Il gioco della vita

Massimiliano Gallo
Old man yells at cloud
8 min readMar 29, 2021
Capirete tra poco il perché.

Da qualche mese a questa parte seguo assiduamente le dirette di IGN Italia su Twitch. Vuoi perché c’è Davide Mancini come host della programmazione e agli amici si dà sempre supporto, vuoi perché ha saputo creare una programmazione che mi attira sempre, piantandomi davanti al PC come poche cose sono riuscite a fare negli ultimi, non so, cinque anni?
Il lunedì sera, un tempo dedicata alle fraggate sul divano con gli amici, è ormai diventato di dominio di NightLine, un format in cui Davide e qualche ospite parlano di, uh, videogiochi in maniera non convenzionale.

Ormai a giugno dell’anno scorso, il buon Shea tira fuori l’idea: una chiacchiera divisa in più parti per salvare cinquanta giochi da portare su una colonia marziana. La storia in breve: a causa dell’Apocalisse che sta sconvolgendo il mondo possiamo selezionare alcuni giochi che il Bambino Della Colonia (nome ufficiale del ragazzino che ha le fattezze di Russel, in bimbo di “UP”) potrà giocare al meglio della loro forma. Le categorie in cui si dividono i giochi sono sia quelle classiche che conosciamo tutti (FPS/RTS/MMORPG/Platform eccetera) che altre meno convenzionali, come quella che dà il titolo a questo articolo.
A Fabio è capitata la categoria “Gioco della Vita” e da bravo filosofo del medium ha complicato un po’ le cose. Vi lascio il suo articolo dove spiega il perché e il percome ha scelto Silent Hill 2.

Dopo aver scritto questo pezzo, Fabio si è lanciato su facebook e ha chiesto a me e agli altri ragazzi dello Shelter il nostro gioco della vita.
E qui mi sono bloccato.
Perché ci sono almeno tre titoli che mi vengono in mente quando ripenso al mio passato, e tutti hanno una potenza e un’importanza nella storia dei videogiochi da non sottovalutare.
Per capire, però, perché la mia scelta ricade su un titolo in particolare devo raccontare un po’ di storia personale.
D’altronde non si può scegliere il gioco della vita a cuor leggero e un po’ di esperienza va per forza inserita nel racconto.

Indovinate in che anno siamo?

Torniamo all’estate del 1997, avevo tredici anni e la vita sembrava andare a gonfie vele. In quei mesi, come tutti gli anni, andavo a Gatteo a Mare, ridente (?) frazione di Cesenatico, ospite da mia nonna Sara e zio Fabrizio. Come ogni tredicenne che si rispetti le mie giornate erano scandite dai cartoni in TV, l’andare o meno in spiaggia e qualche capatina in sala giochi (sigh), più le fughe per chilometri sulla bicicletta a fare avanti e indietro sul lungomare. Finché qualcosa, una notte, non andò storto e mi ritrovai all’ospedale di Cesena senza capire bene che fosse successo. Mi spiegarono, poi, che ebbi un attacco epilettico condito da convulsioni e perdita di conoscenza. Questo non mi colpì particolarmente, ma il fatto che rimasi in quell’ospedale (e poi in quello pediatrico di Torino dopo il trasferimento) più di un mese mi cambiò la percezione di tante cose. Vorrei dire che fu un’estate da dimenticare, ma l’ultimo elettro encefalogramma me lo ricorderò per sempre. Fu proprio quello a diagnosticarmi la fotosensibilità che ancora oggi mi segue e che mi impedì di dedicarmi alla mia passione per parecchio tempo.

Quindi la mia voglia di videogiochi si interruppe in quegli anni, quelli di Metal Gear e Mario 64, di Zelda Ocarina of Time e Final Fanstasy VII. Immaginate cosa può voler dire saltare a piè pari due generazioni di console in quel periodo. Certo, ogni tanto andavo da qualche amico e vedevo lo SNES prima e la Playstation poi, ma non potevo giocare come volevo io, non era la stessa cosa. Oggi ogni titolo, dopo i loghi di presentazione, porta in dote l’avviso sugli effetti della fotosensibilità, sui possibili attacchi epilettici che possono scatenare alcune combinazioni di luci, ma all’epoca eravamo ancora tutti perplessi dal fatto che i Pokémon causassero quei danni. E neanche il videogioco: il cartone.
Il già vecchio GameBoy sopperiva un po’ la mia voglia di giocare, ma anche lui aveva quasi dieci anni e, sebbene ancora pieno di giochi da provare, staccare gli occhi da Super Mario Land 2 e vedere Crash Bandicoot era devastante.
Sì, il Color prima e l’Advance poi (tutti non retroilluminati che non si sa mai) tamponavano un poco, ma di friggermi gli occhi davanti al tubo catodico non se ne poteva neanche parlare. Volevo vivere quelle storie, saltare con il peramele, nascondermi nelle scatole con Snake e correre sulla Rainbow Road in Mario Kart 64.

Tutto questo, però, mi era precluso.

Così passai sei anni, quelli in cui sono usciti così tanti capolavori che non riesco neanche ad elencarli tutti. Gli amici giocavano ad Half Life e io facevo il countdown per il prossimo esame del sangue, sperando che mi riducessero le medicine e mi dessero il benestare per provare qualche gioco.
Quella notizia arrivò solo nel 2000, con l’avvicinarsi della Playstation 2, anno in cui, grazie ai risparmi, potei finalmente comprare la PSOne, ultima versione della console Sony. Ma ormai era superata anche lei e nonostante l’aiuto per studiare inglese (i bei tempi della mancata localizzazione di TUTTO), non la usai mai tantissimo. Se solo avessi saputo che non era lei la mia console d’elezione probabilmente ne avrei fatto a meno.

Come sempre, la Grande N venne in soccorso.
Sul finire del 2002, con il benestare di medici e parenti e finalmente libero dal gioco dei farmaci, trovai sotto l’albero un nuovo e sfavillante Gamecube, in tutto il suo viola splendore. In combo con Super Mario Sunshine. Fu un mese strepitoso, fatto di salti, bestemmie e acqua. Vagonate di acqua. Il primo passo verso il mio ritorno nei dolci lidi videoludici era compiuto e da allora non ne sono più uscito. Ed ecco la mia prima scelta: se potessi eleggere una “Console della vita”, sarebbe sicuramente il mio Cubetto viola, ancora saldamente collegato alla TV per quasi vent’anni consecutivi.
Per quanto mi divertii con Mario, c’era un titolo all’orizzonte che mi chiamava, anche se non avevo mai provato i suoi più blasonati predecessori.
Tra una anteprima della Rivista Ufficiale Nintendo (per gli amici NRU) e qualche rivista inglese con tanto di DVD, la signorina Samus Aran cominciò a farsi strada nel mio cuore. Vuoi perché Metroid Prime sembrava fenomenale, vuoi perché ero fresco di rottura con la ragazza dell’epoca. Metroid Prime mi fece infatuare di Samus, dei Pirati Spaziali, di Tallon IV e della Varia Suit. Ma soprattutto degli occhi si Samus riflessi sul casco dopo una luce particolarmente abbagliante.

Dopo quell’uno-due di meraviglia, la mia fiamma per i videogiochi era decisamente rinata, ma non era ancora forte come un tempo. Sebbene non avessi mai smesso di comprare riviste e informarmi come meglio potessi, mancava ancora quel qualcosa che mi facesse esplodere il cuore come ai bei tempi. Il qualcosa sarebbe arrivato a maggio di quello stesso anno, l’ormai lontanissimo 2003. Ed è proprio The Legend of Zelda: The Wind Waker che prende il mio scettro di gioco della vita. Chi mi conosce sa quanto io sia affezionato alla saga di Link, Zelda, Ganon e tutta la combriccola di Hyrule e non si stupirà troppo di vedere proprio questo gioco in cima alla mia classifica personale. Per la sua grandiosità, i suoi colori, quell’oceano infinito liberamente esplorabile, lo stile talmente particolare che viene sfruttato ancora oggi, tutto in Wind Waker rimane impresso nella memoria.

Và che bello, và.

C’è chi lo critica per il suo tono troppo cartoonesco, ma la ricerca di uno stile unico è da sempre nel DNA della serie, picco poi raggiunto da Breath of the Wild più di tre lustri dopo. Wind Waker ebbe su di me un impatto pazzesco, riuscendo a farmi vedere quel mondo incredibilmente vasto tutto in un colpo, senza caricamenti, senza interruzioni. Certo, navigare da una parte all’altra era ed è una questione lunga, ma anche durante il viaggio ci si poteva imbattere con mostri da sconfiggere, tesori da ripescare, personaggi con cui parlare e mercanti galleggianti. Era raro rimanere a secco di attività da ignorare e questo rendeva il tutto non solo più sopportabile, ma anche gradevole e quasi rilassante. È il corrispettivo di cavalcare per ore sui prati e le pianure di BotW, solo in salsa nautica. Quella sensazione di mare e vento in faccia risulta così forte da poterli quasi sentire. Re Dakar spicca con il suo rosso sul manto blu dell’oceano, con il contrappunto del verde della tunica di Link a ricordarci la nostra avventura e la voglia di esplorazione.

Proprio Toon Link, come viene chiamato in Smash Bros. e da tutti da lì in poi, è l’incarnazione che più ci fa immergere in quel mondo, con le sue espressioni sempre sul pezzo, comiche, ma così pregne di emozioni e significati che fanno scordare in fretta la grafica minimalista e al contempo che la ricordano. Perché è proprio grazie ad essa che è stato possibile creare quella marea di faccette con pochi frame di animazione. Non solo Link ne beneficia, ovviamente, ma essendo il suo il volto che più di tutti ci troviamo davanti, è anche quello su cui si concentrano le migliori smorfie del piccolo eroe.

Wind Waker ha quel tema finto irlandese che mi si conficca nel cervello almeno una volta alla settimana, perfetto esempio della straordinaria colonna sonora che accompagna il gioco. Durante le scorribande in mare, le note riempiono l’aria e riescono quasi a far sentire il vento in faccia, l’odore dell’acqua salmastra e le corde da tendere per far gonfiare le vele. Tutto riporta lì, a quella libertà estremamente limitata, ma contemporaneamente immensa e palpabile. Affrontare tornado, pirati, kraken e corse per acquisire più rupie possibili, senza l’aiuto della musica sarebbero tutte imprese noiosissime. Senza parlare del fatto che cambiasse a seconda degli avvenimenti a schermo, come si nota soprattutto durante i combattimenti. Ogni colpo è sottolineato con un picco di tutti gli strumenti, facendo correre il brivido del successo lungo la schiena. Per essere ancora più diretto: è la mia colonna sonora mentre scrivo questo pezzo. Due ore e mezza di musica che mi fanno venire voglia di tirare fuori la Wii U e godermi quello spettacolo visivo e sonoro in alta definizione. Perché ormai è scontato che io abbia l’edizione da collezione di Wii U con le decorazioni di Zelda, giusto?

Da lì in poi, la strada fu in discesa. Dopo Wind Waker, mi distrussi su F-Zero, poi Animal Crossing, Smash Bros Melee e chi più ne ha più ne metta. La passione non si è ancora spenta, il fuoco sacro dell’esplorazione è più forte che mai e la serie di Zelda, anche e soprattutto nella sua ultima incarnazione, è saldamente ancorata nel mio cuore. Sono passati quasi due decenni da allora, le console sotto la TV si sono moltiplicate, le confezioni dei dischi riempiono gli scaffali della mia libreria. Seguo giornalmente i siti specializzati e ne parlo ogni giorni con la combriccola di amici conosciuti su quel forum, tanti anni fa. Tutto grazie al piccolo Link, a Tetra e la sua ciurma di pirati e al potere della Triforza.

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