Le password hanno le proprie storie.

Monica Cainarca
4 min readDec 8, 2014

Chiedo solo di ascoltarle.

Un uomo ha scritto che ancora non capiva perché per vent’anni avesse usato come password “Troop 64”, un riferimento al campo estivo dove tanti anni prima un capogruppo aveva molestato lui e una decina di altri ragazzi.

“Arafat” era la password di una donna che lavorava in uno studio legale di ebrei ortodossi. L’aveva scelta pensando che sarebbe stata l’ultima cosa che chiunque avrebbe immaginato.

Altri esempi: il nome del cane di famiglia ucciso da un automobilista poi datosi alla fuga, la marca della prima pistola, la marca di una batteria acustica andata distrutta nell’incendio della casa d’infanzia, il nome dell’insegnante di chimica che era stata di ispirazione per la carriera.

Poche cose sono universalmente disprezzate come le password: la fatica di doverle ricordare, le continue richieste di aggiornarle, il loro numero sempre crescente. Ma le password sono anche qualcosa di più di un fastidio. Nel crearle, nel fatto che le costruiamo in modo da poterle ricordare solo noi, prendono una loro vita segreta. Ci sono cose che si nascondono dentro questi codici, non solo dietro.

Molte delle nostre password sono intrise di metafore, di ironia, a volte persino di pathos. “Poesie di una sola parola” è come me le ha descritte una persona. “Promemoria improvvisati per momenti di consapevolezza”. Spesso sono ricche di storie proprie. Un mantra motivazionale, una frecciata al capufficio, un santuario segreto a un amore perduto, una battuta privata tra noi e noi, una cicatrice emotiva distintiva – sono come ornamenti della nostra vita interiore. Derivano da qualsiasi cosa: testi sacri, oroscopi, soprannomi, testi di canzoni, passaggi di un libro. Come un tatuaggio su una parte privata del corpo, tendono a essere intime, compatte ed espressive.

Queste “password-ricordo”, come mi piace chiamarle, sono al centro di un mio recente articolo per il New York Times Magazine sulla “vita segreta delle password”. C’era l’ex detenuto con una password che includeva il suo numero di identificazione in carcere (“un promemoria per non tornare indietro”, ha spiegato); il cattolico che dopo aver perso la fede teneva una password che includeva l’Ave Maria (“è un segreto con un effetto calmante”); la donna di 45 anni senza figli la cui password era il nome del bimbo che aveva perso in gravidanza (“il mio modo di mantenerlo in vita, immagino”). Queste password erano un po’ come il carro dei pagliacci al circo: apri la porta e ne esce una moltitudine impossibile.

Un amico mi ha raccontato cosa è successo alla società di servizi finanziari Cantor Fitzgerald poco dopo gli attacchi dell’11 settembre. Mi ha descritto come, appena poche ore dopo l’impatto degli aerei, Howard Lutnick, amministratore delegato della società, ha dovuto chiamare i familiari delle vittime. Più di 650 dipendenti di Cantor Fitzgerald erano morti quel giorno, tra cui il fratello del signor Lutnick.

In quelle telefonate, il signor Lutnick aveva consolato i parenti. Ma, con delicatezza, aveva anche dovuto richiedere alcuni oggetti personali degli scomparsi per aiutare un team di tecnici Microsoft a risalire alle password di decine degli account più importanti della ditta. Il mio amico mi ha detto che non potevo attribuire a lui l’aneddoto. Così ho chiamato direttamente il signor Lutnick. Si è messo a piangere nel raccontarmi la storia.

Altrettanto sorprendente delle storie nascoste in queste password è stata la disponibilità, se non addirittura l’entusiasmo, che le persone hanno nel parlarne. Risalire alle radici di questi ricordi sembra offrire una catarsi di sorta per tutto ciò che è frustrante nella nostra epoca digitale. Con così tante informazioni che girano intorno a noi, così tanti gadget da domare, così tante password da gestire, da rinnovare e da evitare di scrivere, è un argomento che placa le nostre ire. Qualsiasi sia la soddisfazione che gli altri derivano dal tema, anch’io l’ho trovato stranamente incoraggiante. Per me, ha messo in luce quanto gli esseri umani siano creature creative e sentimentali, come ci inventiamo routine eccentriche e congegni intelligenti per la vita quotidiana, come riusciamo ad abbellire anche le nostre catene.

Queste sono proprio le password che gli esperti di sicurezza ci dicono di non creare, perché sono le più facili da decifrare. Eppure, tanta gente le sceglie. Questa ribellione mi ha affascinato. Così come le domande più profonde sulla possibilità che ci sia anche una certa logica in questa irrazionalità, degli schemi di comportamento in questa disobbedienza, o un motivo per il quale così spesso facciamo il contrario di quello che gli esperti ci dicono di fare.

Non sono così sicuro che le password-ricordo possano effettivamente svelare più di tanto di una persona. La segretezza rende una cosa più vera o più sincera? “Crearle è come un gioco di associazioni di parole, senza però una parola iniziale”, mi ha detto Jonathan Zittrain, un professore di diritto a Harvard che studia Internet. Helen Petrie, psicologa e professoressa di interazione umani/computer alla London City University, ha descritto le password come “un test di Rorschach per il XXI secolo”.

Ma se anche non mettono a nudo la nostra anima, a mio parere queste password rappresentano pagine, o forse pezzi di pagine, strappate dai nostri diari mentali. E questo mi basta per farmi continuare a raccoglierle. È anche per questo che chiedo a tutti di inviarmi un’email (urbina@nytimes.com) con le storie che si celano dietro le vostre password. Non voglio sapere le vostre password attuali. Mi interessa sentire gli aneddoti chiusi dentro le vostre vecchie password e la logica che le rende memorabili e personali.

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Monica Cainarca

Translator, editor, dreamer • formerly translator and editor for Medium Italia