottocento. Leggo ad alta voce: «Peter Mitterhofer, tra il 1864 e il 1869, costruì cinque modelli di macchine da scrivere, e ne portò due a piedi fino a Vienna all’imperatore Francesco Giuseppe I. Purtroppo i consiglieri dell’imperatore non riconobbero l’effettivo valore della sua straordinaria invenzione. Deluso, si ritirò nel suo paese natale Parcines, dove morì in solitudine». Forse non c’era altro modo per sopravvivere.

L’overdose di transiti doganali ci porta di nuovo in Austria e poi in Svizzera nel raggio di poche miglia. L’alta Engadina firma una tregua con la sistematica presenza alberghiera tipica del Sud Tirolo, lasciandoci respirare per strade deserte in mezzo ai boschi. Questi sono i confini che finiamo per apprezzare di più: smarriti, solitari come inventori delusi di macchine da scrivere, taciturni e schivi, non lasciano nessun segnale di riconoscimento, si potrebbe essere ancora in Austria o di nuovo in Svizzera e non ce ne accorgeremmo se non per la differente tipografia dei cartelli stradali. Sono vuoti, questi confini tra le Alpi, rispettivamente eremi estremi di corpi nazionali distratti da altre faccende, e l’asfalto rappresenta i capillari dell’apparato statale. Noi ci introduciamo in corpi estranei come batteri innocui, estranei che non fanno rumore, guardiamo le montagne attorno immaginandole come orfanelle private dei genitori che ora non sanno a chi appartenere, annusiamo l’aria più fresca del tramonto imminente senza capire se profumi di smarrimento o solitudine o forse anche di una tenera paura di chi è rimasto indietro, ai margini. Che vita può esistere in questi pezzi di Stato che non interessano a nessuno, di cui nessun consigliere dell’imperatore ne intravede l’efficacia? Una risposta è Livigno, che raggiungiamo attraversando un costoso tunnel di manifattura elvetica. Livigno che si adagia in una conca isolata d’inverno, perlomeno fino a qualche decennio fa, che proprio per riscattarla dall’isolamento è stata trasformata in zona extradoganale, tornando a fare gola agli imperatori. La benzina a 1 euro, tabacchi e alcol scontati, file di negozi di grandi marchi che vedono in trincea milanesi in trasferta. Tutto assume contorni stravolti, le scatole di Lego dietro le vetrine illuminate anche di notte (anche in montagna) sono spettrali e per nulla rassicuranti. La risposta a che vita può esistere in una valle isolata sono le code degli autoferrotranvieri ai distributori, è la Finanza che al Passo Foscagno ti chiede quanti anni ha la tua reflex, e tu nemmeno lo sai, è il campanile sommerso di una dignità alpina consegnata alle stecche di sigarette nascoste nel bagagliaio.

Nulla è come sembra, nei luoghi remoti, Livigno diventa una piccola Milano, un campanile sommerso nasconde le contraddizioni di una terra che rinnega se stessa, il silenzio dei boschi è rimasto puro soltanto perché costava troppa fatica soffocarlo. Fa freddo, ora, e la mattina dopo ci svegliamo in mezzo a una nuvola, e in bagno finisco per cedere alla musica. Sorrido di fronte allo specchio, tra pochi giorni tornerò a casa e metterò tutto quanto a posto. Dentro a una nuvola possiamo raccontarci tutto quello che vogliamo. Nel tavolo a fianco una famiglia lombarda sta terminando la colazione, il figlio più piccolo è irrequieto e fa domande a una madre che vorrebbe invece soltanto entrare nella sauna. Il brusio di una famiglia in vacanza, dei miei sogni di tradimenti altrui che mi trascino anche di fronte a una tazza di latte caldo e un buffet imbandito, viene spazzato dalla limpida sentenza del padre di quella famiglia, che decora l’affresco del nostro viaggio con un’eloquenza circolare: «Io, mi vado a fumare una sigaretta». Io, virgola, e tutto il resto. E in quella virgola, e in quella sigaretta, e in quel tono autosufficiente annega ogni bilancio familiare e soprattutto il piccolo Rumiz che è dentro di me, e non ci sarebbe nemmeno bisogno di proseguire. Un albergo al Passo Foscagno (2200 metri sul livello del mare) sembra il posto ideale per nascondersi.

Gli alberi della Val Müstair sembrano morti. In un borgo poco prima della frontiera nei pressi di Tubre, accanto a un cimitero hanno messo in piedi una chiesa improvvisata, realizzata con teloni a strisce bianco e nere, che la fanno assomigliare più a uno stand da Festa dell’Unità che alla casa del Signore. Al suo interno una ridotta gradinata, fogli con gli schizzi del progetto sul pavimento di legno, viti, trucioli di legno. A Prato dello Stelvio una sirena d’allarme spezza la quiete, ma nessuno reagisce. Inizia la Statale per lo Stelvio, la salita dei 48 tornanti. Diluvia, i ciclisti diventeranno eroi per un giorno. Alcuni di loro li ritroveremo davanti al camino nel rifugio del Passo, ad asciugare i vestiti inzuppati. Cerco di fotografarli fermandomi a bordo strada reggendo con una mano l’ombrello e con l’altra la reflex. Nemmeno si accorgono della mia presenza, mentre salgono ingoiando la pioggia. Entriamo anche noi a riscaldarci in un rifugio, ordino una luganega, sbagliando ovviamente l’accento e venendo corretto da un cameriere che non aspettava altro di correggere turisti. Condivido il sarcasmo ma non riesco a empatizzare. Poi di nuovo ancora scortesia in un altro bar, sempre in quota. Me ne faccio una ragione. Smette di piovere, mi dimentico delle mie considerazioni borghesi quando finalmente riesco a intravedere l’Ortles e la sinuosità quasi erotica della Statale 38 sottostante. Le montagne attorno a noi dopo il temporale sembrano dipinte, e non vorrei fare altro che guardarle, osservarle per il resto della mia vita, dimenticando i camerieri, la grammatica locale, la mia borghesia. Scendiamo verso Bormio, attraversando gallerie fradicie, il verde dei prati abbagliato dal sole (ecco come mi sentivo a vedere l’Ortles, poco fa, abbagliato dal sole). Ormai è sera, per l’ultima notte scegliamo Aprica, da Tirano transitiamo lungo la bassa Valtellina per Stazzona, scorgendo a bordo strada un laconico anziano che vende funghi, esposti altrettanto laconicamente su una cassetta della frutta di legno. Poco più avanti, affisso a un albero un cartello segnala la vendita di “banane di montagna”. E’ l’ultima notte che passeremo vicino al confine.

Decidiamo di concludere il nostro viaggio a Cesuna, salendo al Rifugio Kubelek, sull’altopiano di Asiago. Lontani dalle dogane perché in fondo è questo il vero e unico motivo che ci ha spinti a partire: bisogna onorare la memoria di una persona che aveva passato la vita intera, a tentare di andare oltre i confini, della conoscenza, della vista, dei limiti della propria condizione. In montagna il cielo è più vicino ai nostri occhi e più rarefatto, e si vedono più stelle. Durante questo viaggio non sono però mai riuscito a vederle, perché finivamo sempre dentro alle nuvole, e mai sopra, e mai sotto, ma si è deciso di andare in un posto che ci aveva suggerito Angelo Fiacchi, un anziano della mia terra che aveva costruito un osservatorio astronomico con le proprie mani. Anzul, come lo chiamavano tutti, in dialetto, era morto qualche giorno prima, e a tutti aveva insegnato a come annullare i confini, facendo entrare ogni sera nel cortile di casa sua estranei e curiosi, accogliendo sempre lo Straniero (il Foresto, come si dice dalle mie parti) con un sorriso. Più della sua storia di costruttore di osservatori con a disposizione soltanto una quinta elementare, senza aver mai studiato, ma imparando tutto guardando e toccando direttamente con i propri occhi, le proprie mani, più di tutto questo l’aspetto straordinario della storia di Anzul era l’assenza di possessività e gelosia per i propri spazi. Non c’era la dogana della diffidenza, dell’egoismo, del “prima io”, quando attraversavi il cancello — sempre aperto — della sua abitazione scalcinata in piena campagna ferrarese, isolata come un bosco tra Svizzera, Austria e Italia sulle Alpi. Anzul peraltro raccontava sempre della sua esperienza da militare che lo portò ai lati estremi d’Italia, a Palermo prima e a Bolzano poi. Anzul raccontava un sacco di cose, soprattutto, e lo faceva senza chiederti chi fossi, se avessi qualcosa da dichiarare, senza guardare la tua carta d’identità. E parlava agli stranieri in ferrarese, e in italiano ai ferraresi, parlava la sua lingua e tutti in qualche modo capivano. Questo, era il miracolo di Anzul, l’uomo che vide le stelle con le sue mani e che aveva cancellato il concetto di confine dal suo vocabolario fatto soltanto di poche parole: voglio, vedere, le, cose.

L’ultima volta che andai a trovarlo, qualche settimana prima, in giugno, mi disse che il posto dove aveva mangiato di più, in tutta la sua vita, era appunto il Rifugio Kubelek. Il giorno del suo funerale ero impegnato al lavoro, e ricordandomi ancora delle silenziose lacrime che mi erano scappate dopo che gli avevo stretto la mano per l’ultima volta, nel corridoio della casa di cura dove stava terminando la sua esistenza, ho deciso di celebrarlo così, fuggendo dai confini per salire sull’Altopiano di Asiago e farmi una sonora mangiata. Il piccolo Rumiz dentro di me si è bevuto un bicchiere di vino e ha smesso di scrivere, finendo per compatire la mia ansia doganale, il bisogno di stare ai margini per vederci chiaro. Tra una grigliata e l’altra, mi sono rivisto riflesso nel vetro della dogana italo-austriaca del Passo Resia, che credevo abbandonata e invece al suo interno si celava ancora un funzionario statale, dallo sguardo perplesso. Tra un piatto di pasta e l’altro, mi è tornato in mente quel tizio del progetto fotografico sulle dogane chiuse, l’aveva pure linkato il Post, mi è tornato in mente il portfolio sulle frontiere europee sul numero monografico dedicato ai viaggi di Internazionale. E mentre il rifugio si svuotava, e la mia pancia si riempiva, in questo funerale celebrato a tavola con le dita unte e il tovagliolo macchiato di sugo, raffioravano in me tutti quelli che i confini li avevano già celebrati, e tutti quelli che risposte ne avevano già date, e anche più circoscritte delle mie, e anche più elaborate delle mie. Di qua e di là da ogni linea di confine non ci sono identità ma soltanto elaborazioni del vissuto. Ci sono cose che non vogliamo vedere, o che abbiamo visto abbastanza. E noi nel mezzo, che crediamo di fotografare una dogana dismessa e invece dietro al vetro polveroso e graffiato resiste un funzionario dello Stato perplesso, silente, che smaschera tutta la nostra inadeguatezza. Di qua e di là da ogni confine non ci si ferma a chiedersi se un viaggio è stato già fatto, se le stelle sono già state viste, ma invece c’è chi ancora decide di dare la propria risposta, di vedersi le proprie stelle, da solo. Senza provare imbarazzo se qualcuno ci scopre, ci squadra, ci guarda da dietro una finestra che potrebbe essere di vetro come di supponenza. La dogana dell’imbarazzo e della decenza la attraversiamo senza porgere documenti, ad ogni vacanza, ad ogni mattina d’estate. Attraverso lo specchio, alberi morti, chiese di plastica a strisce, padri di famiglia fumatori, burro fatto in casa, miniere di ferro o cognomi stranieri sui campanelli, ogni estate capita che decidiamo di scattare comunque, le nostre foto, di scrivere comunque, le nostre parziali sentenze, di rispecchiarci comunque, tra un Paese e l’altro, tra un sedile dell’auto e l’altro, e di non riconoscerci affatto, e di non preoccuparcene affatto. Voler sentire il passare del tempo, è la mia risposta.

It’s been a while since I’ve been to see you
I don’t know where, but you’re not with me
Heard a voice, like an echo
But it came from you

Supersymmetry

Originally published at Ciccsoft on September 12, 2014.

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