Il meraviglioso mondo di Carmine Pascale

guiboss
L’arte del narrare paesaggi
5 min readAug 27, 2016

Fra oggetti recuperati, abiti tradizionali e antichi documenti: a Satriano va in scena la memoria

Carmine Pascale, più noto ai compaesani come “Carmnucc’ U’ Mul’nar”, in realtà è un ex meccanico, non un mulinaio, a dispetto del soprannome. Ma qualcuno lo chiama anche “l’inventore”. E lo è. Inventore di oggetti, di soluzioni, di spazi ed anche di storie, di memorie, di mondi.

Carmine Pascale (ph. Ornella Sabia)

Carmine recupera le cose. Le rianima. Carmine parla la lingua dei suoi oggetti, che sono gli oggetti di un paese intero, la memoria, il passato che non a tutti piace ricordare.

“Certi anziani entrano qui e scappano: non vogliono ricordare da dove vengono. Molti di questi arredi o strumenti rievocano un passato dal quale si sono liberati e che non amano ritrovarsi davanti. Hanno quasi paura”.

E i giovani?

“Uh, quelli non entrano nemmeno. Hanno altro per la testa e non sono appassionati delle loro tradizioni”.

Insomma chi entra qui?

“Le persone di mezza età ne restano affascinate. Sono quelle nate a metà fra la guerra e il benessere, loro comprendono bene questo passaggio e comprendono che gli oggetti hanno un significato, una forza. Questi oggetti parlano”.

E in effetti Carmine Pascale quegli oggetti li mette in scena da molti anni. Lui e sua moglie Anna, insegnante, nel 2002 hanno fondato l’associazione La Fonte, che oggi conta 250 soci, con lo scopo di valorizzare la tradizione e la memoria del paese e della valle, raccogliendo oggetti e materiali antichi e usandoli per rappresentazioni teatrali in dialetto.

“Tutto ciò che va in scena è rigorosamente autentico. Ogni oggetto, ogni vestito. E anche gli attori”.

Oggetti e marchingegni di ogni tipo

La signora Teresa che fa il formaggio sul palco, non fa altro che riprodurre i propri gesti abituali, quelli di tutta la sua vita, da sempre, e metterli a disposizione del copione. Certo, le battute sono scritte (da Carmine e dalla moglie), ma questo è un teatro “verista”, non comico o caricaturale, bensì dedito alla conservazione della memoria. Il dialetto ha proprio questo scopo.

“Quest’anno c’erano 40 persone in scena, fra attori principali e comparse. Un migliaio di persone di pubblico. L’abbiamo rappresentata nell’anfiteatro del paese, ma i primi anni facevamo gli spettacoli qui sotto”.

E indica un angolo seminascosto, fra un ponte e una roccia su cui poggia la casa, accanto al fiume, invaso dalla vegetazione. Scendi lungo quel sentiero impervio ricavato da tronchi e piccole travi di rinforzo e ti ritrovi su un piccolo palco ingegnoso quanto artigianale. Sei dentro la foresta e sei a pochi metri dalla strada. Catapultato in un altro mondo, in un altro tempo. Tubi di ponteggi per la struttura delle luci, un argano per sollevare il sipario di tela cerata, antiche casse militari, ceste contadine, sedie impagliate, porte laccate a fare da quinte. Per un attimo pensi di essere caduto addormentato in un sogno che tutto deforma. Invece no.

Uno scorcio del sentiero verso il piccolo palco nel bosco

“U’ matrimonj’ r’ na vota”, “A lucertola a roj’ cor”, “U’ puorc, u’ muort e u’ cuonz’l”, “Regina Bianchina e Filumena”, “A scola r’ na vota”, “A puteja r’ mast’ M’chel”… ogni anno una rappresentazione nuova, una messa in scena della vita che fu, una rappresentazione di noi stessi molti decenni fa. Nessun sogno, solo la voglia di tenere viva una tradizione.

“Da lì veniamo, è giusto ricordarlo. Il terremoto non ha spazzato via tutto. Certo, nel recupero e nel restauro, fra le macerie molto è stato buttato via e poco si è salvato. Ma io ho raccolto con pazienza tutte queste cose, di poco valore in sé, che però oggi costituiscono un patrimonio culturale, storico, umano della nostra comunità”.

La forza di Carmine è nei suoi occhi, nelle sue mani capaci di realizzare qualsiasi cosa e nelle sue rughe veraci, di un uomo che ha strizzato gli occhi sui documenti antichi e sulle viti di un vecchia macchina da cucire in restauro, su un diario ottocentesco e su una cinepresa anni Settanta, con la stessa perizia, con la stessa passione.

Francesca Marino si è laureata in Scienza della Comunicazione all’Università di Siena nel 2015. Nella sua tesi, intitolata ‘Parlare satrianese: radici e identità oggi’, dedica un capitolo a Carmine e all’associazione La Fonte. Anche lei, pur così giovane, nata e cresciuta qui, è rimasta colpita nel penetrare in questo mondo che ti avviluppa come un abbraccio antico. Così descrive gli oggetti del museo di Carmine Pascale:

La sede de “La Fonte” è una vera macchina del tempo

“Vedo in loro la nostalgia di un tempo andato di cui non rimpiangono di certo la miseria e gli stenti, ma la lentezza e il valore sacrale degli oggetti che scaturiva da un profondo rispetto nei confronti del sudore, della tecnica abile e dei tempi di produzione dell’artigiano, tanto quanto della fatica dell’acquirente nel mettere da parte denaro o altri beni per acquistarlo”.

Scritto per l’associazione Il Vagabondo. Progetto “L’arte di Narrare i Paesaggi” per Funder35

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