Fare cultura. Sul surf.

Una conversazione con Pietro Floridia, direttore artistico della compagnia teatrale Cantieri Meticci

Mariangela Savoia
Orlo
13 min readDec 13, 2016

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Gli Acrobati, spettacolo teatrale di Cantieri Meticci. Liberamente ispirato ad un racconto di Nathan Englander, narra la vicenda di un intero villaggio di ebrei che durante la seconda guerra mondiale tenta di salvarsi fingendosi una compagnia di acrobati.

Ho incontrato Pietro in un torrido pomeriggio bolognese. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere in un caffè, a due passi dal centro, dialogando a proposito di cambiamenti sociali, di migranti, dei progetti di Cantieri Meticci.

Prima domanda. Chi sei e che cosa fai?
Mi chiamo Pietro Floridia e per venti anni ho diretto la compagnia Teatro dell’Argine e il Teatro ITC a San Lazzaro. Da una dozzina di anni ho incominciato a guidare laboratori con i rifugiati; contestualmente, sempre di più andavo a fare teatro nel sud del mondo (in Africa, in Medio Oriente, in Sud America). Questo progressivamente mi ha portato ad allontanarmi dai canoni del teatro tradizionale.

A forza di frequentare stranieri e di essere straniero, lo diventavo sempre di più anche qua. Al punto che tre anni fa — ero direttore artistico — mi sono licenziato ed ho fondato Cantieri Meticci, nella convinzione che la sfida della cultura nei confronti del cambiamento, dovesse essere vissuta in modo più estremo di quanto non riuscissi a fare dentro un teatro grande, con i suoi equilibri e le sue priorità. Che dovesse essere svolta avendo come compagni di percorso dei migranti, non soltanto come allievi o come soggetti di una ricerca.

Adesso siamo una ventina di artisti (attori, guide di laboratori, qualcuno scrive…), sempre di più ci sono competenze che esulano dal teatro, che lambiscono la videoarte, la costruzione, il canto, la musica. Abbiamo fondato una piccola orchestra. Le nostre azioni, nel momento in cui vogliono coinvolgere migranti, non possono farlo solo con il linguaggio teatrale ma devono abbracciare forme artistiche (o anche non artistiche) di ritualità. Cerchiamo di far dialogare i linguaggi più diversi. O anche qualcosa che non è detto che venga chiamato linguaggio. La cucina e la sartoria ad esempio.

Gli Acrobati

Il teatro può mettere insieme discipline tanto diverse?
Sì, il teatro lo può fare; anche il teatro più tradizionale rispetto ad altre forme, è la messa insieme dei linguaggi più diversi; a maggior ragione il nostro, e a maggior ragione in questi tempi, così liquidi in cui anche forme più ingessate si stanno ibridando.

Il teatro fatto nei teatri invece soffre molto — non in tutti i casi, per carità — di un apartheid, di una forma elitaria e molto marginale. Ma nel senso peggiore, non marginale perché lambisce le periferie; spesso i teatri sono in pieno centro. Marginale perché non è più una forma interessante né per le persone normali, né per i pensieri forti. Non è certo un luogo in cui ci vanno gli intellettuali. Non ci vanno gli scrittori, non ci vanno i filosofi a vedere che tipo di pensiero bolle in pentola in teatro.

Quando ero in Palestina le persone si facevano 8 ore di strada per uscire a vedere uno spettacolo, perché tanti check-point c’erano a renderglielo difficile. È evidente che l’attribuzione di valore che poi si dà a quella manifestazione culturale è immensamente più grande di quanto non facciamo noi che scorriamo subito un giornale e diciamo “stasera vado a vedere questo film”. Tutto questo ti fa chiedere che alchimia potrebbe succedere tra persone per cui vale la pena rischiare: da un lato genera un terremoto, da un lato può generare degli occhiali diversi con cui leggere, e la spinta, che per esempio nel mio caso ho, nel cercare di fare succedere cose, con la stessa rilevanza.

In secondo luogo io temo molto la mancanza di senso del mio fare. In una società che cambia alla velocità con cui la nostra sta cambiando continuare a fare le stesse cose di venti anni fa… È naturale che se uno non si da una mossa, il proprio fare cultura rimanga decenni indietro rispetto alla società. Poi come forma di erudizione e di cultura io non rinnego assolutamente lo studiare Pirandello, Shakespeare, studiare quello che era il sapere dei maestri, ma va tenuto ben presente che normalmente molti istituzioni soffrono, i musei soffrono…

Non tengono conto di queste contraddizioni, di questo ritmo di cambiamento?
Sì. I mondi culturali degli artisti, ma anche quello accademico delle università, sono un mondo chiuso fatto di carriere che funzionano in un certo modo, devi pubblicare, come dire, funziona così. Nella misura in cui vuoi far carriera in quella disciplina lì, o in quello sport lì, più o meno ti assesti su quello. I margini di cambiamento, di intervento con i tuoi studenti, nella didattica, nella relazione tra l’Università e il fuori, vengono ristretti a una quota così piccola da essere irrilevante.

Gli Acrobati

I flussi migratori rappresentano i cambiamenti di cui parli?
Rappresentano uno di questi cambiamenti, probabilmente il più importante. Sloterdijk ad esempio, una delle sue organizzazioni di pensiero attiene alle “sfere”, è molto interessante. Facendo una metafora è come se ci fosse la luce di una candela che è il mondo familiare, quello che è leggibile, che siamo capaci di conoscere; quando la luce della candela finisce c’è la notte, il buio. Da questo buio entra il nuovo. Di questo nuovo, la forma più consueta adesso sono i migranti che arrivano, ma il nuovo sono anche una nuova scoperta o la tecnologia, un nuovo che entra e genera rivoluzione.

Sarebbe limitativo dire che l’unico cambiamento sono i migranti. Sta cambiando il mondo del lavoro. Dalla disintegrazione di un mondo solido, —la fabbrica portava ricchezza al territorio, la gente si coagulava nel sindacato, nelle lotte, c’era il club delle mogli, i circoli culturali— quello che è stato il mondo della produzione è cambiato nel giro di 20 anni. Per me anche la fine del comunismo e l’innalzamento del liberismo a dogma e modello incontrastato, anche questo. Quando adesso intervisto i signori di sessant’anni e mi raccontano come vivevano il partito comunista in questa regione, mi sembra di parlare con dei marziani. Mi sembra che mi raccontino dell’Ottocento, ed era quarant’anni fa.

Tutto questo sconvolgimento deve far si che chi fa cultura sia un po’ più sul surf: in qualche modo con la sua barchettina deve cercare di stare un po’ più vicino alla città, ai mutamenti, ad una specie di nomadismo. Poi lo stesso si fa fatica a capirci qualcosa, però ce n’è un gran bisogno, io ne son convinto. Magari non riuscirò a far diventare il discorso dominante, a farlo capire alla città, magari rimaniamo assolutamente invisibili e irrilevanti.

Gli Acrobati

O di nicchia…
Completamente di nicchia. Ma non ancora come siamo, perché abbiamo appena cominciato, i nostri strumenti sono grossolani, ancora ben acerbi rispetto a quello che vorrebbero o dovrebbero essere.

Però capisci quanto sarebbe importante avere una pedagogia che ad un ragazzo dia un po’ di punti di riferimento rispetto al suo rapporto col mondo, alla sua collocazione, un minimo di senso della direzione valoriale o di capacità di intervento… Di narrazione in qualche modo, di racconto attraverso il quale riesce a dire “io sono qua”, o a maggior ragione “noi siamo qua”. Questo, è sempre più difficile ma sarebbe sempre più importante.

Narrazione per comprendere Il mondo in cui ci si trova? Collocare sé stessi?
Sì, avere una narrazione in qualche modo riesce a tracciare minimamente dei nessi causa ed effetto, ad esprimere non solo il significato delle cose ma anche un senso, inteso come una direzione. Tu dici, “io penso che l’Orlo sia importante”: questo è già un collocarsi, tracciare un’ipotesi di lavoro, di sguardo. Questa è una narrazione. Questo tentativo di cucire un discorso è sempre più difficile, sempre più raro, sempre più solitario. Questo è un punto di debolezza, perché anche quando uno ci riesce, è solo. E quando si è soli, a livello politico, di incidenza, non si è nulla.

Gli Acrobati (Foto © Strefa Wolnoslowa)

C’è bisogno di coinvolgere?
Esattamente. Poi però guai a noi se non sappiamo renderlo critico, renderlo emancipatorio. Facciamo new-age o facciamo le crociate così. D’altra parte quando combatti con certi nemici il problema è che tieni quel livello lì, anche questa sarebbe una grande sconfitta. Il teatro, questo che facciamo, potrebbe riuscirci. Non è detto che ci riuscirà, servono persone in gamba, serve studiare, avere fortuna, servono tante cose perché succeda.

In questo smarrimento totale, per carità, c’è un sacco di gente a cui non gliene frega niente; neanche ai migranti in qualche modo, sono sempre più impregnati di un orizzonte valoriale profondamente consumistico e capitalistico, molti arrivano col sogno di possedere.

Chi sono i migranti che frequentano i laboratori teatrali di Cantieri Meticci?
In questi ultimi anni il fenomeno migratorio coinvolge sempre di più i giovanissimi. Dieci anni fa sicuramente non lavoravo con i minori, adesso ce n’è una quantità incredibile. Continuiamo a lavorare con persone mediamente di 25–27 anni, poi per carità il nostro leader è un rifugiato egiziano che ha 67 anni.

Tendenzialmente sono migranti saliti sui barconi e sono arrivati qua con la rotta balcanica, sono giovani e purtroppo soprattutto uomini. Questo è un problema che nell’ultima assemblea abbiamo affrontato in modo corposo, dobbiamo essere più bravi a coinvolgere le donne, per questo prima ti citavo la sartoria.

Gli Acrobati — Promo dello spettacolo

Come vengono a conoscenza di Cantieri Meticci?
Qui a Bologna il teatro con i migranti lo facciamo noi e ormai ci conoscono tutti, per cui in qualunque passaparola gli viene detto di andare da Cantieri Meticci. Facciamo spettacoli e laboratori ovunque: nelle moschee, nei centri di accoglienza, nelle biblioteche, nelle scuole, per cui vediamo centinaia e centinaia di persone.

Che conoscenze linguistiche hanno?
I primi mesi di base. Le nostre guide sono anch’esse migranti per cui abbiamo le principali competenze linguistiche — francese, inglese, arabo, farsi e tutta l’area mediorentale o persiana, in certi casi pashtun — per cui i primi mesi di regola andiamo in lingua. Si creano dei gruppetti, io parlo in italiano e il francofono è lì o con un africano, o con un francese o un belga che gli traduce in diretta. Poi il nostro è un linguaggio molto fisico, visivo, molto imitativo, ho diretto spettacoli in arabo o in polacco di cui non capivo una sola parola.

Una delle nostre missioni attiene all’insegnamento della lingua italiana, per loro sempre di più è vitale usare il teatro per imparare l’italiano e in molti contesti è quasi l’unica ragione per cui lo fanno. La cosa più netta è che il teatro serve perché si pratica l’italiano in un modo molto più efficace di quanto non avvenga tra i banchi di scuola. Perché c’è il corpo, la relazione, la situazione, c’è la reciproca attrazione, c’è il gioco.

Ecco perché l’anno scorso siete stati coinvolti nella scuola di Italiano di Boreano…
Sì, chi lavora con i migranti sa che il grande tema è, come diceva la grande Spivak, quello di generare canali di discorso il meno possibile mediati da noi bianchi. Avere una compagnia in gran parte composta da migranti, cercare di schierare strumenti perché i narratori e gli autori siano gli stessi partecipanti ai laboratori, è comunque un valore.

A Boreano son partito dal Candido di Voltaire proprio perché ha questo slancio verso il futuro, verso l’ottimismo. Intanto però Candido ne passa di tutti i colori, vive le peggio cose. Raccontare certe avventure di Candido, certe storie d’amore, quando insegue la sua Cunegonda per tutta Europa, era un punto di partenza, era la sollecitazione di una discussione sull’ottimismo.

Gli Acrobati / Frontiera di Chiasso, aprile 2015 (Foto © Luigi Burroni)

Abbiamo parlato di chi fa teatro con Cantieri Meticci, della necessità di una narrazione, di imparare l’italiano. Ma cosa accade nella mente di chi guarda? Cosa vorreste che accadesse?
La nostra è una forma di pensiero caldo, vogliamo che le persone si emozionino, si commuovano, si divertano. Dove è possibile, l’accostamento di visioni del mondo molto diverse, di materiali scenici molto diversi, attraverso un montaggio che somigli a un collage, nei miei intenti dovrebbe generare il pensiero.

C’è un nucleo centrale, un concetto, un personaggio, un tema, e sistematicamente cerchiamo una diversità di declinazioni di visioni che quel nucleo centrale genera. Cerchiamo delle forme complesse per cui lo spettatore fruisce il fatto che quella cosa lì, in quell’angolo scenico, per bocca di quell’attore, è un momento intimo della sua biografia. Lì di fianco, una visione di carattere storico, oppure un linguaggio filosoficamente articolato che con la sua biografia è un salto.

L’eterogeneità dell’esperienza di vita, dei materiali, un accostamento e un montaggio dove i salti son molto forti, rischia di essere freddo, qualcosa che parla solo al cervello. Ci piacerebbe una mezza via, dove ci sono materiali caldi, che emozionano, e materiali che fanno ragionare su una molteplicità di visioni di letture e anche di livelli. Non vorremmo, come si rischia, essere collocati nel teatro sociale, politicamente ingaggiato, dove a maggior ragione il migrante è il bene, anche se molto spesso è quello che succede.

Quando il mainstream colloca le operazioni in quel modo lì non gliene frega niente della nostra complessità, o noi non siamo abbastanza bravi nel raccontarlo, allora ti commuovi perché sul palcoscenico ci sono migranti. Oppure, tutto il pubblico ingaggiato in quella cosa lì ci ama e si commuove e gli altri non ci vengono neanche perché siamo colorati. Chi fa arte pura spesso ci guarda con sospetto come se il nostro valore fosse soltanto questo. Alle volte è vero, non ho gente che ha finito l’accademia di arte drammatica. Ci stiamo provando e sempre più ho un nucleo forte di bravi professionisti, con tutti i limiti del caso.

Gli Acrobati / Frontiera di Chiasso, aprile 2015 (Foto © Luigi Burroni)

Tornando a quello che dicevi prima, hai notato che i migranti sono sempre più giovani e hanno sempre più sogni consumistici. Che percezione hanno dell’Italia? Soprattutto, la percezione che hanno prima di partire, una volta in Italia viene confermata?

È una domanda difficilissima… Più si va a sud del mondo, più sono ingenui, detta in modo grossolano, per come so io. Dieci anni fa i marocchini pensavano che l’Italia fosse l’Eldorado e anche quando sbattevano contro l’inferno per un bel po’ continuava ad essere l’Eldorado. Il mix tra televisione e soprattutto bugie di chi torna e si auto-racconta come vincente, generavano questo. Poi è un discorso sul desiderio, tutti noi desideriamo un altrove; questo, più la tv o internet, più i racconti da vincitore facevano un mix per cui la gente si sarebbe tagliata un braccio per venire in Italia. Adesso loro in Italia ci sputano sopra, o tornano perché non ne vale lo stress. Bisogna andare in Germania o in Svezia.

I subsahariani invece continuano secondo me ad essere molto più sprovveduti, l’Europa continua ad essere un Eldorado, perché rispetto a dove vengono lo è. Stiamo parlando di zone dove continuano a fare la fame, ad avere le guerre, nessuna prospettiva di sviluppo, dei livelli di corruzione per cui anche se uno fosse intelligente capisce che non andrà mai da nessuna parte. Continua ad essere molto meglio di dove sono, con tutte le sofferenze e un lavoro che non c’è.

Dieci/dodici anni fa arrivavano qua dei rifugiati politici come uno si aspetta che siano, cioè gente che ha lottato contro un regime, gente con due palle così perché ha fatto parte di un partito politico. Adesso ci sono ragazzini di 16 anni… Uno è salito su una barca senza neanche sapere che andava in Europa. Dall’altro canto, su certi fronti evidentemente non è così, la tecnologia, la rete, danno invece qualcosa per cui sono molto più smaliziati di quanto non fossero in passato.

Pietro Floridia / Frontiera di Chiasso, aprile 2015 (Foto © Luigi Burroni)

Ma le donne? Sembra che non arrivino qui in Europa.
No, arrivano, io ho delle attrici stupende, però anche lì non so cosa sia cambiato. Un tempo in ogni gruppo avevo delle attrici, adesso meno, non so se sia questa crisi devastante del lavoro, poi quello che i centri di accoglienza sanno offrire è talmente abbassato di livello che a tutto penso tranne che andare a teatro.

Spesso sono meno, indubbiamente, anche per ragioni di protezione, perché c’è una tratta di prostituzione. Sono spesso più isolate in centri appositi fuori Bologna e allora è più difficile: l’ultimo autobus è alle sette di sera, si fa fatica ad intercettarci, però ci lavoreremo. Ci sono delle nostre attrici meravigliose, però per esempio, di ragazze così giovani non ne ho, sono di seconda generazione, invece di ragazzi giovanissimi ce ne sono.

Secondo te in Italia avremo mai un politico o sindaco
come Sadiq Khan?
Secondo me sì, non adesso però il futuro è in quella direzione lì, anche demograficamente parlando: noi non facciamo più figli, loro ne fanno 3 o 4 a testa, per forza sarà così. Poi speriamo che non arriviamo alla guerra, a vivere in Europa come in Israele, con le frontiere, con la gente nei campi, messa sugli aerei e riportata indietro. Oppure le barriere fatte dai militari, fatte da reti come in tutto il nord Africa o in Turchia… Sembra che non ci sia tutta questa lungimiranza —tranne in qualche caso— di lavorare ad investire fortemente in un’altra direzione. Per cui speriamo non si arrivi ad una punta di crisi così violenta da ricominciare a costruire solo dopo che si è incendiato il continente. Purtroppo sono scenari possibili.

Tornerete a Boreano?
Spero di sì, ma adesso la cosa più reale è il progetto col ghetto di Rignano.

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Gli Acrobati

Nota: se non avete ancora letto la storia del ghetto di Boreano la trovate cliccando il link in basso. Il 2016 è stato un anno pieno di sconvolgimenti per questo piccolo angolo di Basilicata. Dopo una serie di incendi dolosi e di manifestazioni dei lavoratori migranti, una Task Force della Regione Basilicata ha deciso di abbattere i ripari auto-costruiti. Il ghetto, così come lo vedete in foto, non esiste più. I lavoratori sono stati spostati in un centro di accoglienza a Venosa (PZ). Quest’anno non è stato possibile ripetere l’esperienza della scuola di italiano, prevista per settembre 2016. I migranti, assieme alle associazioni locali, continuano imperterriti a denunciare e manifestare, nonché proporre una serie di azioni concrete per risolvere il problema ormai ventennale.

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Mariangela Savoia
Orlo

Graphic designer based in Bologna, Italy. Founder of Orlo, the bookzine of practical culture. https://medium.com/orlo-bookzine