Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il dare.

Ipsos Italia e i Civic Brands alla Digital Week milanese: un confronto aperto sulle prossime direzioni da prendere.

Paolo Iabichino
Osservatorio Civic Brands
8 min readMar 25, 2021

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Non è più il tempo delle dichiarazioni d’intenti: le promesse devono diventare fatti e disegnare un percorso di valutazione che sia in grado di misurare l’impatto concreto che le azioni di marca devono avere attraverso la costanza, l’impegno e la capacità di mantenere inalterato il proprio focus, ivi compresi gli inevitabili errori commessi lungo il percorso dell’impegno civico.

I due grandi temi che questi tempi impongono alle aziende sono, da un lato il tema della comunicazione, quello delle idee e della creatività nella scrittura del racconto e dall’altro, finalmente, il tema dell’azione. Sono argomenti che non possano più essere delegati solo e soltanto ai racconti e alle narrative ma necessitano di progettualità e concretezza.

Per questo è nato l’Osservatorio Civic Brand, un progetto e un luogo di condivisione che da oltre un anno si struttura come uno spazio di riflessione e confronto sul ruolo che marche e aziende possono e devono avere nel migliorare la società di cui tutti noi facciamo parte.

Se si parla di aziende che prediligono l’azione, e quindi il dare al dire, Patagonia è in questo senso un esempio straordinario di come il brand activism può andare in scena. Rappresenta la parte per il tutto perché da sempre basa il proprio modello di business su questo tipo di atteggiamento.

Dall’altra parte, storiograficamente, il brand activism in letteratura viene fatto risalire, nella sua forma più mainstream, alla comunicazione che Nike fece tra il 2017 e 2018 quando prese posizione in modo netto e decisivo contro le politiche di Trump, mostrando la sua intenzione di schierarsi, quantomeno narrativamente, a favore dell’inclusività.

Dunque, se da una parte c’è il dare, l’azione che è così ben rappresentata da Patagonia, dall’altra c’è la comunicazione di Nike che, proprio in questi giorni, ha pubblicato un video che, in due minuti, mostra un importante cambio di passo dell’azienda che mette questi temi affrontati in una prospettiva di lungo periodo.

E lo fa attraverso la voce del CEO Global che, passando in rassegna alcuni progetti di comunicazione andati in onda in questi ultimi anni, ci rimanda a un purpose che si intende trasferire, prima di tutto, agli shareholder e successivamente agli stakeholder e impegna il brand, da qui al 2025, ad agire per impattare sulle grandi tensioni sociali e politiche che in questo momento stanno attanagliando il pianeta sul fronte della sostenibilità, dei diritti e della riduzione delle diseguaglianze.

John Donahoe, Chief Executive Officer Nike Global

Nike ha presentato il suo Impact Report e gli Obiettivi 2025, riassunti in questo video: dall’impatto ecologico dei prodotti dalla fabbrica alla gestione del loro fine vita, dal tema della disuguaglianza razziale alla rappresentanza delle donne nella catena di comando. Quanto al futuro, la grande novità dei Purpose 2025 Targets è che il compenso degli executive sarà legato direttamente, per la prima volta, ai progressi dell’azienda in fatto di diversità e inclusione, protezione del pianeta e processi produttivi che rispettano gli standard etici. (Brand News)

Forse per la prima volta l’impegno del brand non si pone come un’operazione di advertising. Affronta e declina il concetto di azione, quello di impatto e di brand activism che coinvolge e riguarda tutte le funzioni aziendali.

Un imperativo teso a risuonare non tanto nelle pagine della letteratura, sulle scrivanie accademiche e nelle sale riunioni dei marketer, ma soprattutto nella vita delle persone che, con le loro scelte, determinano la sopravvivenza delle aziende.

È da qualche anno che Ipsos regista la necessità di un impegno sociale delle marche che crei un impatto civico e le veda adoperarsi concretamente per il benessere della comunità nella quale vivono. La pandemia non ha interrotto bensì amplificato alcuni dei macro trend che si sono affermati negli anni precedenti. Da anni ormai, siamo di fronte a un nuovo consumatore, molto più attento nel giudicare il comportamento di un’azienda, in un ribaltamento di valori e di aspettative senza precedenti.

Il vecchio modello di business, che vedeva come unico obiettivo quello di massimizzare il profitto, viene messo in discussione da un modello virtuoso in cui l’impresa non è soltanto percepita come un attore economico che opera nel mercato ma come un protagonista inserito all’interno del contesto, capace di migliorare la società e la vita delle persone con le proprie azioni a partire dai propri dipendenti, in grado di prendere posizione su argomenti inerenti i diritti civili e la parità di genere.

L’impegno civico di un brand crea un vero e proprio impatto sul business, ha una ricaduta economica concreta perché il comportamento dell’azienda è diventato un criterio di scelta, un driver di acquisto che porta il 40% delle persone a dichiarare di aver effettivamente smesso di comprare un bene o un servizio perché deluso dal comportamento di quella marca.

Per questo, oggi non basta ammantarsi di un purpose nobile. Ciò che conta ora è l’azione, come il brand vive e agisce nel mondo reale perché sia l’azione sia la mancanza di essa sono segnali per i consumatori e l’intera società.

Alle aziende viene chiesto di diventare i motori di un cambiamento reale, guidate dal coraggio di prendere una posizione e di portarla fino in fondo, anche a costo di perdere un po’ di consenso e di sollevare un dibattito all’interno dell’opinione pubblica.

La fiducia diventa un tema centrale per i brand che decidono di agire come player sociali in maniera concreta per abbattere il pregiudizio che le vede impegnate in mere operazioni di make up.

Tra tutte le aziende che operano in Italia meno del 37% è considerata veramente responsabile. Questo dato sottolinea l’esistenza del say-do-gap, ossia della discrepanza tra le dichiarazioni d’intenti e l’effettivo comportamento.

Le aziende e i brand civici possono davvero fare la differenza nel momento in cui coinvolgono e rendono partecipi i cittadini. Le persone vogliono essere parte di questo cambiamento e chiedono alle aziende di poter lavorare fianco a fianco. È arrivato il momento della co-creazione.

Il civismo del brand, dunque, non è solo una buona pratica di comunicazione ma diventa un processo fondante dei modelli di business, bilanciando l’attenzione verso tematiche alte con azioni e interventi che agiscono sulla prossimità delle comunità e dei singoli individui.

Tra le diverse esperienze nostrane monitorate dall’Osservatorio Civic Brands, alla presentazione della Digital Week milanese hanno partecipato tre realtà impegnate prima di tutto nel costruire un preciso impegno nei confronti del mercato: Bolton Food, Oxfam e Pienosole che nei loro interventi hanno delineato cosa significa un reale impegno sociale, declinato nelle pieghe della progettualità.

Luciano Pirovano, Global Sustainable Development Director Bolton Food, definisce la sostenibilità come la ragion d’essere di un modo di operare e di impegnarsi nel business attraverso partnership trasformative, globali e multipaese, come quelle con il WWF per gli aspetti ambientali e la salute degli oceani e con Oxfam per gli aspetti sociali e la creazione di un’economia umana.

L’obiettivo di diventare l’azienda di tonno più responsabile e sostenibile del mondo impone piani di sostenibilità seri, concreti e trasparenti, un approccio strategico e scientifico orientato alla creazione di valore condiviso con gli stakeholder e un modo di comunicare autorevole, lontano dal green washing. E tutto questo non è possibile raggiungerlo da soli. Stringere delle partnership di valore garantisce all’azienda un’apertura verso l’esterno in grado di ridurre il rischio di autoreferenzialità a favore di un arricchimento di sapere e metodologie.

Marta Pieri, Head of Corporate Partnership di Oxfam Italia, sottolinea la necessità di un approccio integrato tra azioni e settori per ottenere un reale impatto. Oxfam è conosciuta per essere una delle più grandi ONG internazionali, presente in 90 paesi e con la capacità di raggiungere più di 22 milioni di persone grazie ai 3000 partner con cui collaborano. Lavorano con le istituzioni, portando avanti programmi di sviluppo e rafforzando la voce delle comunità, ma forse quello che è meno evidente è quanto sia fondamentarle il settore privato nella lotta per sconfiggere la povertà e combattere la diseguaglianza. Il settore privato è, infatti, il principale motore per la crescita economica e la creazione di lavoro ma anche la chiave di volta per aumentare l’accesso a conoscenze, esperienze e risorse.

Rispettare i diritti umani e contribuire al bene comune è una responsabilità che tutte le aziende hanno, ma non tutte le aziende e non tutti i manager hanno gli strumenti per gestire questa responsabilità. Alcuni brand, come Patagonia, possono definirsi social purpose natives perché nascono con un background valoriale distintivo, altri scoprono la necessità, il bisogno (e anche il profitto) di occuparsi di tematiche trasversali, ma dietro ogni ambiziosa dichiarazione di sostenibilità ci sono persone che quella strategia la devono portare avanti quotidianamente. In ogni decisione che prendono, in ogni riunione che conducono.

Non si può e non si deve essere soli a gestire la tensione continua tra l’interesse di pochi e il bene della collettività. Trasformare le ambizioni in pratica, supportare il walking the talk di un settore sono obiettivi che richiedono incisività ed efficacia delle azioni programmate, lo sviluppo di competenze e strumenti adeguati ad affrontare questo cambiamento e una riconciliazione tra attività CSR e brand purpose che sia evidente lungo tutte le catene di valore.

Il civismo dei brand non riguarda solo le grandi aziende ma anche le piccole realtà come testimonia Paolo Priolo, fondatore di Pienosole insieme a Emanuela Carelli. Essere piccoli ma rigorosi comporta sia vantaggi che svantaggi. Svantaggi perché effettivamente non si hanno le capacità per fare tutto quello che si vuole, anche in termini di attivismo, e vantaggi perché il processo decisionale è molto più snello e veloce. Il valore che ha guidato la strutturazione di questa azienda è la bellezza di porsi dei limiti, producendo di meno per farlo nel miglior modo possibile e con il minor impatto ambientale. È un principio che non ha nulla a che fare con la decrescita felice ma è una direttrice che porta a fare le cose con cura.

Curare non vuol dire semplicemente prestare attenzione alla realizzazione di un prodotto, ma è un concetto che deve essere esteso all’intero ecosistema che gravita attorno all’azienda. Il valore di un brand deve essere misurato anche in base al suo grado di civiltà, ovvero alla sua capacità di creare relazioni forti e positive con tutte le parti del contesto in cui opera: dai clienti ai fornitori, dai lavoratori al territorio.

Imparare a comunicare la sostenibilità in modo autorevole e credibile per rispecchiare l’impegno della marca è il passo successivo, anteponendo sempre il dare al dire, in una narrazione che è determinante e spesso polarizzante. Schierarsi significa prendere posizioni nette che rischiano di far perdere clienti ma è ora necessario perché, parafrasando Kotler, chi resta in silenzio deve essere pronto a pagare anche il prezzo del suo tacere.

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Paolo Iabichino
Osservatorio Civic Brands

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