Rosa, la storia del colore che fino agli anni ’40 rappresentava forza e mascolinità
Il “pink” possiede un significato sociale e una forte associazione di genere più di ogni altro colore
di SDWWG
Dall’ottobre 2013 al maggio 2014, al Museum of Fine Arts di Boston si è tenuta la mostra Think Pink, un’esposizione per esplorare la storia e l’impatto sociale del colore rosa. La curatrice, Michelle Finamore, ha raccontato di come in passato il colore non fosse associato ad alcun genere, portando ad esempio uno dei quadri esposti. Si tratta di un dipinto nel XVIII secolo che ritrae due bambini che indossano vestitini femminili, uno rosa e uno giallo: “Sopra portano un grembiule — spiega Finamore — e non è possibile dire se siano maschi o femmine”.
La parola “pink” comparve per la prima volta verso la fine del 1700. Come dicevamo, allora il termine non era legato a un genere come lo è oggi, che lo vede fortemente associato alla femminilità. Erano tempi, quelli, in cui anche gli uomini indossavano il rosa e lo utilizzavano addirittura, in combinazione al bianco, per gli interni delle proprie abitazioni.
Basti pensare al celebre “pink suit”, l’abito rosa indossato da Jay Gatsby nel Il grande Gatsby, il capolavoro di F. Scott Fitzgerald del 1925. Il colore era infatti considerato simbolo di passione e mascolinità, una versione del rosso più adatta alla vita sociale, che si allontanava dall’accezione “bellicosa” a cui quest’ultimo era legato.
Si pensi che il rosa non solo veniva indossato dagli uomini, ma alle bambine era perfino consigliato il colore blu. In un’edizione del 1918 di Earnshaw’s Infants’ Department si legge:
La regola generalmente accettata è rosa per i maschi e blu per le femmine. La ragione sta nel fatto che il rosa, essendo un colore più deciso e forte, risulta più adatto al maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, risulta migliore per le femmine.
Ma come si è arrivati a trasformare il rosa nel colore che più di ogni altro possiede un significato sociale e una forte associazione di genere? A partire dagli anni ’40, le aziende di abbigliamento iniziarono a produrre indumenti femminili in rosa e indumenti maschili in blu, senza ragione alcuna. O meglio, sembrerebbe che l’unico motivo fosse la certezza che i due sessi preferissero il nuovo colore che gli era stato assegnato.
In realtà, alcuni studi condotti sull’argomento hanno rivelato che non è affatto realistica la credenza secondo cui le persone di sesso maschile preferiscano il blu e quelle di sesso femminile amino il rosa. Piuttosto, le ricerche hanno mostrato come il rosa, tra gli adulti, sia uno dei colori tra i meno amati.
Nonostante gli sforzi del Movimento di Liberazione delle Donne, che durante gli anni ’60 e ’70 (e tra le innumerevoli altri azioni) ha tentato di abolire questa assurda differenziazione, spingendo per l’uso di colori neutri che non venissero associati ad alcun genere, le aziende di abbigliamento hanno trovato il modo di calcare la mano sulla distinzione, facendo leva sui bisogni dei futuri genitori.
Da allora, il costume si è radicato nella società occidentale e solo in tempi recenti si sta assistendo a un embrione di rivolta per sorpassare questa associazione colore-genere una volta per tutte.
Proprio nella storia particolare del rosa risiede il significato di scegliere il “pink” come colore distintivo della nostra agenzia. Una storia che lo ha visto come unico protagonista di una diatriba durata decenni: uomo o donna? maschio o femmina? A chi appartiene il rosa? Perché come diceva Virginia Woolf:
In ognuno di noi presiedono due poteri, uno maschile, uno femminile. La mente androgina è risonante e porosa, naturalmente creativa, incandescente e completa.
Ecco perché abbiamo scelto il rosa, perché la più creativa delle menti è quella che sa essere sia maschile che femminile, e quale colore meglio del rosa, con la sua storia, può rappresentare la creatività?
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