Adele Succetti
psicoanalisi lacaniana oggi
23 min readFeb 2, 2020

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Niente è più umano del crimine — Genova 31 gennaio 2020

Ringrazio il Centro Moebius e l’Istituto freudiano di avermi invitata qui a parlare nell’ambito di questo ciclo di conferenze dedicato alla violenza letta dalla psicoanalisi. Il tema che mi è stato proposto è un tema complesso perché, oltre al soggetto e alla sua relazione con il suo Altro — che è l’ambito di cui si occupa precipuamente la psicoanalisi –, include anche quello che l’Altro sociale istituisce come legge e, quindi, che definisce come crimine. Se, infatti, andiamo a vedere nell’enciclopedia Treccani, il crimine — che viene dal latino crimen -minis, che deriva dal verbo cernere (distinguire, decidere) — sta ad indicare la “decisione giudiziaria”, poi “l’accusa” e, infine il delitto grave. Come indica la Treccani, inoltre, nel diritto penale italiano vigente “è scomparsa, assorbita in quello di delitto, la figura autonoma del crimine (distinta dal delitto per maggiore gravità); il termine appartiene quindi all’uso corrente e giornalistico ad eccezione di alcune espressioni di significato e uso specifico, tra le quali crimini contro la pace, crimini di guerra, crimini contro l’umanità”. A differenza del delitto, che va contro la legge, quindi, al termine crimine è associata l’idea di un troppo, di un eccesso rispetto ai diritti umani che il delitto, in quanto forma “semplice” di trasgressione della legge, non include. Ed è rispetto a questo eccesso che, forse, la psicoanalisi può dire qualcosa; può dire qualcosa sul crimine perché la psicoanalisi, come la criminologia e come la giustizia, ha a che fare con la verità. Quello che, però, emerge dall’esperienza psicoanalitica è che la verità è estremamente complessa, non la si può mai scrivere “nero su bianco”, non è mai tutta… La verità è sempre soggettiva e dipende, in primo luogo, da quello che il soggetto può assumerne, dal modo in cui può accettare di sapere su se stesso, invece di rimuovere, cancellare o, come avviene di solito, lasciarsi condurre dai propri preconcetti, dalla propria visione delle cose.

“Niente è più umano del crimine” è il titolo di una conferenza che Jacques-Alain Miller, il lettore e curatore delle opere di Jacques Lacan, che ci ha permesso — con il suo lavoro pluriennale — di leggere e comprendere meglio le elaborazioni complesse di Lacan, ha tenuto a Buenos Aires nel 2008, per presentare il libro di due colleghi argentini — Chi uccide l’assassino? — che si sono occupati di psicoanalisi e criminologia. In effetti, se il termine crimine non è più usato nel diritto penale, in realtà esso ha dato origine a una branca del diritto, che si presenta al pubblico come una scienza interdisciplinare autonoma che oggi interessa molte persone e che occupa regolarmente i palinsesti televisivi, ovvero la criminologia. La criminologia realizza quello che già Lacan preconizzava nel 1950, ovvero il “sogno di un trattamento interamente oggettivo del fenomeno criminale”.[1] Anche se la criminologia dal secolo scorso ad oggi si è munita di una panoplia di strumenti scientifici ad hoc (geolocalizzazione, test del dna, telecamere, analisi corporee e tutto quello che molte serie televisive di successo ci mostrano…) possiamo affermare che il trattamento oggettivo e scientifico del crimine continua a rimanere un sogno… che, per l’appunto, infiamma le folle e i social, produce interesse nel pubblico televisivo e in quello dei lettori, perché come indicava Lacan nello stesso testo, “la società nella quale questi criminali si producono li prende come capri espiatori, e il ruolo da vedette che essa conferisce loro con tanta facilità manifesta bene la funzione reale che questi criminali vi svolgono. Di qui quel movimento di opinione al quale, quanto più riconosce in costoro le intenzioni di tutti, tanto più piace considerarli come alienati.”[2] La psicoanalisi, in questo senso, ci permette di affermare che il crimine ci interessa, ci spaventa e ci attira contemporaneamente, perché c’è qualcosa del crimine in ogni essere parlante ma poiché, però, il reale dell’atto criminale e gli effetti che esso produce nel mondo è angosciante e, spesso, senza senso, abbiamo la necessità di considerare i criminali come dei mostri, come dei folli, in altri termini, vogliamo assolutamente distanziarci e differenziarci da loro. Non vogliamo saperne nulla …

Ad ogni modo, il crimine resta un enigma… che ci interroga ed è per questo motivo che si cerca — in ambito scientifico, in ambito giuridico e anche sociale — la causa del crimine, i fattori scatenanti e quelli, se possibile, predittivi. Nel caso dei crimini più inspiegabili, o di quelli più efferati, abbiamo quindi, il presunto colpevole o il colpevole che diventa un “mostro” ovvero, come dice la Treccani, una sorta di “Figura mitologica che si presenta con caratteristiche estranee al consueto ordine naturale, in quanto per lo più formata di membra e di parti eterogenee, appartenenti a generi e specie differenti, con aspetto deforme e dimensioni anormali sì da indurre stupore e paura”, diventa cioè assolutamente altro da noi; l’esperto, dal canto suo, cioè il criminologo, diventa invece una sorta di profeta da cui ci si attende risposte certe che ci liberino dall’angoscia e dalla paura.

Cosa può dirci, quindi, la psicoanalisi a proposito del crimine? Perché la psicoanalisi può essere utile per rendere, per così dire, più umano il crimine? Come indica Jacques-Alain Miller nel suo testo, già Freud, con il suo testo fondativo della psicoanalisi ovvero “L’interpretazione dei sogni”, che distingue il contenuto manifesto dal contenuto latente del sogno, ha mostrato che il sogno, attraverso il suo contenuto nascosto, realizza sempre un desiderio rimosso, un desiderio inconciliabile con la morale comune, un desiderio cioè che va contro la legge, che la trasgredisce. In questo senso, già nel sogno è evidente un desiderio che non può essere manifestato in altro modo, che non può realizzarsi nella realtà perché non è accettabile dalla morale di colui che, quindi, lo realizza solo nel proprio sogno. Miller arriva persino a dire che, a livello dell’inconscio, siamo tutti criminali (tutti abbiamo un sapere nascosto, segreto, di cui non sappiamo nulla e di cui, quando emerge, spesso in modo inaspettato, ci vergogniamo) ma, poiché questo desiderio è inaccettabile, il senso di colpa da un lato e il sapere (del diritto, della criminologia… il sapere tout court) sono una forma di difesa rispetto a questa parte inconscia che l’io non riconosce, che non può riconoscere come propria. Come diceva però già San Paolo, citato da Lacan, non esiste peccato prima della legge, vale a dire che è la legge stessa che produce il peccato, cioè la sua trasgressione, il desiderio in opposizione ad essa. In questo senso, potremmo anche dire che, per la psicoanalisi, il grande criminale, quello che ci fa più orrore ma che, d’altro lato, ci affascina al punto da farci riempire le sale dei cinema — tipo Hannibal Lecter del Silenzio degli innocenti (1991) — è la persona che ha realizzato fino in fondo il monito lacaniano di “non cedere sul proprio desiderio”. Il desiderio inconscio, infatti, non è il desiderio conscio, di diventare, che so, pompiere, ballerina o altro… il desiderio inconscio è molto più complesso, si iscrive dentro le coordinate soggettive e prende origine o comunque si intreccia in quella che Freud aveva definito come “pulsione di morte”, una pulsione che spinge l’essere umano ad agire contro i propri interessi, contro il proprio bene…

All’epoca, in molti hanno rifiutato questa tesi freudiana che, però, oggi mi sembra sia sotto gli occhi di tutti, la pulsione di morte si manifesta infatti nella distruzione e nell’odio che infesta ogni luogo… contro la vita stessa degli uomini. Ad ogni modo, come indica Miller, “niente è più umano del crimine. Quello che sembra più inumano è stato reintrodotto nell’umano da Freud. In questo senso, il crimine smaschera qualcosa di proprio della natura umana, anche se, ovviamente, in noi esistono anche la simpatia, la compassione e la pietà. L’umano” — suggerisce Miller — “è forse precisamente il conflitto tra i due versanti della Legge e del godimento”.[3] Per capire meglio questa affermazione forse è meglio partire dall’inizio… ovvero da quello che Freud ha elaborato riguardo al crimine.

La psicoanalisi al servizio della criminologia?

Freud, nel 1906, tenne una conferenza all’Università giuridica di Vienna in cui, rivolgendosi ai giuristi viennesi affermava che “il compito del terapeuta è identico tuttavia a quello del giudice istruttore. Noi dobbiamo scoprire il materiale psichico nascosto e a tal fin abbiamo inventato tutta una serie di artifici investigativi, alcuni dei quali stanno dunque per essere imitati da Voi giuristi”.[4] Proprio perché la psicoanalisi ha messo a punto degli strumenti — da un lato l’associazione libera e, dall’altro, la capacità di lettura (e di ascolto) dell’inconscio da parte dello psicoanalista — per far emergere nel paziente un senso o un sapere nascosto, cioè il rimosso e, in questo modo, riesce ad “abolire ciò che condiziona psicologicamente i sintomi di cui soffre”,[5] i suoi strumenti potrebbero essere utili, suggerisce Freud, anche alla criminologia. Ciò che differisce tra le due, però, dice Freud, è il fatto che il segreto del malato “si cela alla sua stessa coscienza, mentre nel delinquente si cela” solo al giudice. “Nella psicoanalisi”, inoltre, “il paziente aiuta, con lo sforzo cosciente rivolto contro la propria resistenza, la guarigione, perché dall’esame si aspetta un vantaggio; il delinquente, invece, non collabora con Voi perché agirebbe contro tutto il suo Io. Quasi a compenso, nella vostra indagine importa solo che Voi acquistiate una convinzione obiettiva, mentre nella terapia si richiede che anche il malato si formi un’identica convinzione”.[6] La criminologia potrebbe quindi avvalersi degli strumenti della psicoanalisi ma, di fatto, gli scopi della prima non corrispondono all’etica della seconda. Mentre nel caso del paziente, ad esempio, la resistenza si oppone all’emergere del sapere inconscio perché il rimosso vorrebbe restare tale, nonostante la sofferenza che esso provoca, nel caso del delinquente la situazione è molto diversa: un colpevole può celare la propria verità per nascondere la sua colpevolezza mentre un individuo innocente può comportarsi come se fosse colpevole — dice Freud — perché in lui il senso di colpa inconscio sfrutta, per così dire, l’accusa errata per esprimersi….

Qualche anno dopo, nel 1916, Freud consacra due paginette ai “delinquenti per senso di colpa”.[7] Partendo dall’esempio di alcuni suoi pazienti, Freud si accorge che molte azioni illecite “come furti, piccole truffe, addirittura incendi dolosi”[8] venivano compiute “perché erano proibite e perché la loro esecuzione portava un sollievo psichico a chi le commetteva”. Questo significa che il senso di colpa inconscio esisteva prima del misfatto e che, anzi, era questo il motore dell’azione illecita. Come spiega più avanti nel testo, l’oscuro senso di colpa “proveniva dal complesso edipico ed era una reazione ai due grandi propositi criminosi di uccidere il padre e avere rapporti sessuali con la madre”.[9] Ovviamente, quindi, la messa in atto di un piccolo misfatto era fonte di sollievo, calmava il senso di colpa e, soprattutto, permetteva a chi lo compiva di restare entro i termini della legge degli uomini — che da sempre pone il parricidio e l’incesto come dei limiti su cui fonda la comunità umana. A sostegno di questa tesi, Freud fa riferimento anche ai bambini che fanno i cattivi “per provocare la punizione e che dopo essere stati castigati si tranquillizzano e si pacificano”.[10] In entrambi i casi, si tratta del rapporto tra la legge e il godimento: c’è una legge inconscia e qualcosa che spinge a trasgredirla ma il motore è il senso di colpa derivante dal conflitto inconscio. Il complesso di Edipo — stretto tra due desideri impossibili –, che Lacan, molti anni dopo, considererà come un mito freudiano, rappresenta piuttosto i limiti imposti all’essere parlante per il fatto di stare nel linguaggio e, quindi, nell’Altro. Per il fatto cioè di stare nella comunità degli esseri parlanti, qualcosa del godimento è proibito all’essere parlante, è perduto, e l’uccisione del padre (a livello simbolico) diventa la condizione stessa perché un godimento — limitato ma umano — sia possibile. Detto in altri termini: non si può avere il godimento mitico, quello per così dire prima della nascita, che non esiste, ma, utilizzando le vie del simbolico e, quindi, la via del padre, si può desiderare e godere entro i limiti della vita umana.

Senza entrare nei dettagli di questo tema complesso, possiamo comunque dire che oggi nella società capitalistica e tecnocratica, con gli stili di vita che in essa si diffondono a livello globale, sembra che si sia persa la funzione del limite rispetto al godimento. La civiltà non impone più, come sosteneva Freud, una rinuncia, una perdita (e quindi un conflitto con la legge inconscia) ma, piuttosto, secondo la lettura che ne ha fatto di recente Jacques-Alain Miller, la civiltà spinge al godimento, al senza-limite, al peggio. Quindi le cose sono molto cambiate rispetto al secolo scorso: la spinta-a-godere è sempre più comune, mentre la rimozione e l’inconscio sembrano incidere molto meno nella vita delle persone… o comunque sono messi a tacere. Se ritorniamo, quindi, ai tipi di delinquenti descritti da Freud nel suo articolo, ora sembra più diffusa una seconda categoria di “delinquenti”, vale a dire: “coloro che commettono atti criminosi senza alcun senso di colpa, costoro, o non hanno sviluppato alcuna inibizione morale, oppure, data la lotta che hanno ingaggiato con la società, si considerano giustificati nelle loro azioni”.[11] Jacques Lacan, nel suo unico testo dedicato specificatamente alle “funzioni della psicoanalisi in criminologia”, del 1950, rimane nell’ottica edipica delineata da Freud, che chiarisce e sviluppa ulteriormente. Al tempo stesso, però, introduce alcuni concetti che ci servono per affrontare la complessità del crimine, e dei criminali, nella contemporaneità.

In primo luogo, infatti, sottolinea il legame tra punizione e responsabilità soggettiva, ovvero il fatto che la punizione ha senso, funziona, solo se il soggetto in questione si fa responsabile dell’atto criminale che ha commesso, se acconsente cioè ad assumersene le conseguenze, e questo è possibile solo attraverso quello che Lacan chiama il “dialogo analitico”.[12] In questo senso Lacan afferma anche che la psicoanalisi, a differenza della scienza che vuole oggettivare il crimine, “irrealizzando il crimine, non disumanizza il criminale”,[13] perché gli restituisce la sua responsabilità, lo rende umano perché responsabile a livello soggettivo del proprio atto. Lacan dice che la psicoanalisi irrealizza il crimine perché lo legge entro lo schema legge-godimento-senso di colpa, dentro la storia del soggetto che cerca di spiegarlo passando così dal reale del crimine a qualcosa che si può elaborare in parole e, quindi, trasformare. La responsabilità, invece, il soggetto la acquisisce dall’Altro, dalla cultura e dalla società in cui vive, per questo motivo il pentimento o l’ammissione della colpa permette al criminale di rientrare nel legame sociale, gli permette cioè di riconoscere l’importanza del legame sociale. Quindi è la responsabilità soggettiva che umanizza il criminale, che si pente o che comunque assume il proprio atto, e che, per farlo, ricorre all’aiuto di un altro — dal soggetto al soggetto, dice Lacan. Questo è il limite-condizione della psicoanalisi rispetto alla criminologia: la teoria analitica può spiegare i crimini a condizione che il criminale vi sia implicato in quanto soggetto responsabile dei suoi atti, e quindi del suo godimento — anche se questo gli rimane ignoto, incomprensibile.

In secondo luogo, Lacan chiarisce meglio il fatto che i crimini cosiddetti non utilitaristici (tipo un furto o un omicidio finalizzati a uno scopo pubblico o privato) ma “di godimento” derivano, provengono dal Superio — secondo Freud l’istanza morale — che, di fatto, è l’erede del padre simbolico, vale a dire della legge inconscia, che però spinge al crimine e alla trasgressione. Il Superio è un’istanza individuale, legata alle condizioni sociali del complesso d’Edipo, che, però, non è segnata dal limite: è un’istanza “oscura, cieca e tirannica”[14] che vuole realizzarsi, che vuole soddisfarsi. È un’istanza che spinge al peggio. E in effetti, il crimine di godimento, come segnala J.-A. Miller, “sconcerta e appassiona al contempo perché porta il suo scopo in se stesso, che fornisce all’attante un soddisfacimento che è così singolare da non poter essere condiviso: insondabile per chiunque, ribelle all’universale, decisamente muto, nessun colloquio psi può farlo parlare, e nessuna statistica può ridurne l’originalità”.[15]

Clinica dell’assenza e clinica dell’atto

Quello che, però, mi sembra cruciale e che ci orienta ancora oggi nella lettura e nell’interpretazione del crimine, quando nella nostra clinica ci troviamo di fronte a qualcuno che lo ha commesso, eventualmente anche nella posizione di esperti psy, Lacan lo indica in un’altra frase del suo testo. Il passaggio all’atto criminale, dice infatti Lacan, “segnala il punto di rottura che occupa l’individuo nella rete delle aggregazioni sociali. La manifestazione psicopatica può rivelare la struttura della faglia”.[16] Come si può notare è una terminologia molto diversa da quella utilizzata da Freud. Lacan parla di punto di rottura, di faglia, in altri termini di un buco. Cosa significa tutto ciò? Più avanti nel testo parlerà anche “di un tipo oggetto che diventa criminogeno nella sospensione della dialettica dell’io”.[17] Anche in questo caso, i termini e la prospettiva sembrano molto diversi da quelli messi in evidenza da Freud. In effetti, a differenza di Freud che è partito dal suo lavoro clinico con le isteriche, Lacan è stato dapprima uno psichiatra e ha avuto modo, sin dagli anni ’30, di entrare in contatto con i deliri dei pazienti gravi e, nello specifico, con “forme estreme di omicidio paranoico”[18] — ad esempio quello del cosiddetto caso Aimée e quello delle sorelle Papin. Il caso Aimée — che è stato l’oggetto della sua tesi in medicina — è il caso di una donna di 38 anni, di umili origini, che manifesta i primi sintomi di persecuzione dopo la sua prima gravidanza, di una bambina nata morta. Aimée si sente perseguitata da un’amica, che a suo dire le vuole male. Dopo la nascita di un secondo figlio, i sintomi persecutori si manifestano di nuovo. Lascia così la famiglia, scrive due libri e, in preda a un’erotomania religiosa si immagina un mondo costituito solo di donne e bambini vestiti di bianco. In seguito la sua erotomania si rivolge al principe del Galles da cui pensa di essere amata e, dopo una prima aggressione dovuta al rifiuto di un suo manoscritto da parte di un editore, nel 1931 aggredisce un’attrice su cui si era cristallizzato, cioè si era focalizzato, il suo delirio che le faceva credere che volesse fare del male a suo figlio. Lacan la conosce in questa occasione, durante il suo ricovero in ospedale psichiatrico. La lettura e l’interpretazione che ne fa Lacan è quella di una paranoia di autopunizione, nel senso che la paranoia di Aimée si realizza nei meccanismi di autopunizione “che prevalgono nella struttura della sua personalità”. Pur essendo un caso elaborato da un Lacan ancora psichiatra, questo esempio può essere utile per comprendere meglio il senso della faglia, dell’atto e dell’oggetto. Quando Aimée aggredisce l’attrice, in effetti, è mossa da qualcosa che non può controllare — e non si tratta tanto di pulsioni incontrollabili — piuttosto l’atto criminale prende origine da un buco in cui lei stessa svanisce, in cui lei non c’è più, c’è solo il suo agire. L’oggetto criminogeno, invece, è piuttosto l’oggetto aggredito — in questo caso l’attrice importante — che Aimée cerca di recuperare, di andare a riprendersi nell’aggressione. Secondo Lacan si tratta di una paranoia di autopunizione — questa è la sua definizione — perché, aggredendo l’altra, Aimée punisce se stessa… e in effetti, durante il suo ricovero forzato in ospedale, il delirio paranoico regredisce e Aimée si calma … rispetto al trauma della perdita della prima figlia.

Come dice Francesca Biagi-Chai, psichiatra e psicoanalista che si è occupata a lungo del crimine — e che ha persino pubblicato, in francese, un testo dedicato a Landru, un serial killer francese degli inizi del ‘900 -, da subito Lacan si è interessato alla “follia e all’enigma del passaggio all’atto”,[19] a cui desidera dare un senso, per il quale voleva cioè trovare la causalità psichica, cioè la causa inconscia. E quello che l’elaborazione della psicoanalisi da parte di Lacan ha permesso agli analisti che si sono formati e che si formano seguendo il suo insegnamento è precisamente un approccio che sa cogliere, che sa ascoltare e che, grazie alla lettura della logica del singolo caso, sa accogliere “la rottura, l’incrinatura, il fuori-senso o il fuori-discorso nella continuità di una storia che forse ne portava già le tracce”.[20] Questo perché, secondo le indicazioni di Lacan, la psicoanalisi può accogliere — Lacan diceva addirittura che non si doveva indietreggiare di fronte ad essa — le forme diverse di psicosi e il reale che queste comportano.

A differenza dei giudici, degli avvocati e di tutte le persone che sono coinvolte a seguito di un atto criminale e che vogliono capire, sapere “la verità, tutta la verità”, lo psicoanalista può accogliere e accettare il fatto che tra la storia del criminale e il momento del suo atto permanga un buco, un punto di impossibile che anche lui non sa e che non può spiegare. Si tratta di un taglio che crea una discontinuità nella sua storia, e che delinea un prima e un dopo: prima del delitto e dopo il delitto tutto è cambiato. L’autore del crimine, eventualmente, può essere aiutato a ricostruire un legame tra il prima e il dopo, ma lo iato resta, e anche le conseguenze che l’autore del reato ha da assumere e che differiscono a seconda della giurisprudenza di ogni paese. Questo è un approccio molto diverso rispetto a tutte le ipotesi e le letture psicologistiche che vogliono trovare un senso, che vogliono comprendere la causa… come se il soggetto fosse una continuità in se stesso, come se il sapere potesse ricoprire tutto. A differenza, quindi, della lettura edipica di Freud e del primo Lacan — quella di cui ho parlato all’inizio del mio intervento — questa nuova lettura — che dà valore al buco nel sapere e all’atto in cui il soggetto scompare — è più adeguata alla clinica attuale, la clinica orientata dal reale, ovvero da qualcosa che esclude il senso, che fa buco nel senso. Come spiega Lacan nel suo Seminario inedito consacrato all’atto, “l’atto non comporta, nel suo istante, la presenza del soggetto”,[21] anzi il soggetto vi è ridotto ad essere oggetto, ad essere, in un certo qual modo, il prodotto stesso del proprio atto, il suo resto. Come indica Serge Cottet, “il passaggio all’atto, in quanto attraversamento selvaggio del fantasma cortocircuita l’inconscio. In questa situazione di «destituzione soggettiva» e di invischiamento nell’oggetto, la scelta di godimento rende obsoleta ogni deliberazione”,[22] vale a dire che nell’atto è l’oggetto pulsionale — che è un altro nome lacaniano del godimento — che ha il sopravvento, mentre il soggetto non è neppure in condizione di decidere. In questo caso, spesso, non si tratta neppure di trasgressione — poiché il sapere inconscio non fa da limite — ma piuttosto di qualcosa che, a partire dalla faglia del soggetto, si attiva e agisce quasi in modo meccanico. Ciò non toglie che il soggetto in questione si trovi poi a dover assumere l’atto in cui, per così dire, si è ritrovato…. E questo è ciò che, dividendolo, interrogandolo (“perché ho fatto questo?… non volevo, eppure l’ho fatto… non lo ricordo eppure l’ho fatto”) lo umanizza: non vi si riconosce, ma sa che lo ha fatto….

Per chiarire meglio che nell’atto, di colui che la giurisprudenza definisce come il folle-reo, non si tratta di un istinto criminale, di una furia che si impossessa di lui, già nel suo testo sulla criminologia Lacan sottolinea che non esistono istinti criminali e che l’espressione “eccesso di libido (per definire lo stato di colui che ha compiuto un atto criminale) è una formula vuota di senso”.[23] Questo perché, secondo Freud, la libido è una forza costante, che di per sé non ha eccessi, la dismisura si manifesta, eventualmente, piuttosto nell’atto. Contro il senso comune e sulla base della sua esperienza con i pazienti psichiatrici, Lacan afferma infatti che spesso “si tratta piuttosto della nozione di un difetto che non di un eccesso vitale. La loro ipogenitalità è spesso manifesta e il loro clima irradia freddezza libidica”.[24] Non si tratta, quindi, di passione irrefrenabile… ma piuttosto, molto spesso, di un difetto di vitalità, di una sorta di freddezza libidica. Questo è il caso, ad esempio, di Landru, un uomo apparentemente comune, sposato e con quattro figli che, per sostenerli economicamente (e farsi sostenere poiché il suo significante-padrone, il significante che lo comanda, la sua missione è la famiglia), dopo aver tentato la fortuna inventando e commercializzando biciclette, comincia a guadagnarsi da vivere mettendo in piedi varie truffe per le quali viene regolarmente arrestato. Dalla lettura dei documenti del processo che lo porterà alla ghigliottina, emerge che già in questo primo periodo qualcosa di strano si mostra: come indica F. Biagi, “un vuoto sembra separare due realtà che non si raggiungono, quella di cui parla in cui la sua vita si svolge nell’astrazione di racconti fabulatori e quella dei suoi atti, frammentata, destituita, caotica”.[25] Sembrerebbe un mitomane che racconta cose splendide di sé ma che, in realtà, nella vita reale, non riesce a realizzarsi e a realizzare: inventa truffe varie ma si fa arrestare ogni volta…. Dopo l’inizio della prima guerra mondiale, Landru modifica però il suo modo di procurarsi denaro. Comincia a pubblicare sui giornali locali degli annunci per incontrare (e sposare) donne sole, senza famiglia ma con soldi, case o mobilio. Nell’arco di quattro anni (1914–1919) ne incontra circa una decina e, dopo un breve corteggiamento con lettere, fiori e belle parole, le invita in una casa di campagna affittata ad hoc. Una dopo l’altra, dieci donne e un giovane uomo scompaiono nel nulla. Durante il processo, in cui viene accusato di averle uccise e di averne bruciato i corpi, Landru risponde come un automa (il caso è stato così clamoroso che ha ispirato a Charlie Chaplin il film Monsieur Verdoux), con una evidente freddezza libidica … non perché sia un uomo indifferente o cattivo (al contrario, ama molto l’unica donna che non ha ucciso e che è diventata la sua amante, la moglie e i propri figli, e sembra non aver mai superato la perdita della madre a cui era incollato), ma perché c’è qualcosa che non tiene… Landru nega tutte le accuse ma, di fatto, non è in grado di difendersi: “tutto è reale per lui poiché tutto è preinterpretato dal delirio d’interpretazione che organizza il suo mondo. Ciò significa anche che tutto è virtuale, giacché non c’è niente che dia senso, (…) che arresti lo scivolamento infinito delle sue interpretazioni”.[26] Parla, risponde ma, dietro il fiume di parole che pronuncia, quello che emerge è un vuoto.

Aggrappato al suo unico credo — “si ha il diritto di fare qualsiasi cosa per provvedere ai bisogni della propria famiglia” — Landru, di fatto, è come un soggetto morto, non prova sentimenti veri e non capisce quello che fa legame tra gli esseri umani. È in balia di un comando folle, la sua legge personale, rispetto alla quale lui non è che uno strumento, una sorta di macchina. Anche le donne che uccide non sono oggetti erotici o erotizzati, che desidera, sono semplici strumenti per la realizzazione del comando superegoico che lo struttura. Durante il processo arriva a dire: “Sorprende infatti che non sia stata trovata neppure una sola delle mie pretese vittime. Che non siano state trovate tutte, non mi stupisco, ma neppure una, neppure la metà di una … qui allora non capisco!”. Anche noi non capiamo… e a ragione… L’unico legame che per lui conta, a livello immaginario, è quello che ha con l’amante a cui chiede, però, di incarnare il rapporto unico, non-separato, con la propria madre. Anche questi rapporti, però, si annullano dietro quello che sarà il suo leitmotiv difensivo durante il processo: “La vita privata è un muro insormontabile!”. Non riesce a dire altro… Secondo Francesca Biagi, l’impossibilità di sostenere la famiglia con le sue invenzioni, ha fatto sì che Landru, a un certo punto, si scollegasse dall’Altro e che tra i due si aprisse una faglia che li ha separati. “Il reale del soggetto, staccandosi da ogni realtà sociale, ha ordinato i suoi comportamenti in un campo crepuscolare”.[27] La necessità di denaro per sostenere la famiglia e l’influenza della guerra — un’industria di morte — hanno fatto sì che le truffe non bastassero e, quasi senza rendersene conto, così come prima vendeva biciclette, garages o progetti industriali vuoti, in seguito, con cinismo e freddezza, si è dedicato a vendere case, mobili e oggetti dopo aver ucciso le legittime proprietarie. Secondo le perizie psichiatriche dell’epoca, tuttavia, Landru non era pazzo — e questo per lui ha significato la ghigliottina — eppure, la lettura psicoanalitica del suo caso evidenzia le sue fragilità, presenti da sempre, la legge cieca a cui era soggetto e la faglia da cui hanno preso avvio i suoi crimini.

Ma cosa produce come effetto, a livello soggettivo, l’atto criminale in cui il soggetto è assente, in cui scompare in un buco? A posteriori, a partire da quello che gli autori-vittime del reato possono dirne, spesso l’atto può — com’è stato nel caso di Aimée — ridurre o far rientrare un delirio, può stabilizzare un soggetto che, prima, per varie contingenze della vita non lo è più; nei casi più difficili, il soggetto, traumatizzato dal proprio atto, che non riesce a ricollegare con la propria vita precedente e con il proprio essere, scompare nella faglia che si aperta con l’atto: resta chiuso nel silenzio, nel vuoto della significazione… tutto perde senso, perché non si può capire.

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La psicoanalisi, quindi, può aiutare la criminologia e il diritto in quanto può mostrare che il soggetto non è uno, sempre uguale a se stesso, ma, come indica Miller, “il soggetto costituisce una discontinuità nella causalità oggettiva”[28] e, inoltre, non si può mai ricostituire in modo completo, senza buchi, la causalità oggettiva di un atto. Qualcosa resta sempre fuori… rimane un’opacità che è sempre al cuore di ogni decisione e di ogni atto, criminale o meno che sia. Questa opacità sta al cuore della singolarità di ogni individuo, vale a dire del rapporto che il soggetto ha con il proprio godimento. Eppure, per la psicoanalisi, il fatto che il soggetto si faccia responsabile, sia implicato nel proprio atto, che si faccia carico della propria modalità di godimento… è fondamentale ed è ciò che dà senso, eventualmente, a una possibile pena. Per concludere, mi sembra importante sottolineare che la clinica dell’atto, le manifestazioni della faglia soggettiva, non riguardano più solo i casi più gravi. Oggi, la varietà delle identificazioni soggettive, la fragilità dei legami e della presa del simbolico nella vita quotidiana, la maggiore libertà degli stili di vita possono avere come contraltare, in situazioni di difficoltà, di imprevisti e di contingenze varie, la precarietà dei legami e una spinta-all’atto generalizzata.

Un esempio in questo senso è messo in scena nel film Dogman di Matteo Garrone (2018), in cui si vedono due criminali molto diversi fra loro. Il film si ispira a un fatto di cronaca, quello del canaro della Magliana, Pietro De Negri, che aveva un negozio di toelettatura per cani e che uccise brutalmente l’ex pugile dilettante Giancarlo Ricci, dopo averne subito per anni le vessazioni. Nel film Garrone rappresenta questa strana coppia unita da un godimento malsano: da un lato Simone, un personaggio violento e senza limite, comandato solo dalla cocaina, e dall’altro Marcello (che ha gli ha fatto vincere un premio come migliore attore protagonista al Festival di Cannes). Marcello è un personaggio complesso: nel suo rapporto con i cani ha un vero e proprio savoir-faire, ammansisce anche i cani più feroci, li cura, li nutre, li pettina e li massaggia con la stessa dolcezza con cui si relaziona con la figlia. Al contempo, però, subisce il fascino di Simone, una sorta di ideale negativo per lui, a cui procura droga, che lo maltratta e per il quale corre dei rischi contro la legge, quasi senza rendersene conto. La relazione fra i due continua in una sorta di crescendo tragico: Simone, contro la volontà di Marcello, scassina il negozio vicino a quello di Marcello e quest’ultimo — nonostante i suggerimenti della polizia — paga per il violento, facendosi un anno di carcere pur di non tradirlo. Quando esce dal carcere, però, tutto crolla: Marcello viene rifiutato da tutti, è “un infame”, ma lui non capisce… o capisce troppo tardi. E, in un vano tentativo di recuperare la sua parte di refurtiva, tende una trappola a Simone che si ritrova, come un cane, in una gabbia del suo negozio. Di fronte alla rabbia cieca di Simone, Marcello si difende e, in una sorta di abbraccio mortale, lo uccide, con gli stessi attrezzi che usa per ammansire i cani più violenti. Solo alla fine, però, Garrone aggiunge un elemento — l’allucinazione — che permette di rileggere il rapporto perverso tra i due personaggi: Marcello vuole essere riconosciuto, accolto, per quello che ha fatto, perché sa ammansire i bruti, perché anche in lui — nonostante l’aspetto debile e fragile — c’è qualcosa di quella violenza, più forte di lui. In questo dramma contemporaneo, quello che manca o che si manifesta solo in modo precario è il simbolico — poche parole, o di affetto verso i cani o di violenza, neppure la legge rappresentata dalla polizia fa da limite — tutto si colloca a livello della relazione immaginaria, in cui è l’oggetto che comanda (la droga o la forza bruta, la violenza che produce fascinazione o infatuazione) e quindi, inevitabilmente, l’atto.

[1] J. Lacan, “Premessa a ogni sviluppo possibile della criminologia”, ne La Psicoanalisi, n. 51, Astrolabio, Roma, 2012, p. 11.

[2] Ibidem.

[3] J.-A. Miller “Rien n’est plus humain que le crime”, Mental, n. 21, Clamecy, 2008, p. 10.

[4] S. Freud, “Diagnostica del fatto e psicoanalisi” (1906), Opere, vol. 5, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 245.

[5] Ivi, p. 248.

[6] Ibidem.

[7] S. Freud, “Alcuni tipi di carattere tratti dal lavoro psicoanalitico” (1916), Opere, vol. 8.

[8] Ivi, p. 651.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 652.

[11] Ibidem.

[12] J. Lacan, «Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse eb criminologie », Ecrits, p. 128.

[13] Ivi, p. 135.

[14] Ivi, p. 137.

[15] J.-A. Miller, « Préface », in F. Biagi-Chai, Le cas Landru à la lumière de la psychanalyse, Imago, Paris, 2007, p. 13.

[16] J. Lacan, «Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse eb criminologie », Ecrits, p. 132.

[17] Ivi, p. 142.

[18] Ibidem.

[19] F. Biagi-Chai, «Lacan criminologue”, La Cause freudienne, n. 79, 2011, p. 88.

[20] Ivi, p. 90.

[21] J. Lacan, La Séminaire, Livre XV, L’acte psychanalytique, leçon du 29 novembre 1967, inedito.

[22] S. Cottet, « Criminologie lacanienne », Mental, n. 21, op. cit., p. 35.

[23] J. Lacan, «Introduction théorique aux fonctions de la psychanalyse en criminologie », op. cit., p. 148.

[24] Ibidem.

[25] F. Biagi-Chai, Le cas Landru à la lumière de la psychanalyse, Imago, Paris, 2007, p. 47.

[26] Ivi, p. 82.

[27] Ivi, p. 176.

[28] J.-A. Miller “Rien n’est plus humain que le crime”, op. cit., p. 13.

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