Julien Levesque, 2012. Dalla serie Books Scapes.

Di cosa parliamo quando parliamo di pubblicare

Negli ultimi decenni il significato del termine «pubblicare» si è notevolmente ampliato. L’articolo offre una panoramica dei diversi modelli interpretativi di tale insieme di pratiche alla luce dell’utilizzo, sempre più diffuso, delle tecnologie digitali interconnesse.

Silvio Lorusso
Progetto grafico
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10 min readApr 20, 2016

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Questo articolo (here in English) è stato pubblicato su Progetto grafico, rivista internazionale di grafica edita dall’Aiap, Associazione italiana design della comunicazione visiva.Il numero 28, “Pubblicare”, è a cura di Maria Rosaria Digregorio, Silvio Lorusso, Silvia Sfligiotti, Stefano Vittori.

Fino a pochi decenni fa, il senso comune associava istintivamente l’attività del pubblicare al lavoro di figure professionali quali ad esempio scrittori, giornalisti, redattori e editori, ma anche tipografi e librai. Tale legame era riconfermato dagli sforzi di chi professionista non lo era: pubblicare la propria opera conferiva — e tuttora conferisce — un certo prestigio, talvolta in grado di emancipare dallo status di dilettante. Una volta stampato, anche il libro più scadente esprime una qualche autorevolezza. Consideriamo, a tal proposito, il preconcetto insito nella locuzione vanity press: gli autori che pagano a proprie spese la pubblicazione di un manoscritto sarebbero guidati dal bisogno di alimentare la propria reputazione anziché dalla volontà di diffondere il proprio lavoro. Il termine «pubblicare» era quindi strettamente connesso al settore dell’editoria e, come abbiamo indirettamente dedotto, era inestricabilmente legato alla produzione per mezzo della stampa. Una cosa è certa: solo una ristretta minoranza della popolazione pubblicava. E, se ci limitiamo a considerare i libri stampati, le cose stanno ancora così.

Tuttavia, a partire dagli anni Ottanta, con la diffusione dei personal computer e, in seguito, con l’utilizzo sempre più radicato di internet, il termine «pubblicare» ha acquistato un respiro più ampio. Se il desktop publishing ha fatto della tipografia un’attività ordinaria (chi non ha mai sentito nominare il Times New Roman?), la rete ha prodotto un nuovo ambiente in cui pubblicare, potenzialmente accessibile a tutti. Le accezioni del termine si sono dunque moltiplicate e il suo utilizzo nel linguaggio comune è presumibilmente incrementato. Con le sue numerose varianti terminologiche — dotate di sfumature retoriche (condividere), tecniche (postare) o corporative (twittare) — il pubblicare fa ormai parte della routine online. Un dato non irrilevante: su Google, la ricerca più frequente, dal 2004 a oggi, associata al termine «pubblicare» è relativa a Facebook, seguita dal più tradizionale «pubblicare un libro».

Tali sviluppi ci spingono a riflettere sul rapporto che intercorre tra l’editoria come settore professionale e la pubblicazione come esercizio quotidiano, e perciò a tratti invisibile, da parte degli utenti del web. Ha senso tracciare un confine netto tra questi due ambiti? È possibile identificare o costruire un quadro di riferimento che tenga conto delle loro influenze reciproche, attraverso una concezione olistica delle pratiche del pubblicare? Da dove partire? Esploriamo innanzitutto le definizioni forniteci dai dizionari. Nella sua accezione più generica, pubblicare corrisponde a «rendere pubblico, cioè noto a tutti, far conoscere pubblicamente, divulgare» (Treccani). Una più specifica sfera semantica fa riferimento all’attività editoriale come mestiere, con un frequente accento sull’aspetto commerciale e sull’impiego della stampa: è il caso, ad esempio, del New Oxford American Dictionary, che indica l’«occupazione o attività di redazione e diffusione di libri, riviste e altro materiale per la vendita». Il Dictionary of Publishing and Printing aggiorna la definizione includendo i formati elettronici. Come nota lo scrittore e editore britannico Michael Bhaskar (1993), tali definizioni fanno del pubblicare un’attività scissa da quella dell’autore, e in qualche modo successiva a essa. Pur non essendo esaustivo, questo rapido excursus ci consente di individuare le polarità del pubblicare sull’asse di ciò che potremmo definire interferenza o mediazione. Mentre la prima accezione, analoga al semplice dichiarare, possiede un grado minimo di mediazione, la seconda indica una pratica implicitamente costituita di diverse fasi e attori in gioco. Infine, tra le accezioni meno comuni, ce n’è una particolarmente interessante poiché evidenzia l’aspetto clandestino di colui che pubblica, il quale «pronuncia, passa o mette in circolazione un documento contraffatto» (Webster’s).

Avendo misurato l’estensione del concetto attraverso alcune delle sue definizioni, passiamo ora a esplorare i modelli di pubblicazione proposti da diversi studiosi. Tra di essi, vi è lo storico statunitense Robert Darnton (1982), il quale sviluppa ciò che lui chiama circuito comunicativo: «un modello generale di analisi della produzione e diffusione dei libri nella società» in grado di far convogliare le varie ricerche in corso nell’ambito della storia del libro, ovvero la «storia sociale e culturale della comunicazione a stampa». Tale modello, costruito sulla base del libro cartaceo («forza attiva della Storia»), si concentra sugli attori del processo editoriale e sulla comunicazione tra di essi: autore, editore, tipografi, fornitori, spedizionieri, librai, legatori e infine lettori, che si ricollegano al primo influenzandone il lavoro futuro o essendo autori a loro volta. Il circuito subisce le mutevoli influenze intellettuali dell’epoca, le spinte pubblicitarie, la congiuntura economica e sociale, e le sanzioni di tipo politico e legale. Pur non essendo presente nel diagramma, Darnton indica un’ulteriore, fondamentale influenza da tenere in considerazione: quella degli altri mezzi di comunicazione. Di fronte al circuito comunicativo, sorge una domanda: dove situare l’atto del pubblicare? Esso ricopre il modello interamente o solo in parte? Oppure si tratta di una soglia non chiaramente identificabile tra le varie fasi?

Il «circuito comunicativo» di Darnton.

Una variante successiva del modello, caldeggiata dallo stesso Darnton, è stata proposta dagli studiosi Adams e Barker (1993). In questo caso il protagonista non è più il libro, bensì il più inclusivo «documento bibliografico», un artefatto «stampato o scritto in copie multiple che il suo agente — sia esso l’autore, il cartolaio, lo stampatore, l’editore o qualsiasi combinazione di questi — produce per la pubblica fruizione. […] Il fattore di controllo consiste nel fatto che il documento sia stato progettato per adempiere a una specifica funzione, privata o pubblica». Piuttosto che di attori, il nuovo circuito è costituito di cinque fasi ricorrenti: pubblicazione, fabbricazione, distribuzione, ricezione e sopravvivenza, anch’esse immerse nell’«intera congiuntura socio-economica». La principale innovazione del modello risiede nella fase di sopravvivenza: un processo cumulativo attraverso il quale un documento bibliografico viene inizialmente distribuito e fruito dal pubblico, vive dunque una fase di immobilità che, se superata, può portare alla sua riscoperta o ripubblicazione in una nuova edizione. Tale fase segue spesso percorsi secondari o addirittura tortuosi. Adams e Barker forniscono una definizione puntuale del pubblicare, inteso come «Il punto di partenza, la decisione iniziale di moltiplicare un testo o un’immagine per la distribuzione», specificando che «la decisione di pubblicare, non la creazione di un testo, è, dunque, il primo passo nella creazione di un libro». La pubblicazione diviene dunque un momento specifico, che può precedere o seguire la produzione del testo.

Il modello proposto da Adams e Barker.

La ricercatrice Rachel Malik (2008), in opposizione sia a Darnton che a Adams e Barker, sostiene che «il pubblicare precede la scrittura e governa le possibilità di lettura». Dal canto suo, il pubblicare è costituito di «un insieme di processi e pratiche storiche — composizione, redazione, design e illustrazione, produzione, commercializzazione e promozione, e distribuzione — e un insieme di relazioni con varie ulteriori istituzioni — di tipo commerciale, legale, educativo, politico, culturale e, forse, su tutte, con gli altri media». Per Malik, più rilevante del pubblicare è il pubblicabile, inteso come una serie di «orizzonti» che delimitano un ampio territorio fatto di relazioni culturali e mediatiche.

Recentemente, il già citato Bhaskar (2013) ha gettato le basi per un’ambiziosa teoria dell’editoria capace di comprendere sia ciò che precede l’avvento delle tecnologie digitali interconnesse, sia ciò che vi succede. Ecco dunque una breve panoramica dei concetti chiave attraverso cui tale teoria si articola. I contenuti, «una forma di conoscenza incorporata», rappresentano il prerequisito di qualsiasi iniziativa editoriale. Essi sono appunto contenuti ma soprattutto presentati, configurati dai frame; sono frame, ad esempio, il formato tascabile, gli schermi e il codice che regola i testi elettronici. Colui che pubblica, convenzionalmente l’editore, diventa dunque un costruttore di frame. La produzione di contenuto e dei relativi frame è guidata dai modelli, che possono essere visti come «un agglomerato di motivazioni e aspettative». Il tutto è regolato da due processi: il primo, detto di filtraggio, include sia le scelte effettuate coscientemente da colui che pubblica, sia le molteplici dinamiche (di tipo economico, sociale o culturale) in grado di far affiorare o eclissare un dato contenuto. Infine, il processo di amplificazione permette di precisare concretamente l’atto del pubblicare: mentre l’idea di «rendere pubblico» risulta ambigua — è sufficiente stampare un manoscritto o caricarlo online perché questo si possa considerare pubblicato? — l’amplificazione richiede «un movimento da una minore a una maggiore esposizione». Riassumendo, si può dire che «il filtraggio e l’amplificazione occorrono attraverso dei frame costruiti secondo dei modelli». Tra le righe, è presente un concetto già emerso in precedenza, che lega insieme tutti gli altri. Si tratta del processo di mediazione che, a vari gradi, struttura la pubblicazione, facilitandola o ostruendola. Non a caso, per Bhaskar, «una teoria dell’editoria è una teoria della mediazione, del come e del perché i prodotti culturali sono mediati».

La «macchina del contenuto» di Bhaskar.

Paradossalmente, la retorica che ha caratterizzato la pubblicazione online ha fatto leva proprio sull’assenza di mediazione. Già nel 1995, John Markoff dichiarava sul «New York Times» che «chiunque in possesso di un modem è potenzialmente un libellista globale». Tuttavia, l’impatto del web non ha riguardato soltanto lo spazio di pubblicazione, ma anche la disponibilità di strumenti e infrastrutture: l’incremento di molta editoria «indipendente» è spesso messo in relazione alla cosiddetta disintermediazione, fenomeno in cui le funzioni classiche svolte dall’editore, tra cui quella di gatekeeper o «custode culturale», sono annullate o prese in carico dall’autore. Secondo Mike Shatzkin (2013) stiamo assistendo a un processo di «atomizzazione» in seguito al quale l’editoria passerà da un’attività di settore a una mera funzione. Clay Shirky (2012) rincara la dose sostenendo che l’editoria «non è più un mestiere. È un pulsante. C’è un pulsante con su scritto “pubblica” e quando lo premi è fatta». Tali prospettive, spesso di stampo tecno-positivista, sono racchiuse nello slogan «everyone is a publisher».

Il maggiore rischio insito in questo truismo, che recupera l’accezione più generica del pubblicare come pura espressione, è quello di sottostimare il ruolo giocato dalle piattaforme che ospitano e distribuiscono i contenuti online. Le dinamiche di mediazione sono occultate dall’immediatezza — intesa qui come tempestività — del processo di pubblicazione. Difatti sono sempre più le interfacce in cui è difficile distinguere la fase di produzione di contenuto dal momento in cui quest’ultimo diventa pubblico. L’idea di una pubblicazione online priva di interferenze è ingenua: si pensi alle legislazioni nazionali a cui sono sottoposti i server a causa della loro posizione fisica, oppure al modo in cui gli algoritmi dei social network e dei motori di ricerca favoriscono alcuni contenuti a discapito di altri. Una visione ampia ed efficace del pubblicare deve tener conto di questi numerosi strati di mediazione. In secondo luogo, come afferma James Bridle (2011), il motto «everyone is a publisher» fa tabula rasa di una serie di competenze acquisite e raffinate dagli editori nell’arco dei secoli, a cui sostituisce un modello semplicistico in cui pubblicare un dato contenuto equivale a renderlo disponibile in rete.

Gli effetti di mediazione sono presenti a tutti i livelli della pubblicazione, dunque è utile considerare quest’ultima un insieme di processi e di relazioni, come suggeriscono sia Bhaskar che Malik, piuttosto che un momento specifico. Come non riscontrare, ad esempio nel limite dei 140 caratteri di Twitter, il fatto che gli orizzonti del pubblicabile condizionano la scrittura e la lettura? Risulta inoltre utile rilevare l’attuale enfasi dei moti di amplificazione nella quotidiana pubblicazione online: la costante esaltazione del dato quantitativo, che caratterizza soprattutto i social media dominanti, dota gli utenti di un’unità di misura univoca e inappellabile del valore di un contenuto. L’amplificazione diventa dottrina.

Infine, è possibile progettare il processo di pubblicazione in maniera più inclusiva se si contempla la fase di sopravvivenza: oggigiorno i contenuti circolano e si frammentano attraverso una sempre crescente quantità di frame, sia analogici che digitali. Dalle edizioni economiche ai feed RSS, passando per i book trailer e le recensioni su Amazon, ciò che è pubblicato si muove lungo un mutevole sistema di relazioni. Secondo il designer olandese Daniel van der Velden (2011), tale contesto fa sì che la progettazione editoriale diventi «il processo di coordinamento necessario per sintonizzare tutti questi sforzi che avvengono sia online che offline […]». È dunque fondamentale non limitarsi alla progettazione delle singole pubblicazioni in quanto tali, ma considerare la costellazione di formati, supporti e piattaforme disponibili, le influenze reciproche degli altri media e il ruolo attivo degli utenti, i quali, pur non essendo tutti editori, possono certamente essere più che dei meri vettori.

Bibliografia

Thomas R. Adams, Nicolas Barker, «A New Model for the Study of the Book», in A Potencie of Life: Books in Society: The Clark Lectures 1986–1987, The British Library, London, 1993, pp. 5–43.

Michael Bhaskar, The Content Machine: Towards a Theory of Publishing from the Printing Press to the Digital Network, Anthem Press, London, New York, 2013.

James Bridle, “The New Value of Text”, Booktwo.org, 2011 [http://booktwo.org/notebook/the-new-value-of-text/].

P.H. Collin, Dictionary of Publishing and Printing, A. & C. Black, London, 2006.

Robert Darnton, “What Is the History of Books?”, Daedalus, 111 (3), 1982, pp. 65–83.

Id., “‘What Is the History of Books?’ Revisited”, Modern Intellectual History, 4 (03), 2007, pp. 495–508.

Rachel Malik, “Horizons of the Publishable: Publishing in/as Literary Studies”, ELH, 75 (3), 2008, pp. 707–735.

John Markoff, 1995. “How the Earlier Media Achieved Critical Mass: World Wide Web; If Medium Is the Message, the Message Is the Web”, The New York Times, 20 novembre 2015 [http://www.nytimes.com/1995/11/20/business/earlier-media-achieved-critical-mass-world-wide-web-if-medium-message-message.html].

Produzione e lettura di Libri, Istat, 2015, in http://www.
istat.it/it/archivio/145294.

«Pubblicare», http://www.treccani.it/vocabolario/pubblicare/ [consultato il 28 aprile 2015].

«Publisher», Webster’s Revised Unabridged Dictionary, 1828.

«Publishing», New Oxford American Dictionary, 2005.

Mike Shatzkin, “Atomization: Publishing as a Function Rather than an Industry”, The Shatzkin Files, http://www.idealog.com/blog/atomization-publishing-as-a-function-rather-than-an-industry/, 19 marzo 2013.

Clay Shirky, “How Will We Read”, intervista di Sonia Saraiya, http://web.archive.org/web/20120407180909/http://blog.findings.com/post/20527246081/how-we-will-read-clay-shirky, 5 aprile 2012.

Daniel van der Velden, “Content Economies”, in Andrew Blauvelt, Mieke Gerritzen, Geert Lovink, Minke Kampman, I Read Where I Am: Exploring New Information Cultures, Valiz/Graphic Design Museum, Breda, 2011,
pp. 156–157.

La grafica dei diagrammi è di Stefano Vittori.

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Silvio Lorusso
Progetto grafico

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