The Office: nove stagioni in dieci giorni

Massimiliano Gallo
Old man yells at cloud
5 min readMar 24, 2021
Chi l’ha vista, ha sentito il finale della sigla.

Metto subito le mani avanti. Se mi aveste chiesto cosa ne pensassi di The Office US qualche settimana fa, vi avrei risposto che avevo provato a guardarlo, ma non mi aveva acchiappato, che forse era un poco sopravalutata e troppo cringe per i miei gusti. Ma come si fa a giudicare per bene una serie da pochi episodi? E soprattutto, se nella mia bolla social tutti ne vanno matti, ci sarà un motivo, no?

Così, complice il fatto che l’ennesimo rewatch di Friends o How I Met your Mother erano fuori discussione, ho cominciato a guardarlo, bisognoso di una comedy da venti minuti dopo la fine di The Good Place il cui creatore, Michael Schur, è anche uno dei produttori di The Office. La prima stagione non fa che confermare il mio giudizio, ma decido di tenere duro e provare ad andare avanti, la volontà è quella di arrivare almeno in fondo alla seconda.

E meno male che decido di farlo, perché la seconda stagione è quella dove The Office abbandona il paragone con l’originale inglese e comincia ad allargare le ali per volare. Quasi all’improvviso, Michael, Jim, Dwight, Pam e tutti gli altri diventano una parte integrante della giornata, ma non lo sfondo rumoroso per tenermi compagnia. Complice il fatto di essere costretto a casa per cause di forza maggiore, la giornata è scandita dalla serie, l’affetto per i personaggi cresce di puntata in puntata e sono sempre più incollato allo schermo per vederli evolvere e crescere.

Foto di gruppo dalla seconda stagione

Certo, non averli seguiti per nove anni durante la messa in onda potrebbe rendere l’affetto temporaneo. Magari tra poche settimane mi sarò scordato della Dunder Mifflin e della gente che ci lavora dentro, che sia la sezione di Scranton o quella di New York. Forse, ma ne dubito. Perché The Office riesce a costruire un mondo credibile, coerente e reale tanto che ho cominciato a pensare che un’azienda così potrebbe davvero funzionare. Michael è un capo casinista e inopportuno, ma nel momento in cui deve dimostrare le sue abilità è capace, presente e più volte si prende colpe non sue per proteggere coloro cui è affezionato…anche quando non gli conviene. È un venditore incredibile e anche quando sembra mandare tutto in vacca, riesce a portare a casa l’affare grazie al suo essere fuori dagli schemi.

Non sto a descrivere cosa mi ha colpito personaggio per personaggio. D’altronde è una serie durata nove stagioni che è finita otto anni fa, sono sicuro che chi di voi sa di cosa sto parlando conosce pregi e difetti di ogni impiegato della sezione di Scranton della Dunder Mifflin.
Ma le emozioni, quelle sì mi hanno colpito in faccia.
Posto che stiamo parlando di una comedy, è fortunatamente una di quelle senza il pubblico e quindi niente risate registrate. Già solo per questo ha battuto How I Met Your Mother nella mia classifica personale. Le relazioni che si instaurano tra i protagonisti e co-protagonisti sono pazzesche, sia quelle più assurde che quelle romantiche o scontate. Scontate, ma non banali, occhio.

Jim e Dwight, per esempio, hanno questo rapporto di nemici sin dalla prima puntata, con il primo che si diverte a sfruttare la sicumera del secondo per metter in atto degli scherzi ilari su base quotidiana. Ma sono anche dei venditori eccelsi, i migliori dell’ufficio, e hanno mosso i primi passi insieme. Per questo, sebbene espressa in maniera antagonistica, la loro amicizia è profonda e sono sempre pronti a guardarsi le spalle l’un l’altro sul piano personale, nonostante facciano di tutto per mettersi i bastoni tra le ruote su quello professionale. C’è affetto, ma raramente è esplicito e ci fa porre costantemente il dubbio sulle prossime azioni dei due.

Parte del realismo di cui sopra, ovviamente, è dato dal taglio registico della serie che riprende quella di un documentario con tanto di micro interviste da montare nel girato. Quindi che camera a mano sia per tutta la serie, tranne nei momenti confessionale, lì c’è il più classico dei treppiedi a reggere la camera. Abbiamo camere onnipresenti, anche quando è del tutto sbagliato che ci siano, campi e controcampi impossibili e microfoni che 007 si scorda tanto ricevono bene, ma è “venduto” tutto così bene che non ce ne si accorge finché non si cerca esattamente quell’errore. Le sottigliezze che permette questo genere di ripresa sono incredibili e riescono ad sottolineare le battute e i momenti comici meglio delle ormai vetuste risate. Laddove quelle fermano a tutti gli effetti lo show, uno zoom o uno “schiaffo” mantengono l’attenzione, permettendo comunque ai personaggi di reagire a quello che accade.

Come in tutte le serie di questo tipo, la serie ha il suo picco e poi cala pian piano, ma non raggiunge mai la noia di alcuni suoi colleghi illustri che non sapevano dire basta (ciao, Big Bang Theory) o che dovevano ballare sul filo dei rinnovi di contratto (e ciao anche a te, How I Met You Mother). Finisce in calando, vero, ma non è un crollo della qualità così evidente e riesce a tenere incollati ancor di più con poche linee narrative davvero azzeccate. L’abbandono di Steve Carrell alla fine della settima stagione è forse l’ultimo grande momento della serie fino al finale. I cambi di vertice alla Dunder Mifflin riescono a intrattenere e James Spader è evidentemente divertito nel ruolo dell’eccentrico Robert California, ma non è Michael Scott. Prova ad avere quel qualcosa di diverso, ma finisce con l’essere solo un rimpiazzo un po’ più di successo e presto la faccenda diventa sterile.

Ciononostante, la goduria di arrivare alla fine è impagabile e The Office, con i suoi protagonisti, è entrato ufficialmente nella mia lista delle serie da rewatch, quelle che quando non hai voglia di niente ne metti su una puntata e finisci per guardartene due stagioni. Dategli una chance e resistete per le prime sei puntate: ne varrà la pena.

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