New York Times Story: dopo Snowfall il fenomeno T Brand Studio

Massimo Colasurdo
Osservatorio Content Studio
3 min readFeb 27, 2017

Il 20 dicembre 2012 il New York Times pubblica Snowfall, un approfondimento con diversi elementi interattivi e multimediali tra cui mappe e video. Si tratta di un pezzo che racconta un fatto di cronaca, nello specifico una valanga, attraverso la spiegazione delle dinamiche e le testimonianze dei superstiti. La novità è rappresentata dalla forma, o meglio dal “contenitore”, ovvero l’insieme di layout grafico, sequenze di elementi e interazioni dell’utente.
La modalità di sviluppare forma e contenuto di questo tipo, che va sotto il cappello del long-form journalism o immersive storytelling, fa subito scuola, tanto da diventare in breve tempo un verbo: “to snowfall”.

Successivamente nascono startup che cercano di semplificare la produzione dell’ “output snowfall” attraverso lo sviluppo di nuovi CMS (content management system), come per esempio Scroll Kit che presto viene acquisita dal team di Wordpress. Altri esempi sono: Marquee, che si associa subito al magazine di longform Narratively; The Atavist che passa dall’editoria digitale alla tech company e l’australiana Shorthand.

La forma di narrazione lunga su web da buoni risultati e tutti sembrano interessarsene. Fin qui, per gli addetti ai lavori, non ci sono grosse novità. Ma quello che stupisce è che il NYT fa scuola di nuovo. Questa volta con la nascita di T Brand Studio, la divisione creativa che si occupa di ideare contenuti per i brand.

Il sito di T Brand Studio

Siamo nel 2014, nasce quindi T Brand Studio. Nel febbraio 2014, esattamente 3 anni prima, esce il primo contenuto sponsorizzato per United. Ma solo nel giugno 2014 è sotto i riflettori per Women Inmates: Why the Male Model Doesn’t Work, il paid post ideato per lanciare la nuova serie Netflix Orange is the new Black.

A questo punto, al suono di EC=MC (Every Company is a Media Company) o della parola d’ordine storytelling nell’accezione letterale, ovvero raccontare delle storie, si inizia a parlare più apertamente nelle testate, perlopiù americane, di branded content e sponsored content associato al native advertising e assistiamo così al fenomeno dei Content Studio.

Nascono contestualmente altre divisioni o agenzie di testate americane (una rassegna è stata data in Cortocircuito, l’ebook IFT Studio e Eniday). Si va dal Guardian Labs a Re-think di The Atlantic, passando per 23 Stories di Condé Nast e Custom Studios del Wall Street Journal e ancora Vox Creative di Vox Media. Anche in Italia si propaga l’ondata a partire da Mondadori con Inthera, poi RCS con Numix Agency, Conde Nast Italia con Think Content e IL de IlSole24Ore con IL Studio, ma anche i più piccoli si muovono in questa direzione.

La storia continua, T Brand Studio diventa sempre più grande e mette in pista le prime acquisizione: Hello Society specializzata in digital marketing e Fake Love, un’agenzia di design specializzata in progetti interattivi per eventi. Si punta su realtà aumentata e realtà virtuale.

Nel 2016 T Brand Studio vince nella categoria Best film by a brand al Brand Film Festival con questo video evocativo sponsorizzato Philips e dal titolo The Longest Night.

Il numero di progetti aumenta, si parla complessivamente di circa 200 paid post: nel 2014 sono 26, nel 2015 toccano i 56, nel 2016 arrivano a 88, tanto che Sebastian Tomich, vice presidente e responsabile dell’innovazione e della pubblicità del NYT, afferma a fine 2016:

It’s on track to create 100 ad campaigns this year the Times’ svp of advertising and innovation.

Traducendo questi numeri in dollari questo è quanto dichiarato: 13 milioni nel 2013 e 35 milioni nel 2015. La crescita non si ferma, Tomich continua in modo eloquente affermando:

The goal was to transform the studio into its own business.

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