Non solo smart working: come cambia il mondo del lavoro nella digital economy

La transizione verso la digitalizzazione del lavoro nel settore pubblico e in quello privato

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5 min readApr 5, 2022

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Conversazione con Tiziano Treu, Presidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro

Photo by Robo Wunderkind on Unsplash

Come è cambiato il mondo del lavoro con l’avvento dello smart working?

Lo smart working di per sé è uno strumento banale che dovrebbe stimolare una nuova organizzazione in cui il lavoratore ha più responsabilità e meno controlli sul proprio operato. Ma questo è solo un aspetto di un cambiamento strutturale più ampio, ovvero la digitalizzazione del lavoro: anche dove continuerà a lavorare in presenza, il dipendente sarà in qualche modo “controllato” da un algoritmo, avrà un’interazione con dei computer, userà macchine intelligenti.

È anche una modalità di lavoro che sta diventando la normalità sia in ambito pubblico che nel privato, e che va difesa, soprattutto in una forma ibrida che preveda sia il lavoro in presenza che quello da remoto. A questo modello fanno eccezione molti lavori strutturalmente “non remotizzabili”, come quelli relativi alla cura delle persone, degli edifici, del paesaggio. Una nuova distinzione nel mondo del lavoro, non più tra occupazioni “manuali o intellettuali” ma “remotizzabili o non remotizzabili”.

Questo è un processo di evoluzione che non ha confini nazionali. Uno degli aspetti principali della digitalizzazione del lavoro è la possibilità di lavorare da remoto, anche trovandosi fisicamente alla parte opposta del pianeta. Un aspetto che pone un tema di regolazione dei rapporti di lavoro che saranno per natura transnazionali.

Il settore pubblico è pronto per una modifica strutturale dell’organizzazione del lavoro?

In questi anni di pandemia, nel pubblico impiego lo smart working è stato imposto per legge, dando vita a esperienze molto diverse tra loro, in alcuni casi positive, in altre negative.

Più in generale, la digitalizzazione del lavoro in ambito pubblico dipende molto dal sistema di gestione e organizzazione in cui si colloca. Nel pubblico come nel privato dobbiamo aspettarci meno lavoro di front office, allo sportello, e più back office, con le stesse eccezioni per i lavori “non remotizzabili”. La rapidità con cui la Pubblica Amministrazione riuscirà ad adottare nuovi modelli organizzativi dipende molto dal superamento di un’eccessiva rigidità del lavoro pubblico, a cui forse proprio lo smart working può contribuire.

C’è poi un aspetto di cui si parla meno: l’orario di lavoro, che con lo smart working diventa flessibile e meno verificabile. Non è tanto un problema di “fannulloni”, che eventualmente va affrontato con una corretta gestione del lavoro, ma di “limiti massimi”: alcune professioni, nel pubblico come nel privato, sono a rischio di stress da overwork. La Corte di giustizia europea ha stabilito che per evitare l’eccesso di lavoro, facilitato dalla smaterializzazione, è necessaria una tracciabilità specifica degli orari. Una specie di cartellino virtuale, che si accompagni al “diritto alla disconnessione”.

Che impatti avrà la digital economy sul mondo del lavoro?

I fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza sono un’opportunità che dobbiamo usare per raggiungere un’autonomia almeno europea in ambito digitale. Questo cambiamento strutturale comporta inevitabilmente impatti occupazionali, su cui ad oggi ci sono previsioni diverse. Le stime dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico non sono troppo pessimiste: la quantità di lavoro non è destinata a crollare subito, e non è detto che in futuro il saldo debba sempre essere negativo.

L’impatto occupazionale della digital economy potrà variare molto a seconda dei settori e degli strumenti di compensazione e di transizione adottati. In alcuni settori ci sarà un saldo netto negativo ma in altri, come i lavori di cura alle persone, agli ambienti, alle abitazioni, potrebbe esserci un effetto occupazionale positivo.

Questo significa che dobbiamo gestire con attenzione la transizione: non investire solo in produzioni del secolo scorso, come l’acciaio o l’industria tradizionale dell’automobile, ma differenziare e sfruttare le opportunità dei nuovi settori, che richiedono competenze diverse. Il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti da anni fa proiezioni di crescita per i “green jobs”: non solo nuovi “lavori verdi” legati alla tecnologia, ma anche lavori tradizionali “riconvertiti” in ottica di sostenibilità, con nuove competenze, attraverso investimenti mirati in formazione.

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Come devono cambiare i percorsi formativi?

Anche per questo è necessario investire di più in formazione e nei rapporti con chi – come le università e i centri formativi – la formazione la produce ad alto livello. L’Unione Europea pone obiettivi molto ambiziosi per la formazione continua (60 per cento della popolazione attiva) e per le competenze digitali di base (80 per cento), che implicano uno sforzo enorme da parte di tutti, nel pubblico e nel privato.

Investire in alta formazione significa aprire nuove opportunità. Un maggiore accesso ai percorsi di alta formazione per le donne permette ricadute positive su diversi aspetti che riguardano la parità di genere. In particolare nelle discipline STEM ancora oggi le donne sono circa la metà rispetto agli uomini, e il loro numero cresce molto lentamente.

Gli investimenti nella formazione STEM sono necessari non solo per le donne: ad oggi l’Italia si colloca sopra le medie europee per numero di laureati in diverse discipline umanistiche, come filosofia o legge, ma è molto indietro in ambiti tecnici. Uno squilibrio che va corretto, perché abbiamo bisogno sempre più di matematici, fisici, ingegneri, pur senza trascurare una base di competenze umanistiche. La futura organizzazione del lavoro richiede il giusto mix di capacità tecniche e di relazione, di comprensione, di analisi: tutte doti che le macchine non hanno.

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