Un passo più vicino

La prestazione dell’Italia contro l’Inghilterra dimostra che i progressi ci sono, con tanti dettagli ancora da curare

Ovale Internazionale
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6 min readFeb 5, 2018

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Alla fine dei conti il risultato è esattamente quello che ci si aspettava alla vigilia: Inghilterra troppo superiore ai padroni di casa nella prima giornata del Sei Nazioni, e risultato che supera i trenta punti di scarto fra le due nazionali.

La partita se ne andrà tra gli annali del Torneo come una delle tante altre sconfitte pesanti subite dall’Italia nei suoi diciotto anni di militanza, ma se poi andiamo a guardare i contenuti della partita di domenica si scopre che non è stato un incontro lineare, e che ha detto qualcosa in più del semplice assunto: l’Inghilterra è fortissima, l’Italia fa schifo.

La prestazione generale dell’Italia dimostra che alcuni progressi, in particolare in alcune aree, sono tangibili: l’Italia ha mosso bene il pallone, specialmente all’esterno, e, pur facendo a tratti fatica a trovare un avanzamento continuativo, quando ha avuto il pallone in mano ha sempre messo in difficoltà gli avversari.

Rimane un gap importante fra la nazionale azzurra e gli altri cinque concorrenti nel torneo più vecchio di Ovalia, ma si deve riconoscere a O’Shea di avere, in un anno e mezzo alla guida dell’Italia, ampliato significativamente la profondità della rosa (sicuramente non tutto merito suo, ma anche di un lavoro fatto in precedenza), ringiovanito lo spogliatoio e rimesso l’Italia su un binario di miglioramento.

Un primo test davvero probante dei risultati del lavoro dell’irlandese e dei suoi assistenti non si avrà prima che scadano i due anni di lavoro: a giugno gli Azzurri voleranno in Giappone, per affrontare una doppia sfida in terra nipponica di capitale importanza per il nostro rugby. Altrettanto importante il test fissato il prossimo novembre contro la Georgia. Sono questi gli obiettivi sui quali deve davvero lavorare l’Italia quest’anno, per dimostrare di essere qualcosa di più che la prima degli ultimi, fosse anche solo affermare di essere ultimi fra i primi.

La meta di Benvenuti

L’Italia parte male. Al primo pallone in attacco l’Inghilterra segna con una combinazione di pregevole fattura in seconda fase: da touche palla a Te’o per avanzare, il pallone esce rapido e un loop fra Ford e Farrell fa saltare la difesa italiana. Watson in meta dopo tre minuti.

Si replica poco dopo, stavolta con la colpevole collaborazione di Boni, che sbaglia ben due placcaggi nella stessa azione, e Benvenuti, il cui estremo tentativo di fermare Watson è quantomeno effimero.

Benvenuti che però si riscatterà qualche minuto più tardi segnando una meta, la prima dell’Italia nel match, di pregevole fattura. Semplice, ma ben fatta.

C’è una mischia a metà campo, posizione speculare a quella da cui l’Inghilterra ha segnato la sua seconda meta. I campioni in carica del torneo si aspettano evidentemente una partenza di Parisse dalla base per giocare con estremo e ala dal lato chiuso, tanto che mettono un uomo in più da quella parte e lasciano Danny Care a difendere il primo canale da mischia.

Mal gliene incoglie perché l’Italia gioca bene con la propria linea arretrata: i trequarti attaccano con velocità e sono bravi a fissare sempre il proprio avversario e sfruttare quindi la superiorità numerica all’esterno.

E’ Bellini che ne può approfittare per andare in fuga. Braccato e raggiunto da Watson, l’ala ricicla un po’ alla disperata verso l’interno dove Boni, che gli aveva passato il pallone, è bravo a seguire l’azione. In men che non si dica l’Italia è già sui cinque metri avversari.

Violi mantiene il ritmo alto servendo Giammarioli, che conserva il possesso ma raggiunge appena la linea del vantaggio. C’è quindi una carica centrale in mezzo al campo con Budd che è ottima, perché consente all’Italia di tagliare fuori buona parte della difesa inglese nella fase successiva.

L’Italia ha l’uomo in più all’esterno. Violi serve Lovotti che opera benissimo da primo uomo in piedi come pivot per Allan (a dirla tutta, una delle poche cose buone del pilone sinistro italiano nei suoi quaranta minuti in campo). Il numero 10 si ritrova in una situazione di 3 contro 2 che esplora benissimo con un passaggio che sorvola Jonny May e si deposita fra le braccia di Benvenuti.

Il giocatore del Benetton Treviso, lanciato in corsa, riesce quindi ad eludere il ritorno di May e va a schiacciare in meta. Un’azione semplice, ma entusiasmante e ben fatte, come non molte altre volte abbiamo visto fare agli Azzurri.

Silly penalties & exit strategy

La disciplina è stata spesso una questione solitamente penalizzante per l’Italia: essendo di livello inferiore rispetto alla maggior parte degli avversari incontrati, la squadra si trovava a forzare delle situazioni, o in affanno su altre, concedendo un mucchio di calci di punizione agli avversari.

Quello che è successo ieri è stato diverso. C’è stato un problema di disciplina più, per così dire, nella forma che nei contenuti: al minuto 16 Allan ci porta con un bel calcio nei 22 inglesi, ma sulla rimessa laterale successiva Ghiraldini commette un evidente fallo in maul e concede una facile liberazione; al ventisettesimo l’Inghilterra ha appena segnato la terza meta e, dopo il restart, deve liberare i propri ventidue cedendo il possesso agli Azzurri, ma Simone Ferrari scalpita un po’ troppo e finisce in fuorigioco, altro calcio di punizione; al minuto 33 l’Italia ha appena fallito un attacco ma ha la possibilità di mettere ancora pressione agli inglesi, ma Budd non rotola via dalla ruck e concede ancora una volta una semplice liberazione; al primo pallone della ripresa, gli inglesi costruiscono una maul come piattaforma per poi liberare al piede, ma è di nuovo Ghiraldini che, sotto gli occhi dell’arbitro Raynal, solleva le gambe di Itoje e si guadagna un altro fischio contro.

Per consolarsi un po’ pensando a 18 anni fa

Questi quattro sono esempi di silly penalties, calci di punizione tutto sommato evitabili, e soprattutto che hanno un comune denominatore: concedere all’Inghilterra di liberare facilmente la propria zona rossa mantenendo anche il possesso nella successiva azione.

In una partita dove l’Italia è riuscita a mantenere il possesso per il 52% del tempo e che riusciva a mantenersi in partita solo quando aveva il pallone tra le mani, è palesemente di importanza capitale non concedere calci di punizione gratuiti che regalano l’ovale all’avversario.

Un altro dettaglio sul quale lavorare è la cosiddetta exit strategy, il meccanismo pianificato con il quale una squadra vuole uscire dai propri ventidue metri, dove è troppo rischioso provare a giocare.

La terza meta dell’Inghilterra arriva immediatamente dopo che l’Italia era tornata in partita con la meta di Benvenuti. Prima Allan si fa deflettere un calcio di liberazione sui 10 metri, poi Negri, nella fase immediatamente precedente alla eventuale liberazione dei propri 22, si fa strappare il pallone da Itoje, concedendo un possesso di recupero all’Inghilterra che si rivelerà di lì a breve letale.

L’Italia ha peccato in questo particolare aspetto soprattutto in conseguenza dei calci d’inizio. Nel finale di primo tempo, dopo il 17 a 10 firmato da Allan, il calcio d’inizio viene rubato dagli inglesi, che così possono provare a giocare l’ultimo pallone al posto di una squadra azzurra che in quel momento aveva messo alle corde gli avversari.

Nel secondo tempo, poi, subito dopo la propria marcatura, Bellini riceve il calcio d’inizio nei propri ventidue e, giunto a contatto, prova un difficilissimo offload verso Boni, che risulta in una palla persa e una mischia a favore dell’Inghilterra in zona d’attacco, proprio quando era essenziale che l’Italia fosse la prima a mettere nuovamente punti sul tabellone per riaprire l’incontro.

Liberarsi della pressione e non consentire un’altrettanto serena liberazione sono quindi due punti su cui sarà necessario lavorare da subito per la prossima partita che aspetta gli Azzurri sabato prossimo all’Aviva Stadium di Dublino, dove li aspetta un’Irlanda che deve fare risultato e mostrare soprattutto un piglio più brillante rispetto a quello dello Stade de France. Una sfida forse ancora più dura di quella dell’Olimpico.

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