L’ultimo grido di Houellebecq

Alessandro Gilioli
PIOVONO RANE
Published in
3 min readFeb 13, 2015

La fine della millenaria società medievale, con le sue solide certezze teologiche e spirituali ma anche relazionali, ha reso tutti più infelici. La libertà da Dio e dalla Chiesa ha scatenato l’individuo, quindi la competizione, tanto sul piano economico-sociale quanto su quello erotico-affettivo, fino a conseguenze divenute ormai estreme, annichilenti e non più accettabili. Sicché la crisi dell’Occidente non è contingente, ma strutturale: perché siamo al rifiuto diffuso — maggioritario — della società moderna, quella che ha iniziato a prendere forma dopo la fine del Medioevo e che è diventata vincente con la Rivoluzione francese. E il suo fallimento — causa eccesso di incertezze, solitudine e competizione — porta ovviamente con sé la fine dei partiti di destra o di sinistra che erano ugualmente figli dell’Illuminismo, mentre nuovi movimenti si affacciano per proporre vie d’uscita da questa dolorosa contemporaneità.

“Madre, ecco qui i tuoi figli che si sono perduti” è uno dei versi di Charles Péguy che risuonano nella testa di François, l’io narrante, nella Cappella della Vergine di Rocamadour, mentre i lepenisti e la Fratellanza Islamica combattono la battaglia finale per l’Eliseo, dopo aver polverizzato socialisti e gollisti, i due partiti che si erano spartiti i decenni della Quinta Repubblica senza alcuna visibile differenza tra loro, comunque nell’alveo della società post illuminista, capitalista e repubblicana.

Alla fine, è quasi indifferente per François chi vince tra i due candidati, il più moderato dei quali sembra comunque quello islamico. Quasi indifferente perché chiunque dei due prevalga rappresenta comunque la fine della civiltà individualista, il ritorno alla comunità totalizzante di tipo paramedievale, sia essa musulmana o fascista. L’uomo occidentale, stanco di due secoli di libertà e competizione, sente il «disperato desiderio di incorporarsi a un rito». Proprio come lo scrittore Huysman, riferimento intellettuale continuo di François, che dopo una vita di estetismi e tentazioni financo sataniste aveva finito per abbracciare il cattolicesimo, al punto di farsi benedettino: «Bisogno disperato di incorporarsi in un rito», appunto.

Se avete letto “L’estensione del dominio e della lotta”, avete ben presente l’angoscia giovanile di Houellebecq nei confronti dell’individualismo, della solitudine, della competizione. Ne “Le Particelle elementari” questa critica esistenzialista si declina nell’ipotesi, quasi speranzosa seppur fantascientifica, di una mutazione tecnogenetica dell’umanità. Qui la denuncia del presente assume la forma forse ancora più pessimista di un’alternativa che consiste in un ritorno a una società in qualsiasi modo coesa, “endogamica”, uniforme e omologata: in cui ciascuno è come tutti e pur di uscire dall’atomizzazione disperata, ciascuno rinuncia al pensiero autonomo e si fa goccia nel mare, uguale a miliardi di altre gocce.

Questo è, grosso modo, “Sottomissione”, al netto della mattanza parigina (successiva alla fine dell’opera, ma precedente il suo arrivo in libreria) che ha senz’altro contribuito al suo successo commerciale, ma molto meno — credo — alla comprensione dell’esito paradossale a cui è giunto fin qui il percorso di Michel Houellebecq. Che non credo affatto essere un teorico delle neo-medievizzazione dell’Occidente: no, non lo è, come non è un filoislamico o un ammiratore del Fronte Nazionale. E tuttavia arriva a questa provocazione estrema per gridare nel modo più forte possibile ciò che nei suoi libri in altro modo ci aveva già detto sul modello di vita occidentale — e che vent’anni fa era grido quasi isolato, oggi è sensazione confusa ma diffusa nelle anime di milioni di donne e di uomini.

Potete prendere “Sottomissione” solo come un romanzo di fantasia, una pura opera letteraria senza pretese di analisi sociopolitiche, e alla fine il suo stesso autore si difende così dai più stupidi dei suoi detrattori. Probabilmente è invece un appello angosciato a rendere meno aspra, violenta, atomizzante, disperante e infelice la società del vespro capitalista, con tutte le sue bellissime libertà e le sue infinite possibilità che però per troppi si riducono solo all’ansia, alla rabbia e alla solitudine. Alla privazione di amore e di senso della vita.

È quindi una domanda violenta posta a tutti noi, figli e nipoti dell’Illuminismo, che non sogniamo né l’identitarismo cattofascista né l’islamizzazione dell’Europa: siamo capaci, noi, di tenerci ciò che di buono viene da due secoli di libertà senza rassegnarci a un vita di infelicità?

Originally published at gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it on February 8, 2015.

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