Le vignette di satira politica sono una cosa per cui vale quasi la pena morire

Monica Cainarca
5 min readJan 8, 2015

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Un evento come il massacro di ieri alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi, in cui sono morti almeno dieci collaboratori, tra cui quattro vignettisti, oltre a due poliziotti, suscita così tante reazioni che è difficile riassumerle.

Ma se hai un rapporto personale con l’evento, viene prima di tutto.

E io ce l’ho avuto.

Ho incontrato un gruppo di vignettisti del Charlie Hebdo, tra cui una delle vittime, pochi anni fa in Francia, al Festival internazionale del fumetto di Angoulême, il più grande raduno di fumettisti e di appassionati di fumetti in tutto il mondo. Mi avevano cercato, in parte come fan del mio lavoro – per qualche motivo, le mie vignette sembrano riscuotere un discreto successo anche all’estero – e perché sono un fumettista americano che parla francese. Abbiamo fatto quello che fanno i vignettisti: ci siamo ubriacati, ci siamo lamentati dei nostri redattori e ci siamo scambiati segreti commerciali, compreso quanto ci pagavano.

Se vivessi in Francia, è lì che vorrei lavorare.

I miei colleghi francesi mi avevano colpito come più sicuri di sé e più spavaldi rispetto al vignettista medio americano. A differenza del vecchio e venerabile Le Canard Enchainée, sono le vignette piuttosto che i testi a costituire il fulcro del Charlie Hebdo. Il giornale ha avuto vari problemi finanziari nel corso degli anni, ma in qualche modo i francesi hanno continuato a tenerlo a galla perché amano i fumetti.

Ecco quanto la Francia apprezza le vignette satiriche:

Più vignettisti politici a tempo pieno sono stati uccisi ieri a Parigi di quanti lavorano per i giornali negli stati della California, del Texas e di New York insieme.

Più vignettisti a tempo pieno sono stati uccisi ieri a Parigi di quanti lavorano per tutti i giornali e siti web americani insieme.

Gli artisti del Charlie Hebdo sapevano che stavano lavorando in un luogo che non solo permette loro di osare e spingersi oltre i limiti, ma lo incoraggia. Che diamine, non hanno smorzato i toni nemmeno dopo che il loro ufficio era stato bombardato.

Non erano pagati molto, ma si divertivano. L’ultima volta che ho incontrato giornalisti della carta stampata con un approccio così punk rock come quei ragazzi, erano quelli che lavoravano alla vecchia rivista Spy.

Sicuramente vorrebbero che quella grinta sopravvivesse persino a loro.

E ora arriva la reazione “grazie a Dio non è successo a me”.

Ogni vignettista politico riceve minacce. Dopo l’11 settembre in particolare, c’è stata gente che ha giurato di farmi saltare per aria con una bomba, tagliare la gola a ogni mio familiare, stuprarmi e privarmi di uno stipendio organizzando boicottaggi discutibili. (L’ultima cosa ha quasi funzionato)

La minaccia più agghiacciante è arrivata da un poliziotto di New York, un sergente, che è stato così imprudente e/o indifferente all’idea di finire nei pasticci che non ha nemmeno disattivato il numero del chiamante.

Ma chi avrei potuto chiamare per lamentarmi? I poliziotti?

A quanto ne so, nessun vignettista politico è mai stato assassinato in reazione ai contenuti del suo lavoro negli Stati Uniti, ma c’è una prima volta per tutto. Vari vignettisti politici sono stati uccisi o brutalmente picchiati in altri Paesi. Qui negli Stati Uniti, l’omicidio del conduttore di un talkshow radiofonico senza peli sulla lingua ci ricorda che l’omicidio per motivi politici non è qualcosa che avviene solo in altre parti del mondo.

Ogni vignettista politico si assume un certo grado di rischio per esercitare la libertà di espressione.

Sappiamo che il nostro lavoro, sfrontato e polemico com’è, fa arrabbiare molta gente, e sappiamo che viviamo in una nazione dove molta gente possiede un’arma. Che lavori nella sede di un giornale presidiata da una guardia di sicurezza pagata il minimo sindacale o, come avviene sempre più spesso, da casa tua, sei sempre a distanza di grilletto dalla morte quando premi “invio” per mandare la tua vignetta al tuo editore o pubblicarla sul tuo blog.

E qui torno sulla mia reazione più ampia all’orrore di ieri:

Le vignette hanno una potenza incredibile.

Non per sminuire la scrittura (anche perché io stesso scrivo molto), ma le vignette suscitano molte più reazioni dai lettori, sia in senso positivo che negativo, rispetto alla prosa. I siti web che pubblicano vignette, soprattutto vignette politiche, restano costantemente stupiti dal traffico in più che attirano rispetto alle parole. Sono stato licenziato due volte perché le mie vignette erano lette da troppa gente: i direttori dei giornali erano preoccupati che le vignette potessero mettere in ombra gli altri contenuti.

Gli accademici che hanno studiato la forma espressiva delle vignette hanno cercato di spiegare in maniera più eloquente che cosa esattamente le renda così efficaci nel suscitare una reazione emotiva, ma in sostanza credo sia il fatto che una forma artistica in apparenza così semplice possa avere un impatto così forte. In particolare per il formato delle vignette politiche, bastano un po’ di ordinaria capacità artistica e un paio di battute taglienti a portare un lettore a mettere in discussione le proprie convinzioni politiche, il proprio patriottismo o persino la propria fede in Dio.

È una cosa che manda in bestia certa gente.

Pensate al furore degli uomini armati che ieri hanno preso d’assalto la sede del Charlie Hebdo, e degli uomini che hanno dato loro l’ordine di farlo. È troppo presto per dirlo con certezza, ma pare proprio che siano stati estremisti islamici. Vorrei far loro una domanda: quanto è scarsa la vostra fede, quanto patetici siete come musulmani per ridurvi all’assassinio di persone innocenti, per dell’inchiostro messo su carta e colorato con Photoshop? In un certo senso, quegli uomini sono stati vittime della sindrome da squilibrio mentale provocato da vignette, lo stesso disturbo che ha portato agli attacchi alle ambasciate per le vignette danesi su Maometto, l’indignazione a più riprese per le copertine insipide eppure controverse del The New Yorker, e quel sergente della NYPD di Brooklyn che mi ha chiamato dopo aver visto la mia vignetta che criticava l’intervento militare in Iraq.

Le vignette politiche negli Stati Uniti non godono di grande rispetto. Ci stavo pensando stamane quando ho sentito Eleanor Beardsley in un programma della NPR definire il Charlie Hebdo “volgare” e “di cattivo gusto”. (Ma meno male, verrebbe da dire! Se è di buon gusto, non è satira.) È una cosa tremenda da dire, oltre che scorretta, con i corpi delle vittime ancora caldi. Ma le vittime erano vignettisti e perciò non meritano lo stesso livello di decenza che un evento simile meriterebbe se fosse accaduto, per dire, alla rivista satirica americana The Onion , che pubblica soprattutto testi, non vignette.

Ma non importa. Le vignette politiche non faranno guadagnare bene (e a volte non fanno guadagnare nemmeno un dollaro), e le élite dei media possono anche continuare a ignorarle, tutto questo non importa. Ma le vignette, sì, quelle sono importanti.

Quasi tanto importanti da morire.

Scritto per il Los Angeles Times.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia