Venti(quattro) minuti

Attimo
ok with my decay
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2 min readDec 24, 2023

Alla fine, l’unica vera canzone di Natale rimane sempre lei. Non so esattamente il motivo, ma mi prende sempre, il ventiquattro dicembre, quella sensazione che poi domani non arrivi un nuovo giorno, che tutto sta finendo, compiendo, svanendo. Quell’insopprimibile desiderio di prendere in mano il telefono, e scrivere, salire in auto per andare a trovare, anche solo sul pianerettolo, anche solo per un minuto. Come quei venti minuti (non uno di più) della telefonata che riceveva sempre Metuccio, restando in silenzio davanti alla devozione verso le vite che continuano comunque a scivolare lungo un piano inclinato, a volte inclinatissimo. Venti minuti in cui farci stare dentro tutto: decidere di venire all’ultimo alla cena mensile con gli amici, anche se non avevi tempo, la cartolina che arriva dalla Bolivia quattro mesi dopo, pensarti alle cinque e mezza della mattina della vigilia al mercato del pesce di Igea, i vocali dove cerchi di razionalizzare le mie decisioni, la foto delle chiavi della tua nuova casa (senza aggiungere una parola), il gioco delle tre carte sventato e le piazze di Firenze in cui da solo non ci sarei mai finito nemmeno per sbaglio, i pranzi sociali che progettiamo senza riuscirci mai, i sopralluoghi sull’argine dell’Adige sotto i cavalcavia, essere (giustamente) ripreso per aver usato maldestramente una certa parola, girare in tondo nel parcheggio del Decathlon con un Insta360 agganganciata a un bastone telescopico di tre metri che esce dal finestrino, stare lontani dal centro di Ferrara, i consigli finanziari scritti su un fogliettino di carta, l’unico (e forse ultimo) concerto nel cortile del Castello di tutta l’estate, convincerti a iscriverti al FantaNba, i parcheggi in via Selmi deserta, quando mi chiedi consiglio per un’illustrazione, l’acqua del Fella che non si ferma mai, le uscite in bici sui colli degradate a cene in trattorie sconosciute a Castelmaggiore, le birre al Kinotto di giovedì, essere preso sottobraccio da te che non ci vedi e mi dici che ormai conosco Trieste troppo bene, il tuo labbro inferiore che si arriccia quando leggi le mie parole.

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