Tanti piccoli indiani.

Cucchi: una Giustizia incapace di riconoscere un delitto?

Luca Alagna
Pagina Politica

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Nella letteratura poliziesca esiste un genere di romanzo che viene definito enigma della camera chiusa.
Si ha quando l’indagine su cui è imperniato il romanzo si svolge in un luogo ben circoscritto e in circostanze apparentemente impossibili, come quelle di una camera chiusa ermeticamente dall’interno, senza che vi si ritrovi nessun altro dentro se non la vittima.
Uno dei più celebri romanzi di questo tipo è “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie.
Naturalmente la prima impressione del lettore, e dell’investigatore romanzesco di turno, è che sia materialmente impossibile trovare l’assassino pur avendo ogni prova possibile del delitto.
Ma si tratta in realtà solo di un inganno scenico: l’assassino è sotto gli occhi del lettore fin dalla prima riga, la sfida consiste non tanto nel trovare lui quanto nel capire come il delitto è stato commesso.

Ecco, il caso Cucchi ormai ricorda sempre più un delitto di questo tipo.
Sappiamo che un uomo è stato assassinato, ce lo dice l’autopsia, non è morto per cause naturali né si è suicidato.
Sappiamo come è morto, l’“arma del delitto” e ogni altra conseguenza sul suo corpo.
Sappiamo esattamente dove si trovava e quando, sappiamo con precisione chi c’era con lui, abbiamo a disposizione tutti gli indizi, i luoghi e gli oggetti presenti.
Eppure l’“assassino” sembra svanito nel nulla: un mistero degno del miglior Poirot.
Solo che stavolta non è un romanzo, qualcuno è morto davvero, lasciando dolore e rabbia nei familiari.

Le sentenze non andrebbero commentate, soprattutto prima del giudizio definitivo, ma quella della Corte d’Appello sul caso Cucchi, che assolve tutti gli imputati per insufficienza di prove sembra una risposta irrazionale a una domanda lecita di giustizia.
Come è possibile che un detenuto, completamente a disposizione e nelle mani del sistema carcerario, muoia non per cause naturali e non si riesca ad individuare i responsabili?
Non ci sono prove? Eppure l’unica cosa che abbiamo sono “prove”, quello che ci manca è tutto il resto.
No - viene stabilito ora - non abbiamo abbastanza prove.
Dunque, quante prove ci servono per stabilire le responsabilità (dirette o indirette, volontarie o involontarie, per omissione o altro) della morte non di un passante in strada ma di un detenuto, sempre chiuso in uno spazio circoscritto, sottoposto a procedure ben precise e in contatto esclusivamente con un numero definito e noto di persone?
Nella risposta a questa domanda si potrà misurare l’inadeguatezza dell’attuale sistema giudiziario (e carcerario) italiano.

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