A favore dell’open access

Douglas McCarthy
Open GLAM
Published in
7 min readJul 7, 2020

di Andrea Wallace e Douglas McCarthy

Tom Lobo Brennan/Apollo, CC BY-SA

Alla luce delle aspettative crescenti del pubblico e dell’influenza delle piattaforme commerciali su internet, essere visibili e rilevanti online è una sfida pressante per le istituzioni culturali. Come ha scritto Merete Sanderhoff, curatrice allo Statens Museum for Kunst di Copenaghen, “Oggi gli utenti di contenuti culturali non vogliono essere spettatori passivi. Vogliono essere partecipanti attivi”.

Per un numero sempre maggiore di musei fornire un accesso aperto alle collezioni online è considerato fondamentale per coinvolgere il pubblico e adempiere più estensivamente alla propria missione. Se alcuni istituti hanno iniziato a esplorare l’accesso aperto già da un decennio, questa pratica sta diventando ora popolare. A febbraio lo Smithsonian ha reso disponibili 2,8 milioni di immagini delle proprie collezioni che possono essere utilizzate senza restrizioni. Questa notizia eccezionale ha seguito recenti simili iniziative del Cleveland Museum of Art, Paris Musées, the Metropolitan Museum of Art e altri. Tutte queste istituzioni fanno parte del movimento OpenGLAM (gallerie, biblioteche, archivi e musei) che sostiene il libero accesso alle collezioni in pubblico dominio e il loro riutilizzo.

Un principio chiave per Open GLAM è che le opere che si trovano nel pubblico dominio — perché il periodo di protezione del diritto d’autore è scaduto o perché non sono mai state protette — devono rimanere nel pubblico dominio anche dopo essere state digitalizzate. Questo concetto potrebbe sembrare ovvio ma la realtà è molto meno semplice. Le leggi sul diritto d’autore sono complesse e non sono armonizzate a livello internazionale.

Nell’Unione Europea il requisito di originalità per cui un’opera nuova possa accedere alla protezione del diritto d’autore è che sia “una creazione dell’ingegno dell’autore”. Alla luce di questa norma, quindi, chi producesse una versione digitale di un’incisione di Hogarth realizzata nel 1735 potrebbe far valere il diritto d’autore sulla nuova versione digitale? La risposta dipende da alcuni fattori, ad esempio se questa opera digitale sia stata prodotta tramite fotografia o scansione o se sia stata modificata con un software. Ulteriori difficoltà sorgono se l’opera originale viene riprodotta in tre dimensioni anziché in due. Contano poi anche le leggi in vigore nel paese in cui è avvenuta la digitalizzazione o in cui risiede l’utente. Che sia valida o meno, una cosa è certa: la pretesa del diritto d’autore è pregiudizievole. Ostacola la creatività, l’innovazione e la produzione di conoscenza che potrebbero essere generate grazie alle opere in pubblico dominio conservate nelle istituzioni culturali.

Roofs of Paris, ca. 1830. Attributed to Étienne Bouhot. Musée Carnavalet, Histoire de Paris, CC0

I legislatori sono consapevoli di questo dilemma. Nel 2015, l’Intellectual Property Office del Regno Unito ha divulgato una nota (non vincolante) sul copyright proponendo che “la realizzazione di una semplice copia di un’immagine non sia soggetta a un nuovo copyright”, ma osservando comunque il permanere dell’incertezza riguardo alle copie digitali delle opere in pubblico dominio. La Camera dei Lord ha discusso la questione nel 2018 ma il dibattito ha confuso la questione giuridica della validità di questa pratica con la questione generale dell’opportunità che le istituzioni siano autorizzate a decidere in merito al diritto d’autore come questione operativa.

Nel 2019 l’Unione europea è intervenuta con l’articolo 14 della nuova Direttiva sul Mercato Unico Digitale, chiedendo agli stati membri di adeguare le proprie leggi nazionali in modo che il prodotto di una riproduzione di opera visiva già in pubblico dominio non generi nuovi diritti, a meno che non sia qualificabile come opera dell’ingegno. Anche se il testo dell’articolo 14 presenta alcune ambiguità, il suo intento legislativo è chiaro. La Commissione europea ha stabilito che gli utenti sono “del tutto liberi di condividere copie di dipinti, sculture e altre opere d’arte in pubblico dominio con piena certezza del diritto”. Il Regno Unito non è tenuto ad attuare la direttiva ma il suo governo dovrebbe considerare di farlo.

A differenza di molte omologhe internazionali, poche istituzioni inglesi hanno politiche di open access. Il British Museum, la National Gallery, il Victoria and Albert Museum e la National Portrait Gallery — quattro musei londinesi con collezioni di rilevanza nazionale — fanno valere il diritto d’autore per le riproduzioni digitali di opere in pubblico dominio e impongono restrizioni significative sul riuso di questi materiali con l’impiego di licenze Creative Commons. L’ambiguità dell’ampiamente usata clausola di “utilizzo non commerciale” limita l’uso delle immagini in molti contesti educativi, come illustrare articoli su Wikipedia o nelle pubblicazioni accademiche.

The Young Eastern Woman, 1838. Friedrich Amerling (1803–1887). The Cleveland Museum of Art, CC0

Queste politiche sono forme di sorveglianza tramite le quali le istituzioni tentano di controllare e monetizzare il riuso con tariffe di riproduzione e autorizzazioni alla pubblicazione. Gli effetti di queste pratiche di vecchia data sono penalizzanti soprattutto per artisti e storici dell’arte. Nell’ambiente accademico l’impatto negativo delle tariffe di riproduzione sulla ricerca è stato ben documentato da Kathryn Rudy,e molti importanti storici dell’arte hanno fatto un appello per la loro abolizione. Fondamentalmente potremmo chiederci: cos’hanno a che vedere queste pratiche restrittive con la più vasta missione di formare, ispirare e fornire strumenti alle attuali e future generazioni di creatori ed educatori?

Nella pratica, le politiche restrittive hanno raramente successo. In primo luogo il diritto d’autore non è efficace per prevenire gli usi impropri — gli utenti in mala fede non saranno scoraggiati dal diritto d’autore e continueranno a commettere abusi. Una ricerca condotta dalla Andrew W. Mellon Foundation ha riscontrato rari, quasi inesistenti, esempi di usi impropri di immagini provenienti dalle collezioni online. In secondo luogo, pochi musei percepiscono profitti dalle licenze di utilizzo delle immagini, come rivelato dalle recenti risposte ricevute grazie al Freedom of Information Act, dai casi studio, dai dati empirici e dalle ammissioni delle istituzioni stesse. Questi modelli di business stanno diventando sempre più insostenibili.

Le testimonianze dei musei ad accesso aperto mostrano che i mancati ricavi delle licenze delle immagini sono generalmente superati da un incremento di visibilità per il brand e da nuove opportunità di generare profitti. L’adozione dell’open access non deve necessariamente impedire ai musei di intraprendere partnership commerciali, come dimostrato da quelle tra il Rijksmuseum e Playmobil o il Cleveland Museum of Art e Microsoft. L’argomento spesso ripetuto per cui alcuni musei possono “permettersi” l’open access perché fanno pagare l’ingresso (a differenza di molti musei britannici) è sbagliato: quasi la metà dei musei e delle gallerie ad accesso aperto nel mondo hanno ingresso gratuito.

In un ambiente digitale saturo di immagini gratuite far pagare tariffe di riproduzione per immagini in pubblico dominio sembra una scommessa perdente. Merete Sanderhoff fotografa così la situazione: “Se è difficile e/o costoso ottenere immagini di opere d’arte dai musei, la gente le cercherà altrove. Molti musei perdono più soldi di quanti ne guadagnino con le tariffe di riproduzione. Una cosa che non si trova su internet non esiste”. Quando i musei forniscono liberamente immagini di alta qualità delle proprie collezioni è più probabile che queste immagini, e non copie di scarsa qualità, vengano prese a riferimento su internet.

Nel Regno Unito un piccolo ma sempre crescente numero di istituzioni sta rispondendo a questo appello. La prima a promuovere l’open access è stata la National Library of Wales che ora impiega un “wikipediano in residenza” per sviluppare collaborazioni e servizi che migliorino la rappresentazione del Galles e della lingua gallese nei progetti di Wikimedia. Lo York Museums Trust ha messo a disposizione online la maggioranza delle proprie immagini in pubblico dominio. Quest’anno i Birmingham Museums hanno promosso un concorso con l’artista Coldwar Steve e la comunità artistica locale Coldwar Steve e la comunità artistica locale Black Hole Club, invitando il pubblico a proporre usi creativi delle loro collezioni aperte.

Cold War Steve vs The PRB, 2020. Cold War Steve (Christopher Spencer), CC0. Photomontage commissioned by Birmingham Museums Trust.

Per accrescere la propria rilevanza internazionale molti musei ad accesso aperto pubblicano le loro collezioni su piattaforme digitali condivise come Europeana, Wikimedia Commons e Internet Archive. La decisione di coinvolgere utenti che non usano i siti delle istituzioni culturali stesse richiede immaginazione e un cambio di mentalità da parte della dirigenza dei musei. Le piattaforme aperte e collaborative supportano la ricerca e l’istruzione e rendono possibili nuove forme di conoscenza grazie alla visualizzazione dei dati e ai collegamenti alle altre collezioni online. Iniziative nuove come la Dichiarazione sull’open access per i beni culturali e Art for All, cercano di promuovere l'adozione dell'open access e identificano nuove modalità di sostegno alle istituzioni.

L'open access può portare benefici anche all'interno delle istituzioni stesse. Un anno dopo aver aperto la collezione del Cleveland Museum of Art, la responsabile dell'informazione digitale del museo, Jane Alexander, ha notato questi risultati: un maggiore aggiornamento delle informazioni su attribuzioni, provenienze e collezioni, la creazione di nuovi collegamenti tra curatori e studiosi, la redistribuzione del personale, che è passato dal rispondere alle richieste di immagini al supportare la digitalizzazione. La maggioranza degli utenti del sito del museo che è alla ricerca di immagini ora può scaricare le foto della collezione, autonomamente, consentendo allo staff di avere tempo libero per altre mansioni.

Il libero accesso alle collezioni digitali trasferisce un potere significativo dalle istituzioni al pubblico che dovrebbero servire. Con il progredire della pandemia di Covid-19, non è mai stato così vitale per i musei esplorare le possibilità di creare nuove relazioni con il pubblico e sostenere creativi, insegnanti, studiosi e innovatori che lavorano in questo difficile momento.

Gli autori:

Douglas McCarthy è redattore di OpenGLAM Medium e Collections Engagement Manager a Europeana

Dr. Andrea Wallace è docente di Legge all’Università di Exeter

Originariamente apparso su Apollo 1 giugno, 2020. Grazie mille a Marina Cotugno per la traduzione italiana.

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Douglas McCarthy
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Museums, digital & open access specialist | Editor of Open GLAM Medium | Co-author of bit.ly/OpenGLAMsurvey