Su la mascherina, giù la maschera.

Tra Milano e Parigi, nelle settimane della moda e in piena pandemia, l’intera industria riflette sugli eccessi pre-covid.

Paolo Iabichino
Osservatorio Civic Brands
4 min readOct 4, 2020

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La Repubblica — Martedì 22 settembre 2020

A leggere le cronache che arrivano direttamente dalle passerelle delle ultime sfilate, sembra che l’intera industria della moda abbia deciso di rivedere definitivamente il proprio stare sul mercato.

Prima del Covid gli atteggiamenti civici erano di poche etichette, perfettamente posizionate in questo senso e con un pubblico molto preciso, peraltro abbastanza distante dai fasti del grande circo.

Il Coronavirus ha accelerato un’agenda che guarda al fashion-system in maniera del tutto inedita, dove non sono solamente le istanze ambientali a prendere il sopravvento, ma un’attenzione rinnovata verso le comunità interne, pubblici diversificati e attori della filiera, in una tensione che sta a metà tra il bisogno di risarcimento e quello di chi cerca di avventurarsi nel mainstream.

A proposito di mainstream, arriva da Giorgio Armani la lezione più importante della settimana milanese con sfilata in prima serata su La7, aperta da Lilli Gruber che racconta Milano, seguita da un documentario interpretato dalla voce narrante di Pierfrancesco Favino e chiusa da Richard Gere in American Gigolò, il film che più di tutti ha consacrato lo stilista nel mondo.

Dal 23 al 29 settembre, per le presentazioni delle Collezioni Primavera/Estate 2021, Milano ha ospitato 159 eventi, di cui 23 sfilate fisiche e 41 digitali, 37 presentazioni dal vivo e 24 virtuali. Ma a nessun altro è venuto in mente di sfilare dentro la cara e vecchia tv, peraltro registrando picchi di ascolto invidiabili alle migliori trasmissioni di prima serata.

Proprio alla vigilia di questo show lo stilista italiano più noto al mondo ha rilasciato una lunga intervista dove rivendica una nuova postura di business per l’industria della moda:

“Il rischio più grosso e imminente è rifare tutto come se nulla fosse successo, producendo in eccesso, comunicando sul nulla, dimenticando la dura lezione di questi mesi terribili”.

Intanto due monumenti come Miuccia Prada e Raf Simons, per la cronaca, sono a tutti gli effetti due competitor, sfilano insieme e si dedicano anche a Tik Tok per rispondere alle domande lasciate sulla piattaforma digitale aperta proprio per questa insolita iniziativa di mettersi a disposizione di chiunque avesse una qualsiasi curiosità da soddisfare.

La moda quindi sembra scegliere di avvicinare il grande pubblico ed è di Donatella Versace l’idea di riservare gli ambitissimi posti della sua sfilata alle maestranze che hanno permesso ai suoi vestiti di arrivare in tempo, e così anziché fashion blogger, testimonial e influencer, sulle sedie ai lati delle passerelle milanesi c’erano gli operai e le operaie degli stabilimenti di Novara e Milano.

Intanto, Dior sfila a Parigi con la sua iconica bar jacket in una variante mai vista prima, introdotta dalla direttrice creativa Maria Grazia Chiuri: “oggi come non mai gli abiti devono adattarsi al corpo, e non viceversa. Da mesi viviamo in una sfera più ristretta e intima che ha influenzato anche il rapporto tra noi e ciò che indossiamo: la bar jacket qui è a doppia vestibilità, regolabile in base alle necessità di chi la indossa”.

E ancora, tornando a Milano, Etro sceglie di sfilare con Valentina Sampaio, modella transgender simbolo dei diritti della comunità Lgbtetuttelealtrelettere, Max Mara inneggia al tailleur “per tornare a vestirsi come gesto di civiltà per se stessi e gli altri, dopo le sciatterie vestimentali del lockdown” (sic), e Miroglio irrompe con sette borse di studio per infermiere, sì, parlano di infermiere e vincitrici, quindi qui la discriminazione di genere per una volta è al contrario.

Intanto, mentre Vivienne Westwood si spertica con un nuovo manifesto per la moda — personalmente ne ho contati una decina di nuovi manifesti per la moda nelle ultime quattro settimane, da Cucinelli in giù — la Camera della Moda informa che nel 2019 il comparto valeva oltre 90 miliardi di euro, di cui oltre 71 provenienti dall’export. Sembra che le previsioni per il 2020 parlino di una riduzione a 49 miliardi di euro, con 39 milioni dalle esportazioni. Nel quadrilatero della moda milanese molte saracinesche restano abbassate ed è forse il tempo di rivedere non solo le logiche di business, quanto gli eccessi di un sistema dopato che ha ignorato le vertigini economiche a cui si è prestato, abbracciando un sistema non più sostenibile.

Le sfilate appena concluse hanno dimostrato che molte maison hanno intrapreso una nuova direzione. Resta da capire quanto siano disposte ai nuovi compromessi dettati dai contesti o se si tratta dell’ennesimo sforzo narrativo destinato ad essere recalcitrato ai primi segnali di ripresa, con buona pace di tutti i manifesti compilati nel frattempo.

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Paolo Iabichino
Osservatorio Civic Brands

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