Questa cosa mi ha fatto cambiare idea su The Last of Us 2

Fabio Di Felice
Panino al salame
Published in
7 min readJun 27, 2020

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Ve lo dico subito: l’articolo contiene spoiler su The Last of Us 2 e sul suo finale. Siete avvisati.

Qualche giorno fa ho finito The Last of Us 2. Ho passato un sacco di tempo a pensare a cosa scrivere, a cercare un taglio nuovo. Mi sembrava di non trovarne uno e ho dato la colpa al gioco. Se non c’era niente di più interessante da scrivere del fatto che la narrazione è adulta, le scene emozionanti e il comparto audiovisivo fuori di testa, allora la colpa era del gioco un po’ arido di spunti. Mi sono infastidito. Non ve lo nascondo, The Last of Us 2 è un gioco che mi ha indispettito sin dal primo momento. Mi succede sempre quando sento parlare di rivoluzione del medium, di punto di non ritorno, di “finalmente”. Perché nel tempo di “finalmente” ne abbiamo avuti tanti e ogni volta sembra che ce li dimentichiamo (ne sparo tre recenti al volo: What Remains of Edith Finch, Red Dead Redemption 2 e Death Stranding). E poi The Last of Us 2 ha quel faccino insopportabile da primo della classe che ti verrebbe voglia di tirargli due sganassoni: è bello, longevo, divertente, profondo, produttivamente fuori di testa, coraggioso nelle tematiche. Pure il doppiaggio italiano è perfetto. Che rabbia. E allora siccome di natura sono un po’ bastian contrario l’ho preso in antipatia. Nonostante questo per una settimana intera non vedevo l’ora di tornare a casa per giocare e vedere come andava a finire la storia.

Lo scoglio più grande contro cui mi sono scontrato è stata la personalità di Ellie. L’ho detestata sin da subito. Non riuscivo a trovare niente in comune con lei e non empatizzavo con la sua rabbia cieca, con la voglia di vendetta. Non a caso i due articoli sul gioco che mi sono piaciuti di più sono stati quelli di Kotaku e di Polygon, le cui autrici sono rimaste talmente disgustate dalla violenza al punto di aver dimenticato ciò che di bello il gioco ha da offrire. Un punto di vista interessante (che vi invito a leggere) e inedito sull'argomento. Il gioco non le ha divertite, non le ha soddisfatte. Le ha lasciate infastidite.

Le immagini dell’articolo sono prese dagli straordinari bozzetti sbloccabili in game.

Non è difficile capire il perché: The Last of Us 1 e 2 hanno una loro identità molto forte. Così forte che spesso sovrastano il giocatore e ti fanno fare cose che non vorresti fare. Quando a Seattle ho affrontato le squadre di ricognizione dei WLF accompagnate dai cani, sono sempre riuscito a passare nell'erba alta, ho creato diversivi e me la sono cavata dandomela a gambe e risparmiando la vita dei cani. Poi però verso metà del gioco sei costretto a ucciderne uno durante un QTE. A pugnalarlo e poi a colpirlo a morte con un tubo d’acciaio. Devi farlo tu premendo il tasto giusto altrimenti è game over. Mi ha fatto sentire una merda. E ce l’ho avuta col gioco per avermi obbligato: se non avessi ammazzato quel cane il gioco non sarebbe andato avanti. Ma allo stesso modo se alla fine del primo The Last of Us non avessi sparato al dottore che stava per operare Ellie il gioco non sarebbe finito. In quel caso si trattava del punto di rottura tra Joel e il giocatore che viene letteralmente strappato via dal personaggio, tant'è che da quel momento e fino alla conclusione il controllo passa ad Ellie. In The Last of Us 2 vieni continuamente strappato via da Ellie eppure il gioco continua a metterti nei suoi panni e a farti commettere atrocità.

Il messaggio superficiale che arriva al giocatore, che ovviamente si pone al centro della questione perché abituato a essere il pivot dell’opera, è che la violenza è sbagliata. Ma se provassimo a togliere il giocatore dall'equazione e ci ponessimo come semplici spettatori di ciò che succede?

Il momento sull’isola delle Iene mi ha ricordato moltissimo Apocalypse Now.

Ci ho pensato stamattina leggendo un eccellente articolo di Polygon che racconta la storia della dissonanza ludonarrativa (per farvela breve: Nathan Drake che uccide migliaia di persone e poi si piazza sul divano a giocare a Crash Bandicoot) e di come effettivamente The Last of Us 2 sia un passo importante in direzione inversa. Siamo pieni di protagonisti che uccidono decine di persone per poi spegnere l’istinto omicida e vivere una vita normale. Questo schema ricorrente si incrinava già nel primo The Last of Us ma non era abbastanza. Per quanto trovi il finale del primo capitolo più interessante di quello del secondo (mi piaceva tantissimo l’idea che la vita stessa sia costruita sulle menzogne che ci raccontiamo e a cui facciamo finta di credere), Joel è spinto dalla necessità di avere una vita normale insieme ad Ellie. Negli anni successivi le organizza feste di compleanno, le insegna a suonare la chitarra. Ha una sua redenzione, si racconta una bugia che fino alla mazza da golf di Abby tutto sommato funziona. Per Ellie, invece, non c’è redenzione. Nemmeno attraversare il paese e salvare Abby negli ultimi minuti di gioco la riscatta. Ellie è un mostro ed è destinata a restarlo.

Poco prima del finale vero e proprio al giocatore viene negato il classico happy ending. Ellie e Dina hanno salvato la pellaccia, si sono ritirate in una fattoria, hanno un bimbo piccolo da accudire e tutto sommato se la passano bene. A questo punto il giocatore vorrebbe semplicemente che la cosa finisse così. La storia di vendetta è compiuta: Ellie ha ucciso gli amici di Abby e lei ha deciso di rinunciare a versare altro sangue. Ellie è sistemata, Abby scomparsa. Ma Ellie e la sua storia non sono al servizio del giocatore. Questo personaggio che ha fatto della vendetta la sua unica ragione di vita è ormai un guscio vuoto. Non ha null'altro per cui vivere. Non c’è amore, non c’è pace. In questo momento il legame tra il giocatore ed Ellie si spezza di nuovo — forse definitivamente — e va in direzioni totalmente opposte. Ellie non deve compiacere chi tiene in mano il pad, si comporta come se non esistesse un mondo al di là dello schermo. Così parte per l’ultima e decisiva discesa nelle tenebre.

Nel momento dello scontro finale con una Abby ormai in fin di vita, il giocatore vorrebbe semplicemente non assistere. Quando Abby cade a terra supplicando pietà, non ho premuto tasti per un paio di minuti buoni. Io e Ellie eravamo due entità ben distinte. A quel punto dare l’input era semplicemente come premere play per far finire il film. Io non ne avevo nessuna responsabilità.

Lo scontro finale tra Ellie ed Abby

Prima di questo articolo volevo scriverne uno su quali libri dovreste leggere se vi è piaciuto The Last of Us 2 (ve lo sintetizzo con un nome: Cormac McCarthy). In mezzo c’era anche l’onnipresente La banalità del male di Hannah Arendt, un pilastro del giornalismo e della filosofia politica moderna.

In questo lungo resoconto l’autrice descrive il processo dello stato di Israele ad Adolf Eichmann, gerarca nazista e responsabile dello smistamento degli ebrei nei diversi campi di concentramento europei. Il ritratto che la Arendt fa di Eichmann fece scalpore perché lo descrisse come un uomo profondamente mediocre che mancava del guizzo sadico e perverso che viene naturale attribuire a un tale criminale di guerra. Eichmann era essenzialmente un burocrate colpevole di non essere in grado di mettersi nei panni dell’altro. La sua mancanza di immaginazione era tale da pensare di essere nel giusto, di servire un’entità superiore come lo Stato e la giustizia.

In questo senso The Last of Us 2 agisce in due direzioni: ti racconta di come Ellie sia banale e malvagia per la stessa mancanza di empatia e contemporaneamente ti mette nei panni di Abby che invece riesce a cambiare prospettiva. Per lei c’è un lunghissimo cammino di espiazione, una speranza di salvezza e una possibile redenzione per l’orribile gesto che compie all'inizio del gioco. Il suo finale off camera è raccontato dalla nuova schermata d’avvio del gioco (una spiaggia in pieno sole, in lontananza il palazzo delle Luci). Per Ellie non esiste più alcuna salvezza. Ormai è un personaggio senza passato, senza futuro che ha rinunciato al suo presente perché semplicemente non poteva spegnere l’istinto omicida. Un po’ come Eichmann che, scappato in Argentina dopo le atrocità commesse sotto il reich, non ha potuto fare a meno di far saltare la sua copertura durata 12 anni concedendo un’intervista al giornalista ed ex SS Willem Sassen. Perché Eichmann era un mostro, non un meccanico. Ed Ellie, piaccia o meno al giocatore, è un mostro e non una che può vivere in una fattoria a strimpellare la chitarra e a cantare canzoni d’amore.

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Fabio Di Felice
Panino al salame

Qualche giorno fa ho pensato “dovrei proprio cambiare la bio del profilo” e poi eccoci qua: non avevo idea di cosa scriverci.