The Office: nove stagioni in dieci giorni
Metto subito le mani avanti. Se mi aveste chiesto cosa ne pensassi di The Office US qualche settimana fa, vi avrei risposto che avevo provato a guardarlo, ma non mi aveva acchiappato, che forse era un poco sopravalutata e troppo cringe per i miei gusti. Ma come si fa a giudicare per bene una serie da pochi episodi? E soprattutto, se nella mia bolla social tutti ne vanno matti, ci sarà un motivo, no?
Così, complice il fatto che l’ennesimo rewatch di Friends o How I Met your Mother erano fuori discussione, ho cominciato a guardarlo, bisognoso di una comedy da venti minuti dopo la fine di The Good Place il cui creatore, Michael Schur, è anche uno dei produttori di The Office. La prima stagione non fa che confermare il mio giudizio, ma decido di tenere duro e provare ad andare avanti, la volontà è quella di arrivare almeno in fondo alla seconda.
E meno male che decido di farlo, perché la seconda stagione è quella dove The Office abbandona il paragone con l’originale inglese e comincia ad allargare le ali per volare. Quasi all’improvviso, Michael, Jim, Dwight, Pam e tutti gli altri diventano una parte integrante della giornata, ma non lo sfondo rumoroso per tenermi compagnia. Complice il fatto di essere costretto a casa per cause di forza maggiore, la giornata è scandita dalla serie, l’affetto per i personaggi cresce di puntata in puntata e sono sempre più incollato allo schermo per vederli evolvere e crescere.
Certo, non averli seguiti per nove anni durante la messa in onda potrebbe rendere l’affetto temporaneo. Magari tra poche settimane mi sarò scordato della Dunder Mifflin e della gente che ci lavora dentro, che sia la sezione di Scranton o quella di New York. Forse, ma ne dubito. Perché The Office riesce a costruire un mondo credibile, coerente e reale tanto che ho cominciato a pensare che un’azienda così potrebbe davvero funzionare. Michael è un capo casinista e inopportuno, ma nel momento in cui deve dimostrare le sue abilità è capace, presente e più volte si prende colpe non sue per proteggere coloro cui è affezionato…anche quando non gli conviene. È un venditore incredibile e anche quando sembra mandare tutto in vacca, riesce a portare a casa l’affare grazie al suo essere fuori dagli schemi.
Non sto a descrivere cosa mi ha colpito personaggio per personaggio. D’altronde è una serie durata nove stagioni che è finita otto anni fa, sono sicuro che chi di voi sa di cosa sto parlando conosce pregi e difetti di ogni impiegato della sezione di Scranton della Dunder Mifflin.
Ma le emozioni, quelle sì mi hanno colpito in faccia.
Posto che stiamo parlando di una comedy, è fortunatamente una di quelle senza il pubblico e quindi niente risate registrate. Già solo per questo ha battuto How I Met Your Mother nella mia classifica personale. Le relazioni che si instaurano tra i protagonisti e co-protagonisti sono pazzesche, sia quelle più assurde che quelle romantiche o scontate. Scontate, ma non banali, occhio.
Jim e Dwight, per esempio, hanno questo rapporto di nemici sin dalla prima puntata, con il primo che si diverte a sfruttare la sicumera del secondo per metter in atto degli scherzi ilari su base quotidiana. Ma sono anche dei venditori eccelsi, i migliori dell’ufficio, e hanno mosso i primi passi insieme. Per questo, sebbene espressa in maniera antagonistica, la loro amicizia è profonda e sono sempre pronti a guardarsi le spalle l’un l’altro sul piano personale, nonostante facciano di tutto per mettersi i bastoni tra le ruote su quello professionale. C’è affetto, ma raramente è esplicito e ci fa porre costantemente il dubbio sulle prossime azioni dei due.
Parte del realismo di cui sopra, ovviamente, è dato dal taglio registico della serie che riprende quella di un documentario con tanto di micro interviste da montare nel girato. Quindi che camera a mano sia per tutta la serie, tranne nei momenti confessionale, lì c’è il più classico dei treppiedi a reggere la camera. Abbiamo camere onnipresenti, anche quando è del tutto sbagliato che ci siano, campi e controcampi impossibili e microfoni che 007 si scorda tanto ricevono bene, ma è “venduto” tutto così bene che non ce ne si accorge finché non si cerca esattamente quell’errore. Le sottigliezze che permette questo genere di ripresa sono incredibili e riescono ad sottolineare le battute e i momenti comici meglio delle ormai vetuste risate. Laddove quelle fermano a tutti gli effetti lo show, uno zoom o uno “schiaffo” mantengono l’attenzione, permettendo comunque ai personaggi di reagire a quello che accade.
Come in tutte le serie di questo tipo, la serie ha il suo picco e poi cala pian piano, ma non raggiunge mai la noia di alcuni suoi colleghi illustri che non sapevano dire basta (ciao, Big Bang Theory) o che dovevano ballare sul filo dei rinnovi di contratto (e ciao anche a te, How I Met You Mother). Finisce in calando, vero, ma non è un crollo della qualità così evidente e riesce a tenere incollati ancor di più con poche linee narrative davvero azzeccate. L’abbandono di Steve Carrell alla fine della settima stagione è forse l’ultimo grande momento della serie fino al finale. I cambi di vertice alla Dunder Mifflin riescono a intrattenere e James Spader è evidentemente divertito nel ruolo dell’eccentrico Robert California, ma non è Michael Scott. Prova ad avere quel qualcosa di diverso, ma finisce con l’essere solo un rimpiazzo un po’ più di successo e presto la faccenda diventa sterile.
Ciononostante, la goduria di arrivare alla fine è impagabile e The Office, con i suoi protagonisti, è entrato ufficialmente nella mia lista delle serie da rewatch, quelle che quando non hai voglia di niente ne metti su una puntata e finisci per guardartene due stagioni. Dategli una chance e resistete per le prime sei puntate: ne varrà la pena.