Luca Serianni, il giro del mondo in italiano

Intervista al grande linguista ospite a Paludi

Rossana Boccuti
Piccole Spartenze — Ritorni
4 min readNov 1, 2021

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Professore Emerito di Storia della lingua italiana, socio dell’Accademia dei Lincei e dell’Accademia della Crusca, Luca Serianni è oggi il simbolo stesso della lingua italiana. Maestro di intere generazioni di studiosi, il professor Serianni è stato ospite del Piccolo Festival delle Spartenze di Paludi, in occasione della terza edizione della Notte dei Ricercatori Italiani nel Mondo, che ha concluso la tappa autunnale del Festival, con il convegno “Il Dante delle Spartenze, le Spartenze di Dante”.

Insieme a Luca Serianni, sono intervenuti al convegno anche Fabio Rossi dell’Università di Messina, Vincenzo Piro dell’Università Sorbona di Parigi e, in collegamento da remoto, Giovanna Caruso dell’Università di Greifswald — Germania, e Giovanni Braico della New York University.

Dettaglio del celebre ritratto di Dante Alighieri ad opera di Sandro Botticelli

Incontriamo Luca Serianni al termine del convegno.

Professore, colleghiamoci al tema centrare del Festival, le spartenze, e quindi le emigrazioni, che hanno portato a un progressivo spopolamento dei paesi interni. Questo ha un forte impatto nell’utilizzo del dialetto, essendo esso una lingua tramandata oralmente e mantenuto vivo grazie agli abitanti che la parlano. In base a ciò, Quale destino pensa avrà il dialetto? In che modo si potrà preservare?

Già 50 anni fa illustri linguisti pensavano che il dialetto sarebbe stato destinato alla scomparsa quando in realtà non è stato così. La vitalità del dialetto, come per ogni lingua, dipende dall’attaccamento ad esso che hanno i parlanti; pertanto nei luoghi in cui il dialetto resiste (Veneto, parte dell’Italia Meridionale, Sicilia), lo fa perché svolge una funzione specifica. Esso è espressione innanzitutto della propria emotività: chi conosce un dialetto si arrabbia o prega in dialetto. Tuttavia, come per tutte le lingue, laddove i parlanti lo abbandonano diventa artificioso tenerlo in vita; penso alle grandi città nordiche o alla Sardegna dove non si parla un dialetto ma una lingua a tutti gli effetti, che però è piuttosto indebolita poiché non trasmessa dai genitori ai bambini. In questo fenomeno sono sempre i parlanti i protagonisti.

Dal momento che anche Dante aveva approfondito lo studio delle lingue parlate nelle diverse realtà italiche, come mai oggi i dialetti occupano una posizione sempre più trascurabile?

La rassegna dei dialetti di Dante, in realtà, è fatta ad improperium, cioè volta a dimostrare che nessuno dei dialetti, a partire dal Fiorentino, sia degno di incarnare il volgare illustre. È una ricerca in negativo, sapendo già quale sarebbe stata la conclusione. Non farei quindi di Dante un antesignano del valore del dialetto. Nel De vulgari eloquentia, Dante decide di citare nomi come Aldobrandino de’ Mezzabrati, padovano, e Tommaso Bucciola, faentino, a dimostrazione del fatto che indipendentemente dal luogo di nascita, tutti coloro che si adeguano a certi ideali poetici e linguistici, possono usare il volgare illustre.

C’è un dialetto che ritiene più interessante degli altri?

Sono convinto che non esistano lingue o dialetti belli o brutti perché è una questione molto soggettiva. In realtà bello o brutto è ciò che noi, attraverso la lingua, diciamo: il grande potere delle lingue è che tramite queste possiamo dire e fare le cose più diverse. Ad esempio la lingua tedesca è comunemente definita molto dura perché probabilmente associata a frasi violente sentite nei film, quando è invece una lingua dolcissima.

Un momento dell’intervista a Luca Serianni, ospite a Paludi

L’avvento delle nuove tecnologie ha comportato un cambiamento delle modalità di comunicazione. Lei crede che questo progresso rappresenti un arricchimento o impoverimento della lingua?

Un impoverimento certamente no, poiché noi continuiamo a scrivere, persino manualmente, e d’altronde la rete ci mette di fronte a testi scritti. Il rischio sta piuttosto nel fatto che la rete è invasiva in termini di tempo, in particolare per gli adolescenti, perché riduce quell’area di socialità fondamentale anche per la maturazione di una lingua. Alessandro Manzoni diceva che una delle cose fondamentali era parlare con i propri concittadini di argomenti significativi: la lingua s’impara sì dai libri, ma anche parlando. In base a ciò, se l’adolescente passa troppo tempo in chat e poco con i coetanei, rischia di subire un impoverimento sia linguistico sia generale.

In qualità di Accademico della Crusca, ha senso parlare di purezza della lingua se questa è soggetta a continue contaminazioni e soprattutto se è dettata dall’uso che ne fanno i parlanti?

A differenza di quello che vale per la Real Academia Española, in cui c’è una norma rigida che fa fede per tutti i parlanti castigliano, per un passato storico diverso, l’Accademia della Crusca non ha una normativa rigida e ogni accademico ha una personale posizione.

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