Per molti ma non per tutti

Piero Priorini
Psicoterapia Antroposofica
16 min readSep 30, 2018

Storia di un fallimento

Nel 2010, con la casa editrice Psiconline, pubblicai un testo che titolava: C’era una volta la psicanalisi e riecheggiava le riflessioni di James Hillman che, in un suo ben più celebre saggio, confessava: “Cento anni di psicanalisi e il mondo sta molto peggio di prima”.

Perché era doveroso ammetterlo: nessuno dei traguardi ancorché minimi che i padri della psicanalisi avevano creduto di poter realizzare era stato raggiunto. Non solo: l’amara verità era che, proprio negli ultimissimi tempi, la diffusione popolare della “cura”, distruggendone l’alone sacro (vero o presunto che fosse), aveva finito per produrre la sua banalizzazione.

Cos’era dunque accaduto? Chi o cosa aveva la responsabilità di un tale fallimento?

Per rispondere a tutte queste domande, nelle prime venticinque pagine del mio testo, e nelle sue ultime venti (perché per il resto conteneva alcuni dei casi clinici più o meno emblematici della mia lunga carriera), in un linguaggio exoterico avevo provato ad esaminare alcuni dei motivi principali di questa drammatica situazione. E come prima cosa, iniziai interrogandomi se questo giudizio negativo non potesse essere addebitato solo ed esclusivamente alla mia vecchiaia incombente e perciò dunque alla consueta incapacità degli anziani di valutare positivamente le forme del nuovo che avanza. Ma alla fine, dopo essermi confrontato con alcuni esponenti degli ottimisti (Alessandro Baricco, fra tutti) e dei pessimisti (Umberto Galimberti), senza aver tralasciato coloro che invece trattenevano il proprio giudizio in una sorta di sospensione limbica (Zygmunt Bauman e Benjamin Barber), credetti di dover convenire che la “salute” della moderna psicoterapia fosse davvero pessima e il suo futuro… come minimo incerto. Questo perché i tempi storici sembravano profondamente cambiati e la fretta e la superficialità avevano invaso l’anima degli uomini. Perché le persone erano distratte e affaccendate in tali e tante stupide cose, da non avere più il tempo per pensare e, subito dopo, con conseguenzialità e coerenza, mettere in atto il risultato dei loro stessi pensieri. Perché la capacità di donarsi fino in fondo, ancorché a se stessi, era divenuta una merce rara e, infine, perché era difficile per chiunque orientarsi in quel variopinto “mercatino delle pulci” che era diventata la psicoterapia. Un mercatino nel quale mille imbonitori urlavano la straordinarietà della propria prassi terapeutica: “breve, efficace, veloce, indolore e, oltretutto, a prezzi stracciati”

Come se non bastasse, avevo dovuto prendere atto del vergognoso tradimento che proprio la Facoltà di Psicologia dell’Università Italiana aveva operato nei confronti dell’anima umana perché, oltre ad aver ridotto al minimo la richiesta della conoscenza dei testi originali dei padri della psicanalisi (Sigmund Freud, Alfred Adler, Melanie Klein, William Reich, Carl Rogers, Donald Winnicott) e aver depennato dai testi accademici gli autori più imbarazzanti di questa neonata disciplina umanistica — Victor Frankl, David Cooper, Roberto Assagioli, Donald Laing, Rollo May e addirittura Carl Gustav Jung — aveva finito poi per “amoreggiare” con la facoltà di medicina, offrendosi come sua vassalla (sgualdrina suonerebbe meglio) nel somministrare test, redigere diagnosi e offrire strategie cognitive alternative a quanti si trovassero nella malaugurata situazione di disagio psichico. E infine, per chiudere proprio in bellezza, dovetti convenire che la maggior parte dei miei giovani colleghi, provenienti da scuole superiori nelle quali la cultura classica era oramai assente da un tempo immemorabile (come minimo dagli anni ’80), oltre a un sapere specialistico nozionistico, non avevano la benché minima preparazione in filosofia, letteratura, storia delle religioni, mitologia, teatro, poesia, storia dell’arte, musica né, addirittura, in cinematografia.

Nonostante questo, avevo concluso il mio testo con una apertura fiduciosa al domani, augurandomi che la crisi sarebbe potuta passare e che “la bella addormentata nel bosco” (così avevo chiamato la psicanalisi classica), baciata da un qualche Eroe di passaggio, magari un giorno si sarebbe anche potuta svegliare.

****

Sono passati solo otto anni da allora ma le cose, se possibile, sono peggiorate.Ed essendo questa una raccolta di articoli il cui presupposto è quello di una immersione profonda nella scienza dello spirito antroposofica, sento un mio dovere il tentare di salire di livello e, da lassù, provare ad osservare un orizzonte più vasto.

Per farlo, partirò da alcune drammatiche osservazioni fatte a Dornach, proprio durante un convegno di psicoterapia, da parte del filosofo-antroposofo J. Ben-Aharon sulla base — almeno così sembra — di sue autonome facoltà di indagine soprasensibile.

Secondo lo stimabile personaggio, infatti, il paradosso assurdo di quest’epoca moderna — che ha fatto seguito alla fine del kali Yuga (1899) e che, appunto perciò, avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova “epoca luminosa” — è che l’umanità, oggi, sta attraversando una crisi ancor più oscura di quella attraversata nei precedenti secoli bui. In altre parole — specifica l’autore della conferenza — l’umanità è precipitata in un abisso dal quale non è affatto sicuro che riuscirà a risalire. E, comunque, non senza un intenso impegno e immani sforzi.

Certo: le sue sono parole drammatiche, terribili… parole che ci farebbe molto comodo giudicare folli, esagerate o menzognere, e così poterle mettere da parte. Ma il fatto è che, almeno per quel che mi riguarda, risuonano con le inquietudini che da molti anni si agitano nella mia anima, soprattutto in relazione a ciò che mi è dato sperimentare nel lavoro terapeutico di tutti i giorni. Inquietudini che con il libro: C’era una volta la psicanalisi, avevo tentato di esorcizzare, limitandomi a riflessioni exoteriche superficiali.

In sostanza, scusandomi di dover sintetizzare pensieri che già il loro autore riteneva di aver dovuto fin troppo sintetizzare, J. Ben-Aharon ritiene che a seguito di tutta una serie di motivi evolutivi naturali — e, in quanto tali, previsti da Rudolf Steiner (e cioè: l’allentamento progressivo delle connessioni del corpo eterico con il cuore fisico) — l’Io umano tradizionale, che prima dipendeva dal sangue per incarnarsi, dagli anni 1933 in poi non sarebbe più veicolato da questo “succo molto particolare”. L’Io umano, piuttosto, sarebbe libero di individualizzarsi o meno agganciandosi più che altro alla libera collaborazione culturale, sociale ed economica degli altri esseri umani. In altre parole, il parziale distacco eterico avrebbe creato una sorta di “apertura del cuore” che, se da una parte è l’espressione della libertà morale di scelta dell’uomo, dall’altra lo espone a un nuovo e poderoso attacco delle forze del Male. Un Male che penetra, oggi, con sempre più facilità nello spazio vuoto del cuore dove l’Io non regna più secondo la precedente, antica, gratuita disposizione. Il motivo — ribadisce Ben-Aharon — risiede nel fatto che il sangue non è più la forza latrice dell’Io divino-spirituale corrispondente all’immagine archetipica dell’uomo voluto dagli Dei. Quel sangue è stato distrutto. Non c’è più. E se l’uomo non troverà la forza morale di mantenere aperto il proprio cuore, in quello spazio vuoto prenderanno potere gli Asuras. Esseri al servizio di Sorat, l’Anti-Cristo Cosmico, il cui precipuo scopo sarà quello di distruggere l’Io dell’uomo, realizzando così un’umanità capovolta, non-umana, sub-umana, anti-umana.

È quello che sta accadendo, continua Ben-Aharon, ricordando come proprio Rudolf Steiner avesse profetizzato che, se nel breve volgere dei pochi decenni successivi agli impulsi di cui lui stesso si era fatto portavoce, l’umanità non si fosse indirizzata coscientemente verso il mondo spirituale, allora sarebbe scesa in quell’abisso che egli chiamava il Kamaloka Mondiale. Un termine di difficile comprensione immediata ma che sta ad indicare un rapporto inverso o, se vogliamo, capovolto con le brame. Infatti, mentre nel Kamaloka del post-mortemil tormento delle brame, che sono impraticabili dall’astrale disincarnato, purifica l’anima, nel Kamaloka del mondo, dove le brame invece possono essere pienamente realizzate, il patimento è sostituito dall’appagamento.

Di fatto, l’umanità non ha trovato la strada verso il mondo spirituale e l’abisso si è aperto sotto i nostri piedi. Scrivo: “i nostri piedi”… perché tutti noi — sostiene l’autore — oramai stiamo vivendo in questo abisso. Non ci si illuda di esserne risparmiati, ancorché buoni cristiani, buddhisti o addirittura antroposofi, perché di fatto viviamo una vita sociale, una pedagogia, una medicina, una politica, una economia globale, una comunicazione virtuale, una pubblicità e molto altro che sono già espressione di questa discesa abissale.

“Non puoi far parte di questa civiltà — ripete con lucidità Ben-Aharon- non puoi comprare e vendere, o cercare comunque di vivere, a meno che tu non abbia nel corpo, nell’anima o nello spirito almeno il nome o il numero o il segno della Bestia. Si sono già molto evolute tutte e tre. Ai giorni nostri non si può partecipare ad alcuna vita sociale, senza essere segnati da questa triplice segnatura, che è la segnatura dell’individualizzazione del Male nello spirito, nell’anima e nel corpo dell’essere umano”.

Come ho già detto: parole terribili…

Ora, però, ci si potrebbe chiedere quale relazione abbiano le parole e i pensieri su riportati con la disciplina psicoterapeutica della quale mi sono occupato in tutti questi articoli.

Ebbene: il nesso è strettissimo. Non solo perché lo stesso Ben-Aharon, nel prosieguo del suo discorso, chiama in causa proprio la psicoterapia come possibilità di affrontare il Male, ma anche e soprattutto perché, se praticata da terapeuti preparati nel senso della scienza dello spirito, la psicoterapia potrebbe divenire uno strumento d’elezione per rinforzare quell’Io che è minacciato, oggi più che mai, dalle spaventose forze degli Asura.

Ma se l’atteggiamento della società antroposofica oggi è cambiato nei confronti della psicoterapia, bisogna però riconoscere che anche la psicologia in tutti questi anni, almeno in Italia, è profondamente cambiata: ma in peggio!

Perché in peggio sono cambiate le teorie di riferimento e peggiori sono le condizioni animiche degli uomini che presumono di servirsene per superare i propri disagi.

Negli anni ’70, ’80 o ’90 del precedente millennio, chi entrava in un percorso terapeutico, oltre alla necessità di liberarsi di un sintomo più o meno scomodo, ne approfittava per prendere contatto con il senso e il significato della propria vita. Certo… non tutti! Ma per molti questo era ciò che accadeva. La malattia, o meglio, il disagio era l’occasione per l’entrata in un diverso rapporto con se stessi.

Da un certo punto in poi, però, le cose cominciarono a cambiare: in maniera silente e tenue, all’inizio, ma poi, via via, in maniera sempre più ingombrante, pretenziosa e arrogante. In parallelo con lo spietato consumismo della vita economica e la solerte efficienza della tecnologia, le persone volevano solo guarire, “subito e bene”, senza sacrificare alcunché della loro personale visione del mondo e, soprattutto, in modo indolore. Il risultato di questa repentina e drammatica inversione interiore fu che, nonostante l’impegno esercitato da molti anziani psicoterapeuti, ancora preparati al modo antico, molte avventure psicoterapiche cominciarono a stentare il passo se non, addirittura, a fallire miseramente.

E nonostante alcuni ricercatori, come me, sentissero legittimo mettere in discussione anche le proprie prassi terapeutiche, presto fu evidente a chiunque avesse occhi per vedere e onestà d’intenti che il fenomeno era generale: il fallimento della moderna cura psicologica era incontestabile, tanto più se ci si serviva di quelle innovative e tanto decantate tecniche psicoterapiche che, provenendo dagli Stati Uniti, avevano fatto della velocità e dell’efficienza i loro presunti cavalli di battaglia. Feroci nemiche della psicodinamica (visione storico-evolutiva propria della psicanalisi, che vede nel sintomo un antico meccanismo di difesa, trasformato e poi “fissato” nell’anima), queste nuove tecniche (cognitivismo, terapie strategiche-brevi, programmazione neuro-linguistica) presumono di poter attaccare ed eliminare i sintomi in maniera diretta e “aggiustare” la mente del malato con le stesse procedure con le quali si potrebbe aggiustare un computer.

Di fatto, oggi, ci troviamo in questa situazione: un numero più che significativo di uomini e donne soffre terribilmente nell’anima, ne porta i sintomi ma, o rinuncia sfiduciata in anticipo a qualunque tentativo di psicoterapia, o tenta l’avventura introspettiva (anche se con modeste forze interiori) con risultati però che, bisogna ammetterlo, sono inferiori a quelli che sulla carta sarebbero invece realizzabili.

Dove si annida il male? Al di là dei temi culturali generali riportati all’inizio di questo articolo e alla compiuta professionalità o meno del terapeuta, cosa ha ridotto la capacità di risposta di così tanti pazienti?

Di sicuro non riguarda una distinzione di genere (Femminile o Maschile), perché anche se è vero che la donna, in linea di massima, è molto più sincera e spregiudicata con se stessa, nonché più introspettiva e sensibile dell’uomo, è poi anche vero che queste qualità non sono sufficienti a garantire alcun ragguardevole risultato. Non è un fatto culturale, perché successi e insuccessi si ripartiscono in egual misura tra persone erudite e altre decisamente incolte. Non riguarda l’intelligenza (c’è ancora qualcuno che si illude di sapere cosa sia l’intelligenza?), non la dichiarata buona disposizione d’animo, non l’età, il successo lavorativo o l’anonimato sociale. Né tanto meno l’agiatezza economica o la povertà.

Allora… chi o cosa è responsabile di questa drammatica situazione?

Confesso che prima di incontrare il testo della conferenza di Ben-Aharon, la mia autonoma e personalissima ricerca si stava già orientando verso il tema dell’Io. Perché quello che mi era sembrato di cogliere sempre più spesso in molti dei pazienti incontrati in questi ultimi anni era la loro debole, parziale, ma a volte anche totale incapacità di collegare una qualche scoperta realizzata nel corso dell’analisi e riconosciuta poi come vera, con una conseguenziale azione sul piano della realtà. Ancorché minima. La Volontà, per molti di loro, sembrava essere del tutto esautorata. E riconoscendo nel Volere — secondo le parole di Rudolf Steiner — la natura ultima e sostanziale dell’Io, era logico che mi orientassi in quella direzione. Negli anni precedenti avevo già riportato alcune mie considerazioni sul tema della Volontà (si legga l’articolo: La Volontà violata, contenuto in questa stessa raccolta), e stavo tentando di elaborare esercizi specifici e prassi interiori utili a superare o, almeno, ad alleggerire il problema… ma debbo ammettere che ero ancora lontano dall’avere chiaro, davanti a me, il quadro spirituale della situazione.

Ma se la visione di Ben-Aharon è corretta, allora il problema potrebbe essere individuato nel fatto che, se da una parte l’intera umanità di questo presente storico presenta una vera e propria “ferita del cuore”, altrettanto vero, poi, è che non tutti gli uomini e le donne sono in grado, possono o vogliono, riuscire a sopravvivere mantenendo aperta tale ferita. Molti, purtroppo, consapevolmente o meno, preferiscono lasciare che il Male richiuda e cicatrizzi tale loro ferita. Con ciò impedendo che l’Io prenda possesso dello strumento (corporeo, eterico e astrale) indispensabile per sapere del mondo, di sé e della propria origine spirituale. Oggi è estremamente facile richiudere tale ferita: l’affanno lavorativo, la brama di guadagno, il numero incalcolabile di distrazioni (la connessione continua, i mondi virtuali, l’adeguamento alle mode, l’alienazione delle droghe), le relazioni affettive discontinue e instabili, le false e astratte ideologie politiche quando non addirittura le insane ed esagitate tifoserie sportive. Ancor più subdole, invece, le prassi religiose comuni, i convincimenti New Age o le pratiche ascetiche più strampalate.

Bisogna riconoscerlo: oggi è davvero molto semplice lasciarsi sedurre dalla soddisfazione sempre attuabile delle molteplici brame che il mondo ci offre, così suturando la ferita e lasciando poi che cicatrizzi. E, con il cuore chiuso, girare poi per il mondo, senza vedere le miserie dei nostri simili, i soprusi e gli abusi perpetrati ovunque con l’indifferenza negli occhi, lo scempio operato sugli equilibri naturali, la malattia mortale del pianeta sul quale viviamo, la follia di quasi tutti coloro che lo governano e, addirittura, lo sconcerto delle persone che ci sono più vicine. Con il cuore chiuso anche la propria sofferenza è sterile, perché nasconde il compiacimento, è autocelebrativa e, soprattutto, non è catartica. Non tende al riscatto. Non allude al pentimento e non invoca alcun radicale cambiamento.

Le implicazioni di questa concatenazione di pensieri sono sconcertanti: perché allo stato attuale della realtà si potrebbe allora affermare che solo un “cuore aperto”, ferito e sanguinante, potrebbe essere ritenuto ancora umano e perciò stesso permeabile all’aiuto.

È quello che sentenzia Ben-Aharon quando, con una spregiudicatezza difficilissima da condividere, afferma: “si può fare lavoro psicoterapeutico solo tra e con esseri umani”.

Lo ripeto: l’affermazione del filosofo ricercatore dello spirito è terribile, non solo perché sfida il nostro più elementare buonismo ma soprattutto perché, come operatori sul campo, ci costringe ad ulteriori riflessioni.

E la prima apre una questione che sarà molto difficile risolvere: perché se è vero che solo un cuore aperto permette l’incarnazione dell’Io… è però anche vero che è l’Io, in un qualche modo, a permettere di (ma forse dovrei scrivere “a volere”) mantenere aperto il proprio cuore. Mi rendo conto che questo assunto sembra una contraddizione in termini: il cuore aperto permette l’identificazione dell’Io ma, per altri versi, è solo l’Io che può volerlo mantenere tale.

Come si risolve questa assurda impasse?

Non sono in grado di affermarlo con certezza, ma credo che questo dipenda da un insieme di fattori. Perché se è vero che il sangue non attira più l’Io nella propria individualizzazione e che le brame del mondo si offrono come nutrimento del Male che ne ha occupato il cuore, è però altrettanto vero che molti uomini e molte donne accettano la battaglia fin dal loro primo vagito e, in un qualche modo, tengono la posizione. Suppongo che questa capacità possa derivare loro dall’amore genitoriale con cui sono stati accolti nel mondo o, in mancanza di quello, da risorse segrete immagazzinate in precedenti incarnazioni, oppure ancora — spero di non risultare blasfemo — da un guizzo di Fantasia Moraleche ad un certo punto sfolgora nella loro anima. Ma, non ultimo, anche da un Incontro Terapeutico che, per qualche motivo “tocca” il loro cuore, strappa i punti di sutura e lo induce a sanguinare.

Nel lavoro psicoterapeutico non credo sia possibile, in alcun modo, sapere in anticipo chi abbia preservato o meno la propria umanità, né chi, pur avendola perduta, non sia poi in grado di ritrovarla, magari grazie a una sola parola giusta, pronunciata nel momento giusto da un terapeuta illuminato. Resta però vero il fatto che, sempre più spesso, uomini e donne moderni sembrano immunizzati a qualunque parola, a qualunque sforzo terapeutico, e il loro cuore rimane chiuso e sigillato.

È impossibile esercitare una vera terapia con tali pazienti il cui numero — è doveroso ammetterlo — va aumentando. È davvero così! A volte, con alcune persone, sembra che non ci sia proprio nulla da fare. Ma questo fatto apre una seconda questione: perché, chi può sapere se il limite invalicabile era nel paziente piuttosto che nel terapeuta? Se è vero che il lavoro psicoterapico si può realizzare solo tra esseri ancora umani, chi può sapere quale dei due protagonisti dell’Incontro avrebbe potuto fare di più per l’altro, ma non c’è riuscito, perché il suo cuore non era sufficientemente aperto? O, almeno, sufficientemente coraggioso da andare oltre quelli che credeva fossero i propri limiti?

Quando cominciai a lavorare, quarantatré anni or sono, la prima domanda che si affacciò alla mia giovane anima fu la seguente: “Come riconoscere il limite che, in ogni vita, separa il “non posso” da un “non voglio”? In altre parole, quando un paziente davvero non può andare oltre e quando invece non vuole farlo? Da allora, penso che non sia passato un solo giorno in cui io non abbia riflettuto su questo tema e oggi, dopo tanto tempo e tante battaglie, posso con orgoglio dire che: ancora non lo so! Credo che dovrò aspettare di varcare la soglia per sperare di risolvere questo angoscioso arcano.

Nel frattempo, però, posso dire di aver cercato in ogni dove un qualunque strumento in più che mi permettesse di poter dire a me stesso: ho fatto tutto quello che potevo. Oltre non sono potuto andare, anche se non potrò sapere, almeno per ora, se davvero non ho potuto o invece non ho voluto. Perché resto convinto che non ci siano limiti invalicabili in assoluto per l’essere umano, bensì solo limiti contingenti al suo impegno e al suo destino.

Ma la psicoterapia accademica, invece, oggi registra dei limiti: che sono i limiti della visione materialistica del mondo. Se il cuore degli uomini si sta chiudendo, non è nemmeno lontanamente possibile immaginare che tecniche disanimate (cioè prive di anima), veloci ed efficaci secondo lo standard economico-arimanico del mondo possano sperare di riaprirlo.

La Psicologia accademica ha tradito se stessa! Occorre trovare il coraggio di dirlo, di gridarlo al mondo, di comunicarlo a quante più persone possibili perché, se ancora ci sono delle pur minime speranze per l’umanità, solo da una psicoterapia rinnovata nel senso di una scienza dello spirito l’uomo contemporaneo potrà essere davvero salvato.

Forse, occorrerà trovare ulteriori nuove tecniche che, come io credo, siano in grado di mettere in movimento in maniera diretta la volontà dell’uomo e della donna moderni. E bisognerebbe trovare il modo di poter offrire a chi richiede aiuto, l’occasione di sperimentare in un unico settingla riunificazione di scienza, arte e religione. Perché è senz’altro vero che in ambienti antroposofici si è sempre esaltata la capacità terapeutica dell’arte — Euritmia in primis, pittura, arte della parola (recitazione) e musica — ma credere che facendo arte si possa sperare di curare alla radice una sindrome di “attacco di panico” o una di “anoressia” è di una ingenuità che sfiora la follia. Così come altrettanto ingenuo, o folle, è credere di superare una “depressione” o una “dipendenza da alcool, da droghe o affettiva” impegnandosi strenuamente nei sei esercizi fondamentali donatici da Rudolf Steiner o negli altri esercizi, altrettanto mirati, suggeritici da Massimo Scaligero. Così come, almeno nell’ambito psichico, non possono essere efficaci gli effetti dei medicamenti della Wala o della Weleda, ancorché prescritti da illuminati medici antroposofici (che anche loro, spesso, come i colleghi allopatici, chissà perché si sentono in diritto di poter intervenire con la parola in un campo nel quale la loro preparazione è pressoché nulla).

La separazione di arte, scienza e religione, avvenuta dopo il mistero del Golgota affinché crescessero in maniera autonoma e indipendente l’una dall’altra, ha fatto il suo tempo. Un domani, sempre più solo interventi integrati avranno il potere di sconfiggere il vero male dell’uomo, del quale, i sintomi che egli accusa, sono solo benefici segnali d’allarme. Il cammino dei Nuovi Tempi dovrà portare alla riunificazione di tutto ciò che un tempo fu diviso e separato. Non c’è altra strada! Non ci sono altre vere alternative!

Sono altresì consapevole della pretesa utopistica dei miei pensieri. Ma se i “tempi sono gravi”, come diceva ogni volta Scaligero, allora bisognerebbe trovare il coraggio dell’utopia. E se la posta in palio è il cuore degli uomini, allora bisognerebbe poter offrire loro un percorso unitario in cui ogni professionista (l’artista, lo psicoterapeuta e il medico), uniti da un’unica visione immaginativa, potesse mettere le proprie conoscenze al loro servizio, strutturando un “percorso” capace di offrire tutti i supporti di cui ci fosse bisogno.

Negli anni ’80, io e alcuni colleghi (psicoterapeuti, artisti e medici) avevamo già partorito un’idea simile. Ma tutti noi eravamo troppo giovani e, oltre all’esperienza, ci mancava quella facoltà imprenditoriale necessaria per varare un progetto del genere. In pratica lo lasciammo cadere, anche se già allora, in tempi non ancora sospetti, avevamo visto giusto. Oggi, riuscire a realizzare un progetto del genere sarebbe ancor più necessario, per il bene di tutta la società ma, ça va sans dire, proprio il degrado della vita sociale moderna rende tale realizzazione ancora più difficile.

I limiti di questa nostra antica utopia, nella quale io oggi ancora mi riconosco, sono tanti.

Ripeto, ne sono consapevole: prima di tutto il fattore economico (come pagare così tanti professionisti dediti ad affrontare il problema di ogni persona con diversi mezzi?), poi quello del tempo (quanti mai, oggi, sono coloro che hanno tanto tempo libero da dedicare a loro stessi?), quello logistico (dove trovare un “luogo” in cui riunire e far convivere tutto questo?) e, non ultimo, quello dell’accordo profondo e intimo dei professionisti che dovrebbero lavorare in perfetta sintonia. Non posso sapere se un giorno, illuminati terapeuti, riusciranno mai a dare vita a un simile progetto. Ma so per certo che, qualora fosse varato, molti più uomini e donne, grazie all’organicità che assumerebbero i vari interventi, riuscirebbero a sostenere il “vuoto sanguinante del proprio cuore” così da potervi accogliere un giorno quell’Io Cosmico che di sé disse:

“Io sono l’Io sono!”

“Io sono la Verità, Io sono la Via, Io sono la Vita!”

--

--

Piero Priorini
Psicoterapia Antroposofica

Psicologo psicoterapeuta ad indirizzo Psicanalitico Junghiano. Specializzato in bioenergetica, transazionale, ipnosi e sessuologia