Un paio di scarpe nella strada di fronte al Bataclan, Parigi, 14 Novembre 2015. Reuters/Charles Paltiau

Il mio giorno a Parigi

Dopo gli attentati del 13 novembre: “La voglia di normalità di una città più grande di me”

4 min readNov 14, 2015

--

di Stefano Pace

Vado a prendere un caffè? Non posso stare tutto il giorno chiuso dietro una porta che scricchiola troppo, davanti a uno schermo di un computer che butta fuori notizie che sento di dover leggere, ma che non vorrei leggere.

Sì, vado a prendere un caffè in Rue la Fayette.

Sì, magari prendo una boccata d’aria e una boccata di normalità. Cosa mi aspetta fuori da quella porta scricchiolante? Sono lontano da dove sono avvenuti i fatti di ieri notte, ma cosa significa lontano o vicino quando si perde il senso di ciò che è normale? Cosa significa normale quando sei lontano da casa e non hai i tuoi comuni riferimenti?

Aspetto un altro attimo, magari la BBC ha una ennesima breaking news che non posso perdere per tenermi aggiornato. No, meglio andare a prendere un caffè. Un normale caffè.

Parigi, 14 Novembre 2015 / Reuters

La ragazza che mi serve il caffè mi sorride, come probabilmente farebbe in un giorno qualsiasi con un qualsiasi avventore. Sono io che sorrido diversamente. Io le sorrido più forte. E dopo quel sorriso, mi sento più forte. Non è il caffè, è un piccolo indizio di normalità. Col mio francese le dico che aggiungo un po’ di zucchero al caffè, perché questa giornata ha bisogno di douceur. Forse non comprende il mio misero tentativo di incoraggiare tutta una città. Forse il mio francese non è chiaro come spero. Ma è uno scambio in cui, pur non essendo un locale, cerco di aggiungere una rassicurante quotidianità a quel caffè.

Parigi, 14 Novembre 2015, foto di Stefano Pace

Dopo il caffè, provo a fare un’altra cosa normale: passeggiare. Cerco in ogni volto un volto rassicurante. Una piccola parte di me cerca invece nelle strade ogni sintomo di qualcosa che non sia normalità e che possa magari scalare fino a diventare allarme. Vedo visi comuni, con espressioni quotidiane. Visi francesi, visi cinesi, visi indiani; accigliati o sorridenti, preoccupati (ma chissà da cosa) o indifferenti al mondo, che litigano o si baciano. Cerco segni di normalità in ogni ruga che incontro. Tutto mi sembra come dovrebbe essere se abitassi lì da anni e se fossi in grado di riconoscere i segni indelebili della familiarità. Ma il dubbio sorge: non so bene se in quelle vie, il sabato mattina, è normale che sia così. Troppi negozi chiusi o è normale che lo siano al sabato? Quei ragazzi vanno in bici ogni sabato oppure lo fanno oggi per distrarsi? Cerco una normalità senza avere una pietra di paragone con la quale misurarla. E allora, a tratti, tutto ridiventa in qualche modo eccezionale, tutto si trasforma in qualcosa di tranquillamente sospetto. Passa quel momento di vago senso di allarme e di nuovo sto passeggiando. Normalmente.

In questo andare e venire fra senso di quotidianità ed eco delle notizie della notte, continuo la mia breve passeggiata per le strade di una città nella quale cerco (o forse impongo) segni di consuetudini che non conosco bene, ma che desidero che rimangano intoccate. Mentre passeggio, mi accorgo che sto facendo un piccolo omaggio — misero e inutile, ma sentito — a tutti coloro che vivono qui, in una città più grande di me: Parigi.

Parigi, 14 Novembre 2015, foto di Stefano Pace

--

--

Kedge Business School (assoc. prof.) | Bocconi University (adj. pr.) | Mktg/Consumer Culture | All views are my own | RT≠endorsement