The Aftershocks

Sette fra i migliori scienziati italiani sono stati condannati per omicidio colposo a seguito di un terremoto catastrofico. Il paese ha criminalizzato la scienza?

Loremann
25 min readSep 30, 2014

David Wolman
Animazione di Rebecca Mock
Traduzione di Alessandro Amato

Giulio Selvaggi dormiva quando la terra ha iniziato a tremare. Era la notte del 5 Aprile 2009, il direttore del Centro Nazionale Terremoti aveva lavorato fino a tardi prima di andare a casa.

Dal modo in cui si muoveva il letto Selvaggi capì che il terremoto era forte, ma non vicino. Quando sei vicino all’epicentro di un forte terremoto è come essere un chicco di granoturco nella macchina dei popcorn. Quando sei lontano, il movimento è lento e regolare, vai avanti e indietro al passaggio delle onde sismiche.

Selvaggi saltò giù dal letto, controllò il suo telefono senza trovare alcun messaggio. Andò in fretta in salotto per chiamare la Sala Sismica.

“Dove è stato?” chiese.

“L’Aquila, 5.8” fu la risposta.

(Più tardi sarà classificato 6.2)

Il primo pensiero di Selvaggi fu: almeno non è un 7. Un terremoto di magnitudo 7, localizzato a L’Aquila, città medioevale tra le montagne, avrebbe ucciso 10.000 persone.

Ad un centinaio di chilometri da Roma, Giustino Parisse era già stato svegliato due volte dalle scosse. La seconda, alle 00:39 aveva agitato tutta la famiglia. Nel giro di controllo della casa Parisse, cinquantenne giornalista del quotidiano Il Centro, incontrò suo figlio adolescente nel corridoio.

“Questo terremoto ci ha rotto” disse irrequieto Domenico, 17 anni. Questo terremoto ci sta rompendo le balle.

“Lo so, lo so” rispose Parisse. “Però domani devi andare a scuola. Ora davvero devi tornare a letto”.

Accese la luce per dare un’occhiata nella stanza della figlia Maria Paola, 15 anni. Era sveglia anche lei.

“Qui moriremo tutti”, concluse la ragazza.

Spaventato Parisse cercò di scherzare. “Niente potrà mai uccidere te”, disse dirigendosi verso il letto.

Tre ore più tardi, Parisse e sua moglie vennero svegliati da una valanga di intonaco e mattoni. Inerpicandosi sulle macerie, si fecero strada verso il corridoio facendo luce con il cellulare, cercando di raggiungere i ragazzi. Ma era troppo tardi: Domenico e Maria Paola erano sotterrati, morti.

I 28 secondi di durata del terremoto hanno demolito centinaia di edifici a L’Aquila. Quando lo scuotimento fu finito, 297 persone erano state uccise, più di un migliaio ferite e decine di migliaia rimaste senza casa.

Durante l’inverno e l’inizio della primavera del 2009, Selvaggi e altri sismologi dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia avevano registrato numerosi eventi nei dintorni di L’Aquila. Una sequenza di piccoli terremoti in un breve periodo di tempo viene chiamato sciame sismico ed è diverso dalle scosse che seguono un forte terremoto.

In regioni come L’Aquila le sequenze non sono necessariamente anomali. I media locali trasmettevano con continuità questo generico messaggio. Gli ufficiali governativi regionali insistevano nel dire che non era necessario allarmarsi, a dispetto della cronica mancanza di applicazione delle norme tecniche antisismiche sugli edifici aquilani. Il Dipartimento di Protezione Civile della Regione Abruzzo rilasciò perfino un comunicato stampa proclamando categoricamente che non si sarebbero verificati forti terremoti.

Ma la gente a L’Aquila era comprensibilmente preoccupata. Nel corso dei secoli la città era stata devastata da diversi forti terremoti. Quello del 1703 uccise 10.000 persone, nel 1915 un magnitudo 7.0 ne uccise 30.000. La storia di questa regione ha dato vita alla cultura della cautela. Quando il suolo sembra particolarmente instabile, molti residenti – come i genitori e i nonni prima di loro – hanno l’abitudine di prendere coperte e sigarette e dirigersi verso una vicina piazza, o un giardino, per passare la notte. Altri dormono nelle automobili. Meglio non rimanere in un edificio antico che non è stato reso sicuro.

Lo sciame continuava e l’inquietudine della gente veniva aggravata da un personaggio del luogo di nome Giampaolo Giuliani. Giampaolo utilizzava un apparato fatto in casa nel tentativo di prevedere terremoti imminenti. Le sue proclamazioni — e l’amplificazione creata dall’interesse dei media verso queste proclamazioni – gli fecero guadagnare una reputazione nella cittadina abruzzese. Durante la messa a Santa Maria del Soccorso o nel bere un aperitivo al Bar Belvedere, veniva spesso salutato con un “Buongiorno, tutto a posto?”. Un quotidiano locale si riferiva a lui come “il profeta funesto”, e in quell’inverno, ogni volta che la terra tremava, sembrava confermarsi l’incessante ansia di Giuliani.

Alla fine di marzo erano state registrate migliaia di piccole scosse, una dozzina di queste aveva raggiunto magnitudo 3.5 della scala Richter. A quel punto, il 30 marzo, una scossa 4.0 fa precipitare la situazione, da tensione a quasi follia. Il Dipartimento della Protezione Civile Nazionale avverte la necessità di un gesto che possa calmare i nervi della gente e decide di convocare i maggiori esperti italiani, la Commissione Grandi Rischi, per valutare la situazione. Selvaggi, sismologo della sede romana INGV, non era membro della commissione. Lo era il suo capo, Enzo Boschi. Figura titanica nella comunità scientifica italiana, Boschi chiese a Selvaggi di accompagnarlo e di parlare con gli altri componenti della Commissione.

Giulio Selvaggi

Qualche giorno prima della riunione, il capo della Protezione Civile Italiana, Guido Bertolaso, chiamò al telefono l’ufficio regionale di Protezione Civile abruzzese. Secondo la trascrizione, che molto tempo dopo fu resa nota alla stampa, Bertolaso disse che l’obiettivo dell’incontro era “azzittire i deficienti e tranquillizzare la gente”.

Era particolarmente seccato del fatto che l’ufficio regionale avesse tentato di contrastare le affermazioni di Giuliani con una replica priva di senso: “non ci saranno più terremoti”.

“Non raccontare che ‘Non sono previsti più terremoti’. Sono cazzate che non si dicono” disse Bertolaso. “Non puoi dire una cosa del genere quando parli di terremoti… nemmeno sotto tortura.”

Piuttosto, spiegò che voleva fare “un’operazione mediatica”. Devi solo aspettare: stanno per venire a L’Aquila i luminari della sismologia. Rimetteranno a posto questo casino.

La riunione, a cui parteciparono sette esperti, compresi Selvaggi e Boschi, e una manciata di pubblici ufficiali locali, durò soltanto un’ora e mezza. La conclusione fu: un terremoto molto forte nel breve termine è improbabile. Ma ricordate che questa è una regione sismica, non si sa mai. Le parole di Boschi durante la riunione si riveleranno cruciali. “Un forte terremoto sulla faglia dell’evento del 1703 è improbabile nel breve termine”, disse Boschi, “ma è una possibilità che non si può escludere”.

La responsabile dell’ufficio di Protezione Civile abruzzese tornò sulla questione della previsione ancora una volta. “Vogliamo sapere se dobbiamo credere a quelle persone che vanno in giro a creare allarme”. Lei si riferiva all’auto-proclamato esperto Giuliani. Queste affermazioni non hanno alcuna fondatezza scientifica, rispose il presidente della Commissione Franco Barberi. “La sequenza sismica non preannuncia nulla, ma sicuramente riporta l’attenzione sul fatto che è una regione sismogenetica dove, prima o poi, un terremoto forte accadrà”. La sola cosa da fare, per proteggere le persone in una zona come questa, le ricordò Barberi, è accertarsi che le strutture siano sicure. Gli scienziati e gli ingegneri lo ripetono come un rosario: non è il terremoto che uccide, ma quello che l’uomo costruisce.

Gli abitanti della città appresero le valutazioni fatte durante la riunione attraverso pillole giornalistiche, incluso un ritaglio di intervista a Bernardo De Bernardinis, vice capo Dipartimento Protezione Civile Nazionale, la cui formazione universitaria non è in sismologia ma ingegneria idraulica. L’intervista venne registrata prima della riunione ma trasmessa dopo, dando la falsa impressione che questa riassumesse le conclusioni della riunione. Lo sciame è il segnale che sta per accadere qualcosa di più grave? “Al contrario”, disse De Bernardinis. “La comunità scientifica mi assicura che la situazione è positiva perché c’è un continuo scarico di energia”.

Si tratta di un’affermazione totalmente errata. I piani di faglia non sono valvole di pressione, i piccoli terremoti non necessariamente rilasciano l’energia che avrebbe potuto contribuire ad un terremoto più forte. Tutti i sismologi sono di fatto d’accordo che non esista una correlazione — né positiva né negativa – tra l’accadimento di un terremoto debole e uno forte. Tuttavia, il giornalista televisivo trovò la risposta di De Bernardinis così soddisfacente che decise di concludere con una nota gioviale: “Allora possiamo andare a bere un bel bicchiere di vino?”. Oh sì, disse De Bernardinis, raccomandando un’annata del suo paese di origine.

Sei giorni dopo L’Aquila, e molte vite, furono distrutte.

Molte delle persone che erano a L’Aquila quella notte sono ossessionate dal suono del terremoto, un lugubre e inevitabile rimbombo che ti dà l’impressione che una forza soprannaturale gravi su di te. Altri ricordano la nuvola rossa che rapidamente ricoprì la città, creata dalle tegole rosse di terracotta che vibrando, caddero e si ruppero, così numerose da non potersi contare.

Quando la scossa si placò, i corpi vennero raccolti, le macerie rimosse e i sopravvissuti iniziarono ad accusare apertamente la Commissione. Sostenevano fermamente che la rassicurazione degli esperti li aveva convinti a rimanere in casa la notte del 5 aprile, anche dopo le due scosse, piuttosto che uscire e allontanarsi dalle case non sicure.

Giustino Parisse

Fra quanti criticarono la Commissione c’è Parisse, il giornalista che ha perso i suoi figli di 15 e 17 anni. “Come padre”, mi disse Parisse, “Fondamentalmente sono io che devo garantire la sicurezza dei miei figli”. Questo però non annulla quella che lui vede come una mancanza di responsabilità da parte di scienziati e ingegneri. “Sono venuti a L’Aquila per rassicurare la gente, non per valutare il rischio”, dice Parisse.

Molti altri la pensarono allo stesso modo. In breve ebbe inizio l’azione legale intentata dagli aquilani con l’accusa agli scienziati di negligenza, nei compiti prescritti dalla legge, nel valutare il rischio e informare, al fine di minimizzare la perdita di vite umane e beni immobili. Parisse si unì alla causa. Essendo giornalista avrebbe potuto scrivere molti articoli, dice, ma il loro impatto sarebbe stato minimo e passeggero. “Con il sistema giudiziario, è possibile che la verità duri più a lungo”.

La primavera seguente i sette uomini – cinque membri della commissione, e due esperti, tra cui Selvaggi – furono indagati per omicidio colposo. L’accusa: durante la riunione del 31 marzo, e nelle affermazioni fatte in seguito, trascuravano consapevolmente la loro responsabilità di informare la popolazione sul rischio prossimo a venire.

L’annuncio del rinvio a giudizio scatenò un’onda di biasimo nel mondo. “Il rischio di controversia legale dissuaderà gli scienziati e i pubblici ufficiali dall’informare i loro governi o perfino dal lavorare nel campo della sismologia e della stima del rischio”, fu scritto in un editoriale della rivista dell’American Geophysical Union, Eos. L’amministratore delegato dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) scrisse al Presidente della Repubblica italiana per rammentare che una montagna di ricerca autentica, molta condotta da Italiani, dimostra che i terremoti non sono prevedibili.

Ma Fabio Picuti, il pubblico ministero, 45 anni , abruzzese, o era immune dallo sdegno generale o quasi ne traeva incitamento. Argomentò dicendo che chi non è aquilano non sa cosa è successo qui. Non sa dell’ordine di Bertolaso di fare “un’operazione mediatica”. Non può comprendere il forte impatto del commento di De Bernardinis sullo “scarico di energia”. Non conoscono le nostre usanze, la nostra umiltà nei confronti della forza distruttiva di Madre Natura.

Come disse lui stesso: “Per i media, la cosa più facile è dire che la scienza è sotto processo”.

Il tribunale di L’Aquila è stato talmente danneggiato dal terremoto che il processo fu tenuto in un complesso di prefabbricati nella zona industriale della città. Era l’estate del 2011. Sul cancello esterno del tribunale qualcuno aveva affisso un manifesto: “Punire quelli che hanno ucciso i nostri bambini non è vendetta. È un modo per farli morire un po’ meno”.

Picuti per il processo contro gli scienziati costruì un modello: i residenti si trattennero dall’abitudine a fuggire dalle loro case, durante una scossa, a causa di un messaggio eccessivamente tranquillizzante da parte della illustre Commissione. Si trattò di una “rassicurazione disastrosa”, come a Picuti piace chiamarla.

Il processo fu impegnato a lungo con le testimonianze dei feriti e dei parenti delle vittime. I testimoni hanno raccontato di parenti abituati a tenere vicino alla porta coperte e biscotti, pronti ad afferrarli uscendo di casa durante una scossa, che invece avevano deciso di non uscire dopo aver visto l’intervista di De Bernardinis in TV. Fra le testimonianze c’è la storia di un uomo, la cui famiglia da tempo credeva che le scosse fossero seguite da “repliche” più forti, che utilizzò la dichiarazione degli esperti per convincere la moglie, incinta, che non era necessario uscire quella notte. Morirono tutti, anche il primo figlio della coppia, quando la casa crollò. Un’altra testimonianza raccontò dello studente universitario schiacciato dalle macerie sebbene i suoi amici, una settimana prima, si fossero informati sulla stabilità sismica della casa dello studente. Il responsabile dell’edificio gli aveva detto di non preoccuparsi.

Assemblare queste testimonianze è stato essenziale per Picuti come argomento per sostenere l’accusa di omicidio colposo. Ha assunto che la morte delle persone fu causata dalle parole che gli scienziati e gli ingegneri dissero e non dissero. Ha selezionato affermazioni e ritagli dalle riviste scientifiche per provare che gli scienziati sapevano, quasi certamente, che ci sarebbe stato un evento più intenso. Naturalmente non potevano sapere con esattezza la data e l’ora, dice Picuti. Ma hanno deliberatamente soffocato la discussione sul rischio con l’intento di rassicurare.

Judge Marco Billi speaks during the trial. (Tiziana Fabi/AFP/Getty Images)

Durante i 13 mesi di durata del processo, la prospettiva di essere giudicati colpevoli suonava assurda ai sette indiziati. Non che non prendessero in considerazione, con la dovuta gravità, la faccenda, perché molte persone erano morte. Ma l’idea che fossero colpevoli di negligenza – di omicidio colposo – sfuggiva alla ragione. “Nessuno crede realmente che io possa essere così stupido da andare nella regione italiana più attiva sismicamente e dire alla gente ‘Non vi preoccupate’,” mi disse Boschi.

Picuti, abilmente, utilizzò contro gli scienziati il loro stesso lavoro. Mostrò al giudice la mappa di pericolosità sismica dell’Italia prodotta dall’INGV, a cui Boschi e Selvaggi avevano lavorato. Utilizzando una scala di colori dal rosso scuro (rischio maggiore) al verde pallido (rischio minore), la mappa mostra la probabilità di terremoto forte nei prossimi 50 anni.

A prima vista, due aree appaiono categoricamente pericolose: una nell’estremo sud della penisola, l’altra, a forma di cuneo, copre chiaramente L’Aquila. Picuti mise in contrasto il livello di rischio descritto dalla mappa con l’affermazione “improbabile” di Boschi.

Quando chiesi a Picuti della mappa, della sua estensione temporale lunga 50 anni, del fatto che il rischio, giorno per giorno, di un terremoto forte rimane basso anche nelle aree colorate del rosso più intenso, tagliò corto. “La gente sente ‘basso’ o ‘improbabile’ e pensa: basso”. Picuti disse al giudice che quello che i cittadini avrebbero dovuto sentire è quello che dice la mappa: il più alto.

Ma il colpo da maestro Picuti lo assestò sventolando un articolo accademico del 1995 dal titolo “Forecasting When Larger Crustal Earthquakes Are Likely to Occur in Italy in the Near Future”. Utilizzando registrazioni storiche, evidenze geologiche, e i migliori dati sismici disponibili al tempo, i sismologi, autori dell’articolo, tentarono di fare una previsione dei terremoti per diverse aree italiane, su intervalli di tempo di 5, 20 e 100 anni. Secondo questo modello, la probabilità che L’Aquila venisse colpita da un forte terremoto all’interno di tutti gli intervalli risultò 1. Attenzione, non è un errore di stampa. Il modello prevedeva un forte terremoto a L’Aquila con il cento per cento di probabilità.

E chi era il primo autore di questo articolo? Enzo Boschi.

Per enfatizzare questo aspetto, Picuti chiamò a testimoniare un altro sismologo INGV. Ma questo sismologo, dopo aver riassunto quanto Boschi e i suoi colleghi avevano scritto nell’articolo, sorprese Picuti spiegandogli che il modello era, semplicemente, sbagliato.

Un calcolo che produce il 100 per cento di probabilità di accadimento di un terremoto nei successivi cinque anni, deve necessariamente dare la stessa previsione per 20 o 100 anni. Tuttavia, nessun evento forte ebbe luogo durante la prima finestra temporale di 5 anni. Il non-accadimento del terremoto non significa che nel sesto anno c’è da aspettarsi l’evento, o che, a causa del ritardo, nel settimo anno sicuramente il terremoto arriverà. Significa solo che il modello è sbagliato. Addirittura, Boschi e i suoi co-autori nello stesso articolo avevano segnalato questa possibilità come conclusione.

Mentre Selvaggi ascoltava lo svolgersi della testimonianza, non poté fare a meno di sentirsi fiducioso. Picuti aveva condotto alla dimostrazione che la previsione dei terremoti non è possibile e invitato uno scienziato con alte credenziali a tenere una lezione sulla probabilità e il metodo scientifico ad un pubblico che evidentemente ne aveva bisogno.

Ma Selvaggi era stato troppo ottimista. Il 22 ottobre 2012 il giudice Marco Billi, un uomo atletico di 43 anni, capelli neri, taglio corto, camminò verso il centro dell’improvvisata aula di tribunale. Occhi bassi, lesse il verdetto con tono uniforme, appena udibile. Per aver rilasciato “informazioni inesatte, incomplete e contraddittorie” gli scienziati e gli ingegneri furono dichiarati colpevoli di omicidio colposo. Ognuno di loro venne condannato a sei anni di reclusione, in attesa dell’appello.

Per l’impostazione di Billi, chi partecipò alla riunione nel 2009 fu responsabile della morte di 29 persone. Non di tutte le vittime – solo di quelle per le quali Picuti poté dimostrare che avevano la consuetudine di allontanarsi dalle loro case quando avveniva un terremoto. La scienza alla base dell’articolo di Boschi del 1995 non è stata di alcun interesse per Billi. Come mi disse tempo dopo: “Non abbiamo guardato ai dettagli del modello. Abbiamo soltanto guardato cosa ha scritto Boschi – ovvero, che c’era una probabilità pari a 1 che a L’Aquila avvenisse un forte terremoto. Tutto qui. Sono le parole di Boschi!”.

Questo atteggiamento mentale fa infuriare Boschi. Non solo perché quel vecchio modello è sbagliato, ma anche per il fatto che Picuti non riesce a capire le probabilità di salvare la sua stessa vita. E per la sconcertante logica contorta di Billi. Ma, prima di tutto, perché non dovremmo essere qui a parlare di ricerca e articoli scientifici, il cui obiettivo è condividere, in modo che altri scienziati possano confutare o perfezionare i risultati. “Sono pronto ad andare in prigione per questo”, tuona Boschi. “Uno scienziato può scrivere qualunque sua opinione su un articolo scientifico e su questo deve essere vietato l’intervento di un giudice”.

Perfino nel paese di Berlusconi e del circo giudiziario di casi come quello di Amanda Knox, condannare un gruppo di sismologi sulla scia di un disastro naturale segna un nuovo record negativo. Cosa direbbe Galileo? Quanto è accaduto a L’Aquila ci da una visione di quello che pensiamo del rischio, come lo comunichiamo, come ci conviviamo, degli ostacoli che ci impediscono di ragionare con chiarezza a cui tutti noi siamo soggetti.

Nell’inverno 1951, un gruppo di analisti della CIA consegnò il rapporto NIE 29–51. Il suo scopo era valutare se i Sovietici avrebbero invaso la Yugoslavia. Le ultime righe del rapporto dicono: “Sebbene sia impossibile determinare quale strada è probabile che prenderà il Kremlino, noi riteniamo… che un attacco alla Yugoslavia nel 1951 dovrebbe essere considerato come una seria possibilità”. Una volta completato, il rapporto prese la sua strada nella macchina burocratica.

Qualche giorno dopo, un ufficiale del Dipartimento di Stato si incontrò con il servizio di intelligence a cui faceva capo il gruppo che aveva scritto il rapporto. Cosa significava seria possibilità? L’uomo della CIA, Sherman Kent, riteneva che forse c’era un 65 per cento di possibilità di invasione. Ma la domanda di per sé lo metteva in difficoltà. Lui sapeva cosa, per lui, significasse seria possibilità, ma, chiaramente, per persone diverse significava cose diverse. Decise di fare un’indagine tra i suoi colleghi.

Il risultato fu uno shock. Qualcuno pensava significasse un 80 per cento di possibilità di invasione; altri leggevano il risultato come una possibilità bassa pari a circa il 20 per cento.

Anni dopo, Kent pubblicò un articolo sulla rivista Studies in Intelligence ed utilizzo il report sulla Yugoslavia per descrivere il problema dell’ambiguità, in particolare quando si parla di incertezze. Propose perfino un approccio standardizzato al linguaggio utilizzato per le analisi di rischio – “probabile” per indicare una confidenza pari al 75 percento, più o meno un 12 per cento, “non probabile” per un livello di confidenza del 30 percento, più o meno un 10 percento, e così via.

La matrice di Kent non prese mai piede, ma la necessità di precisi “termini per la probabilità stimata” è attuale oggi come lo era allora. Dopo il disastro dei servizi segreti che portò alla guerra in Iraq, per esempio, l’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale ha riadattato l’approccio di Kent con nuove indicazioni sul linguaggio delle stime. L’obiettivo era minimizzare la confusione tra informazione, probabilità e confidenza che aveva indotto gli Americani a preoccuparsi di armi di distruzione di massa immaginarie.

Allo stesso modo, dopo l’uragano Sandy, la National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) riconsiderò le conseguenze delle sue comunicazioni prima che la tempesta provocasse la frana. Secondo il sistema di classificazione del National Weather Service, Sandy da uragano divenne un ciclone post-tropicale. Questa terminologia può andar bene per i nerd e i lessicografi della meteorologia, ma per i media e i cittadini il cambio di nome servì solo a confondere, specialmente quando i giornalisti utilizzarono erroneamente la parola “declassato” per spiegare la variazione di classificazione.

Nel Maggio 2013 un controllo sulle prestazioni del NOAA sottolineò che l’agenzia doveva tenersi molto lontano dalle descrizioni astratte e fare, piuttosto, un uso migliore del linguaggio focalizzandosi sugli effetti: possibili inondazioni in questa area; ondate fino a questa o quell’altezza; vento abbastanza forte da abbattere un albero vecchio di 100 anni.

“Se qualcuno dice ‘improbabile’ di un terremoto, tu non sai davvero di cosa sta parlando”, dice Baruch Fischhoff, professore di Scienze Sociali e delle Decisioni presso la Carnegie Mellon University. È improbabile come avere i gemelli, o improbabile come vincere alla lotteria?

Questa confusione ha luogo in particolare quando si parla di potenziali effetti dovuti ai disastri naturali, perché eventi come i terremoti e gli uragani di Categoria 5 sono molto rari. Che conseguenze avrà un terremoto di magnitudo 6.2 per la tua vita, la tua strada, la scuola dei tuoi figli, le fondamenta della tua casa?

Il buon senso ci suggerisce che le persone sono terribilmente scarse con i numeri. Ma Kent aveva compreso già negli anni ’50 che siamo addirittura peggiori con le parole. Uno studio, di cui Fischhoff è stato co-autore, mostra che la gente ha problemi nel comprendere il 30 percento di probabilità di pioggia. Non era la probabilità che li faceva inciampare, ma la parola pioggia. Stiamo parlando di pioggerellina o di acquazzone? Tutta la giornata o solo una parte? E su quale area esattamente? (Comunicare le previsioni in italiano è perfino più impegnativo. In Inglese possiamo usare la parola forecast (n.d.t. pronostico) invece di previsione per dare l’idea dell’incertezza. In italiano esiste solo la parola previsione che ha una forte connotazione deterministica.)

La crudeltà divina di quanto è accaduto a L’Aquila è che quanto Boschi ha detto, che un terremoto forte era “improbabile”, è — e rimane — corretto. Il fatto è che quando uno scienziato di professione ascolta la parola improbabile sa che gli eventi rari accadono, quando un non-scienziato sente improbabile la prende come un’abbreviazione di non accadrà.

Eppure, perfino la più perfetta delle comunicazioni, scritta a regola d’arte, della Commissione Grandi Rischi non avrebbe raggiunto l’obiettivo. Non perché avrebbe fallito nel raggiungere le persone o sarebbe stata raccolta con sospetto, ma perché le probabilità fanno aggrovigliare le nostre menti.

Anche se riusciamo a comprendere il 30 percento di probabilità di pioggia, o la probabilità nell’immediato del lancio di una moneta, gli eventi a bassa probabilità sono differenti. Questi eventi hanno uno “sbalorditivo” effetto sulla gente, dice Howard Rachlin, professore emerito di psicologia alla Stony Brook University. Tendiamo a considerarli tutti alla stessa stregua: 1 su 10 000 suona sbalorditivo quanto 1 su 100 000. Per questo motivo la gente compra i biglietti della lotteria sebbene la probabilità di vincere sia minore in modo esorbitante di un evento come un forte terremoto in una regione sismicamente attiva.

“Tutte le probabilità basse sembrano uguali”, dice Rachlin.

Quando si tratta di vivere la nostra vita oggi o fare piani per la prossima settimana, e ci comportiamo come se la bassa probabilità sia essenzialmente zero, non è necessariamente un male. Altrimenti rimarremmo paralizzati.

Ma spalmiamo questa bassa probabilità nel tempo – che corrisponde al modo in cui viene calcolato il rischio per i terremoti – e la confusione con le probabilità basse si trasforma in una totale incomprensione. Se vivi in un luogo incline ai terremoti per 10.000 giorni, al passare del tempo la probabilità cumulativa diventa sempre più alta, avvicinandosi all’1 su 1. Le nostre menti, sfortunatamente, fanno fatica a star dietro a questi concetti.

“Non comprendiamo come questi piccoli elementi si sommino nel loro ripetersi, dice Fischhoff. Studio dopo studio – guardando nei diversi ambiti, rapporti sessuali non sicuri, guida senza cintura di sicurezza, alluvioni, terremoti – sottostimiamo questi effetti cumulativi. E’ una di quelle mancanze cognitive che ha bisogno di essere definita con un nome. Forse dovrebbe essere chiamata qualcosa tipo cecità rischio-temporale.

Quanto dovremmo essere allertati dall’influenza di questi luoghi ciechi? Quando non esistono paletti – in una riunione dove si discuta di come commercializzare casseruole, per dire – non c’è ragione di stare in guardia per le distorsioni che possano fuorviare i nostri pensieri. Ma quando i paletti sono molti, dice Fischhoff, come quando si comunica il rischio sismico, “ è un dovere verso la popolazione comprendere che senso ha ogni specifico limite e come possiamo superarlo”.

Questo è il punto dove gli scienziati e gli ingegneri della Commissione Grandi Rischi hanno commesso un errore, anche se non se ne sono resi conto. Non avevano la percezione di come le loro parole sarebbero state interpretate. Erano abituati a riunioni a porte chiuse ed inoltre il mandato della Commissione era informare il Dipartimento di Protezione Civile, non i cittadini. Ma una volta che i microfoni e le videocamere furono introdotte nel calderone, ogni cosa cambiò: diventarono comunicatori del rischio, e il fatto che ne fossero o meno consapevoli, o cosa abbiano pensato in merito, diventò irrilevante. (Sfortunatamente, dice Fischhoff, un risultato certo nelle scienze sociali è che “per quanto si riesca a comunicare bene, le persone tendono ad esagerare”).

E comunque dovevano parlare. Qualcuno doveva farlo. Se non lo avessero fatto, non ci sarebbe stato un contro-messaggio alla falsa informazione che stava infettando la comunità, per merito di un personaggio che dava impulso al panico.

Ogni paio di giorni, durante l’inverno e la primavera del 2009, Giampaolo Giuliani parcheggiava la sua Audi 80S, grigia, del ’96, sul lato di una stradina di Coppito, piccolo paese appena fuori L’Aquila, e si affrettava ad entrare nella sua bottega. Oltrepassata l’accozzaglia di vecchie tastiere, scatole di cavi e spaghi, scaffali pieni di pezzi di schede madri e un casuale assortimento di parti elettroniche in vendita, scendeva per una scala di pietra nel suo “laboratorio”.

Il suo sismometro, alto circa 50 centimetri, stava in un angolo della stanza, in un’area delimitata da quattro sedie di legno. Nella parte opposta del locale c’erano una postazione di lavoro, collegata ad uno schermo obsoleto, un quaderno di appunti scarabocchiati e un grosso libro dal titolo Costruzioni di Apparecchiature Elettroniche Nucleari. Sul pavimento, a destra della postazione di lavoro, una grossa scatola nera. Grande due volte una scatola di scarpe, fatta di piombo e, come afferma Giuliani, più sensibile di equivalenti apparecchi utilizzati dagli scienziati in giro per il mondo.

Giuliani, 67 anni, gran tosse da fumatore, grandi occhi tristi. Diversamente dalle folli idee brandite dagli indovini a proposito di cristalli o di segni dello zodiaco, le sue teorie sono sostenute dalla logica. I terremoti coinvolgono colossali quantità di energia. Con tali gigantesche forze in gioco, è plausibile che ci possa essere una connessione tra forte attività sismica e variazioni misurabili di gas, che si infiltra nella crosta dal basso verso l’alto. Immaginatelo come un’allerta geochimica. Giuliani ha concentrato l’attenzione sul radon, un gas pesante, radioattivo che esiste in alte concentrazioni sulle faglie geologiche.

I sismologi hanno studiato minuziosamente il radon per oltre una generazione, per verificare se i livelli di variazione potessero indicare l‘arrivo di un terremoto, senza trovare nulla. Susan Hough, sismologa presso il Southern California Earthquake Center (Centro Terremoti della California Meridionale), autrice di Prevedere l’imprevedibile: la tumultuosa scienza della previsione dei terremoti, riassume così la questione: “non esiste una evidenza, statisticamente significativa, per definire una relazione tra anomalie di radon e terremoti”.

Questo non ha impedito a Giuliani di diventare, per i media, una fonte a cui rivolgersi in merito all’attività sismica a L’Aquila. Durante i mesi tesi di durata dello sciame sismico, il suo inquietante messaggio aiutava i media locali ad iniettare tensione nelle righe riservate ai terremoti. “Ho dato il mio numero di telefono a poche persone, ma nel giro di qualche mese mi sembrava che ce lo avesse tutta l’Italia” dice Giuliani. Il suo lavoro come tecnico, in un vicino centro di ricerca, sulla fisica delle particelle e l’astrofisica nucleare ha dato ai suoi pronunciamenti una vena di credibilità istituzionale. Tecnico, fisico, scienziato – comunque sia. Perfino The New York Times lo avrebbe citato come sismologo.

Giampaolo Giuliani

Il 29 marzo 2009 la città di Sulmona, circa 50 chilometri da L’Aquila, fu scossa da un evento di magnitudo 3.9. Giuliani scrisse, sul suo sito web, che a questo evento ne sarebbe seguito uno più forte, uno o due giorni più tardi. In assenza di altre informazioni, molti residenti di Sulmona scelsero di evacuare.

Quel terremoto non arrivò mai. Fu una buona notizia per i cittadini ma i pubblici ufficiali locali non furono contenti del comportamento di Giuliani. Gli fu recapitata una diffida per procurato allarme alla popolazione.

Giuliani non ha mai previsto il mortale terremoto a L’Aquila, malgrado le sue continue dichiarazioni. In realtà, l’informatore segreto di terremoti non fece niente altro che generare chiacchiere sul pericolo di terremoto in un’area sismicamente attiva, in un momento in cui il terreno spesso tremava e i nervi dei residenti erano logorati.

Di recente ho scritto una e-mail a Susan Hough chiedendole cosa avrebbe detto a Giuliani se si fosse trovata con lui in una discussione. “Sinceramente, dovrei reprimere l’inclinazione a dargli un ceffone”, rispose.

Gli scienziati e i pubblici ufficiali convocati alla, ormai famigerata, riunione a L’Aquila, disse la Hough, “non fecero le loro affermazioni in un ambiente asettico, al contrario rispondevano ad un individuo che andava facendo affermazioni molto irresponsabili e a voce molto alta”. Senza Giuliani e le sue divinazioni non ci sarebbe stato alcun dibattito sul significato dello sciame sismico, nessuna stupida affermazione dei pubblici ufficiali abruzzesi che negava la possibilità di un terremoto, nessuna maldestra comunicazione da parte di scienziati, nessun successivo processo. Tutto risale alla scatola in piombo nella tana semi-interrata di Giuliani.

Oggi, gli avvocati di sette uomini stanno lavorando alle finiture delle loro argomentazioni per il processo d’appello, fissato per l’inizio di Ottobre. Nel farlo, potrebbero concentrare l’attenzione su qualche bizzarro particolare. Gli scienziati che presero parte alla conferenza stampa, dopo la riunione del 2009, insistono nel dire che non hanno dato alcun messaggio sconsiderato di rassicurazione. Eppure, uno degli aspetti più strani di questa saga, se non francamente sospettoso, è la scomparsa della registrazione audio della conferenza stampa, malgrado il video sia disponibile.

Gli avvocati potrebbero anche presentare dei dati sismologici, nello specifico mostrare quanto spesso gli sciami sismici siano seguiti da null’altro che quiete. Potrebbero anche smantellare le argomentazioni di causa effetto di Picuti portando esempi come questo: nel 1920, si verificò uno sciame sismico nel nord ovest della Toscana, esattamente come a L’Aquila. Un pomeriggio una scossa fu così forte (magnitudo 4.1) che la gente decise di passare la notte fuori di casa. Tuttavia, quella notte non accadde nulla e la mattina gli uomini andarono a lavorare nei campi, le donne tornarono alle faccende domestiche e i bambini a scuola. Fu allora che un terremoto di magnitudo 6.6 colpì la zona, uccidendo quasi 200 persone, per la maggior parte donne e bambini. Questo è il problema di uscire di case durante una scossa: quando è il momento di rientrare?

Anche se l’appello andrà bene, il processo potrà durare anni – anni che uno scienziato come Boschi, 72 anni, o il capo della precedente Commissione Franco Barberi, 75 anni, potrebbero non avere. Il primo grado e il verdetto hanno già reclamato un pedaggio personale e professionale, lavoro perso, pensione trattenuta e, naturalmente, possibilità di essere incarcerati. Almeno due dei sette condannati in primo grado stanno pensando di lasciare del tutto l’Italia.

Nel frattempo, le ricadute del primo verdetto di colpevolezza continuano. Gli scienziati e i secchioni della politica da Boston a Jakarta sono preoccupati degli effetti che questo caso avrà sugli esperti a cui verrà chiesto di fornire un parere. Nella stessa Italia si è giunti al limite del ridicolo: recentemente, la ricostituita Commissione Grandi Rischi ha messo in guardia da una “probabilità significativa” di un forte terremoto. Nessun terremoto è seguito all’annuncio, ma una gran confusione circa il significato di “probabilità significativa”. Se gli italiani non sono già diventati completamente insensibili agli allerta sul rischio provenienti “dall’alto dei cieli”, lo saranno presto.

Per mantenere sotto controllo lo stress, Selvaggi cerca di tenersi in forma. Cucina molto. Ha smesso di fumare e fa del suo meglio per parlare apertamente di questo caso, per non farsi inasprire dalla frustrazione. A casa, però, cerca di fare in modo che il processo non sia una presenza costante per i figli.

Durante una cena insieme gli ho domandato quale fosse il suo pensiero a proposito delle testimonianze delle vittime. Mi ha risposto dicendo che ha scelto di non andare alla maggior parte di quelle udienze. Ha pensato che sarebbe stato più rispettoso e, inoltre, temeva di piangere nell’ascoltare il resoconto della morte dei propri cari, la sua reazione avrebbe potuto essere mal interpretata come espressione di rimorso o colpa.

Conosce, però, molte delle loro storie, in particolare quella di Parisse, il giornalista i cui figli adolescenti sono rimasti uccisi.

Selvaggi non sa immaginare come avrebbe reagito alla perdita dei suoi figli. “Non so, forse mi ucciderei”.

Quello che sto passando non è in nessun modo confrontabile con il tormento che deve sopportare Parisse. Però sente un legame con la perdita. Nel suo ufficio in Istituto, ha fermato l’orologio da muro. Circa due anni fa ha tolto le batterie dall’orologio e sistemato le due lancette alle 3:32 – l’ora in cui il terremoto ha colpito L’Aquila, quando tutte quelle persone sono morte, e la vita, come era stata fino a quel momento, si è interrotta.

“Ho passato la mia vita cercando di comprendere i terremoti, per aiutare a prevenire i danni alle persone”, racconta, “Adesso queste persone sono contro di me, e invece penso che dovremmo essere dalla stessa parte”.

This story was written by David Wolman. It was edited by Bobbie Johnson, fact-checked by Ben Phelan and Aaron Maines, and copy-edited by Lawrence Levi. Research and translation by Lorenzo Mannella. Animation by Rebecca Mock. Portraits by Chiara Goia. Black-and-white photographs by Paolo Pellegrin/Magnum. Traduzione italiana di Ingrid Hunstad.

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Loremann

Sono Lorenzo Mannella, sudo come project manager e attore di improvvisazione teatrale. In una vita parallela, fixer e science writer per Wired e Motherboard.