Adele Succetti
psicoanalisi lacaniana oggi
20 min readApr 16, 2021

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Seminario Lacan presso Officina Coviello — 11 dicembre 2020 e 15 gennaio 2021

La seconda domanda, che Georgin pone a Lacan, concerne la “struttura” — nozione comune, lui dice, tra la linguistica, la psicoanalisi e l’etnologia — e la possibilità che, “a partire da quella nozione si possa immaginare l’enunciato di un campo comune” che le riunirà. In altri termini, Georgin chiede se la struttura permetterebbe di isolare un campo comune per la linguistica, la psicoanalisi e l’etnologia. La risposta di Lacan chiarisce meglio quale è, negli anni settanta, la sua posizione rispetto alla struttura e allo strutturalismo, che nel primo periodo del suo insegnamento hanno avuto per lui un valore importante. “Seguire la struttura”, dice infatti Lacan, “è assicurarsi dell’effetto del linguaggio” (AE, p. 408), in quanto il linguaggio è strutturato, ha delle regole proprie, a differenza della lingua (uso talvolta non standardizzato) e, ancora di più, della lalingua (vale a dire de lalingua del soggetto, ideoletto personale intriso di godimento). La struttura, però, non dipende da “relazioni prese dal reale” (AE, p. 408) ma piuttosto “si afferra” da “relazioni che fanno parte anch’esse della realtà in quanto esse la abitano in formule che vi sono ben presenti” (AE, p. 408). La struttura, in altri termini, si afferra a partire dal simbolico che non è solo il simbolo ma piuttosto le relazioni presenti, che possono essere riassunte sotto forma di formule, nella realtà. Un esempio in questo senso, sono le formule dei discorsi, che rappresentano dei legami fondamentali, dice Lacan nel suo Seminario XVII, attivi e che operano nella realtà. La struttura, quindi, per Lacan non è una struttura teorica, che si applicherebbe alla realtà, ma bensì una strutturazione che si afferra “dal punto in cui il simbolico prende corpo” (AE, p. 408), vale a dire dal punto in cui il simbolico si innesta nel vivente, cioè nel corpo del parlessere.

Sottolineare la connessione, addirittura l’innesto del simbolico nel corpo, permette però a Lacan di chiarire e di sventare un’illusione molto diffusa: quando infatti si fa del “linguaggio una funzione del collettivo” (AE, p. 40) — il linguaggio come ciò che unisce gli esseri parlanti, ad esempio — si suppone un Uno del collettivo, un Uno “grazie a cui la realtà si raddoppia per il fatto che se la rappresenta”. (AE, p. 408) Il che significa suppore un rapporto tra la realtà e il linguaggio (che la rappresenterebbe) che, di fatto, corrisponde al “vespaio dell’idealismo” (AE, p. 408), in cui tutto ha senso e, per così dire, non se ne esce… E anche la cosiddetta “conoscenza” (AE, p. 408), per questo motivo-riflesso di sé, è, dice Lacan, “nata morta” (AE, p. 408). Sia l’idealismo che la conoscenza, infatti, si fondano sull’illusione di una corrispondenza (di struttura) tra sé e il mondo, tra sé e l’Altro che, però, non porta a niente di nuovo in quanto corrisponde piuttosto all’”unità di oscurantismo” di cui aveva accennato nella precedente risposta. Nell’Altro, in altri termini, si trova il sé e su di esso si proiettano i propri schemi. Altra cosa è la struttura così come la intende Lacan, ovvero, come lui dice “Di un’altra struttura è il sapere che, il reale, lo circoscrive, per quanto possibile, come impossibile. È la mia formula, come si sa” (AE, p. 408). Il sapere, cioè, sia esso inconscio oppure matematico si distingue nettamente dalla conoscenza (immaginaria), come il reale dalla realtà. Solo il sapere, fatto di lettere e di scrittura, secondo Lacan, permette di circoscrivere il reale come impossibile — rispetto al quale non è possibile conoscervisi, il reale come impossibile da conoscere — dimostrandolo. Il reale, in altri termini, non permette il rapporto (di conoscenza e sessuale), è fuori conoscenza ma si può dimostrare, circoscrivere a partire proprio dall’impossibile. Questo, tra le altre cose, fa sì che la “via sia libera da qualsiasi idealizzazione” (AE, p. 408); il reale come impossibile impedisce proprio questo. Non si tratta, però, aggiunge Lacan, di “rinchiudere gli strutturalisti” (AE, p. 408) in una categoria della storia del sapere (come gli esistenzialisti, ad esempio) in quanto, come sottolinea Lacan, “chiunque ha la sua chance di insurrezione se si orienta a partire dalla struttura, poiché in legge (o per legge, o in diritto) essa fa la traccia del difetto di un calcolo a venire” (AE, p. 408). La struttura, cioè, in ogni caso permette l’insurrezione in quanto fa, costituisce la traccia di una mancanza, di un buco… che esiste sempre nella struttura (come un nodo che si costituisce attorno a un buco). Queste prime frasi, dice comunque Lacan, “prefazionano l’accoglienza che farò al pool che lei si immagina” (AE, p. 409), vale a dire al pool (vasca, aggregato) di linguistica, psicoanalisi ed etnologia.

Per cominciare Lacan definisce il “corpo del simbolico, che si deve intendere non come una metafora” (AE, p. 409). È un’affermazione fondamentale, il corpo del simbolico, il simbolico nella sua corporeità, non è una metafora, è da prendere alla lettera in quanto, aggiunge poi Lacan, “solo esso isola il corpo, da prendere in senso ingenuo, cioè colui il cui essere se ne sostiene non sa che è il linguaggio che glielo conferisce, al punto che non ci sarebbe, se non potesse parlarne” (AE, p. 409). Il simbolico, il linguaggio con il suo corpo, in altri termini, è ciò che conferisce un corpo agli esseri parlanti, che altrimenti sarebbero solo degli organismi… senza parole e senza corpo. Il linguaggio, quindi, è ciò che conferisce un corpo agli esseri parlanti e, al contempo, a tutto quello che viene detto, che altrimenti non esisterebbe. “Il primo corpo (quello del linguaggio) fa il secondo (quello dell’uomo) in quanto vi si incorpora” (AE, p. 409). Da cui deriva, però il fatto che il primo, dopo essere stato incorporato e quindi dopo aver conferito un corpo all’essere parlante, resta altro, resta cioè “incorporeo” (AE, p. 409). Il termine “incorporeo” che Lacan utilizza è molto particolare e, nello specifico, deriva dall’elaborazione degli stoici (studiosi del linguaggio prima ancora che la linguistica esistesse) che, oltre alle realtà corporee, definiscono quattro categorie di incorporei, ovvero l’esprimibile, il vuoto, il luogo e il tempo.

L’incorporeo, spiega infatti Lacan, è il termine con cui gli stoici hanno “saputo (…) siglare (signer) in cosa il simbolico attiene al corpo” (AE, p. 409), in che modo cioè il simbolico è in relazione con il corpo. Analogamente, infatti, all’esprimibile, anche il vuoto, il luogo e il tempo sono delle funzioni o comunque le condizioni necessarie per l’esistenza e per l’azione dei corpi, essi delineano uno spazio in cui qualcosa può stare.

Incorporea, ad esempio, afferma Lacan, è la “funzione che fa realtà della matematica” (AE, p. 409), vale a dire la relazione fra dominio e codominio, che si può rappresentare con f: X → Y, e che rappresenta una legge in quanto si realizza nella realtà. L’applicazione della funzione incorporea (simbolica) ha lo stesso utilizzo della topologia e anche della logica. Siamo a livello, ovviamente, delle regole matematiche, delle funzioni simboliche o strutturali. Quando, però, tali funzioni incorporee vengono incorporate, quando cioè entrano nel corpo, le cose cambiano sostanzialmente. La struttura, infatti, quando è incorporata “fa l’affetto” (AE, p. 409), produce cioè un affetto, a partire, afferma Lacan, “da ciò che dell’essere si articola, in quanto non c’è che essere di fatto, vale a dire di essere detto in qualche modo” (AE, p. 409). L’essere, cioè, dipende dal fatto di essere detto (dal significante), è legato in tutto e per tutto al fatto di essere detto e, in questo, produce un affetto, cioè un effetto sul e nel corpo. “Da cui”, afferma Lacan, “risulta che del corpo, (il linguaggio) è secondo, sia esso (cioè il corpo) morto o vivo” (AE, p. 409). È necessario, cioè, il linguaggio, che trasforma un organismo in un corpo, ma poi il linguaggio è secondo — successivo — rispetto al corpo in cui si è incarnato mentre il corpo, dopo che il linguaggio si è incarnato, resta tale anche da morto, anzi è mortificato, in un certo qual modo, dal suo trattamento simbolico. L’essere parlante nell’uomo, il suo essere affetto dal linguaggio, infatti, si può datare a partire dalla “sepoltura” (AE, p. 409), grazie a cui, in una sola specie a differenza di tutte le altre, “il corpo morto vi mantiene quello che al vivente dava il carattere, cioè il corpo” (AE, p. 409). Solo l’atto simbolico della sepoltura fa sì che il “corpse resti” (AE, p. 409), che non diventi cioè carogna (come nel caso degli animali), che rimanga quindi corpo sacro, nel senso di corpo affetto dal linguaggio. Il corpo dell’essere parlante è un corpo che, aggiunge Lacan, il “linguaggio corpsificava” (AE, p. 409), espressione mutuata dall’inglese corpse che vuol dire cadavere ma che risuona, più in francese che non in italiano, con il termine corps, corpo. Da un lato, cioè, è necessario il simbolico perché l’organismo diventi un corpo (umano), dall’altro il simbolico mortifica il vivente, in quanto produce una perdita di godimento.

Questa, quindi, è in primo luogo la struttura incorporea che tocca il corpo vivente, il simbolico che si innesta nel corpo e che lo rende umano. Il corpo, dice ancora Lacan, “se lo si prende sul serio è anzitutto quello che può portare il marchio (l’impronta, la marca…) tale da sistemarlo in una successione (suite) di significanti” (AE, p. 409). Quindi, il corpo è innanzitutto il luogo in cui si fissa un marchio, un marchio che lo rende unico nella serie dei significanti ma che, al tempo stesso, lo colloca in una serie di significanti (ad esempio la serie delle generazioni). “A partire da questo marchio, il (corpo) è il supporto della relazione, non eventuale ma necessaria, giacché è comunque supportarla anche se ci si sottrae” (AE, p. 409). Questa frase è fondamentale in quanto indica che, per Lacan, dal momento in cui il corpo è tale, e non più organismo, esso è supporto del marchio e quindi della relazione — necessaria, inevitabile (anche se ci si sottrae) — tra i significanti, che può essere rappresentata dalla catena significante S1-S2. Il marchio, inoltre, introduce un taglio, un vuoto, da cui emerge il soggetto dell’inconscio, soggetto alla catena significante. Per spiegare questa relazione necessaria, Lacan utilizza il suo vocabolario degli anni ’70 che, in realtà, rende le cose un po’ più complesse. Per questo mi limito alle sue definizioni: “Meno-Uno designa il luogo dell’Altro” (AE, p. 409), dell’Altro del simbolico che manca o che, detto in un altro modo, non esiste in quanto completo. É l’Altro barrato, bucato, del simbolico. “Dall’Uno-in-Meno il letto è fatto all’intrusione che procede dall’estrusione; è il significante stesso” (AE, p. 409). In altri termini, potremmo dire che l’Uno-in Meno del marchio dà avvio (e spazio) alla relazione tra i significanti, e che quindi è il significante, con le sue caratteristiche diacritiche e strutturali, sul corpo, con i suoi effetti di mortificazione, di negativizzazione o perdita di godimento. Questa operazione del simbolico sull’essere parlante è quello che J.-A. Miller chiama forclusione generalizzata: l’impatto della lingua sull’organismo produce il corpo lasciandovi un’apertura, una faglia, un buco che Lacan chiama troumatisme, il traumatismo del buco del simbolico.

Ben diverso è il destino di un altro tipo di carne: da quei corpi, infatti, dice Lacan, “salgono (…) le nubi, acque superiori, del loro godimento, cariche di fulmini che ridistribuiscono corpo e carne” (AE, p. 409). Oltre al corpo reso tale dal linguaggio, infatti, c’è anche quello che resta fuori e che è dell’ordine del godimento: nubi, acque, fulmini… che ridistribuiscono corpo e carne o, detto in altri termini, che ridanno carne al corpo mortificato dal simbolico. Come indica J.-A. Miller, il termine “nubi” fa riferimento ai fenomeni celesti a cui gli antichi attribuivano delle funzioni simboliche, un “sembiante” per eccellenza e, nel testo “Radiofonia”, esso serve ad “illustrare il godimento in quanto si separa dal corpo significantizzato”. “Il significante marchia la carne. Sulla terra resta il cadavere che è il corpo dell’essere parlante privato di libido”, da cui emergono le nubi di godimento. Come indica É. Laurent nel suo testo, Il rovescio della biopolitica, “per l’essere che parla e che domanda, il corpo manca/non riesce ad iscrivere tutto il godimento. Questa resterà in eccesso, disfunzionale rispetto al corpo”. (É. Laurent, L’Envers de la biopolitique, p. 15) Per sostenere questa lettura psicoanalitica del corpo parlante, Lacan ricorre, ancora una volta all’esempio della sepoltura antica. “L’insieme vuoto delle ossa (o dei resti) è l’elemento irriducibile con cui si ordinano altri elementi, gli strumenti del godimento, collane, calici, armi” (AE, p. 410). La sepoltura antica, quindi, contiene le ossa, i resti (marchio del simbolico) ma, da sempre, anche ciò che è più proprio dell’essere parlante, ovvero i suoi strumenti del godimento, di quello che non si riduce al corpo in quanto negativizzato dal simbolico, vale a dire: le collane, i calici, le armi… strumenti del godimento che, da sempre, accompagnano il corpo dell’essere parlante.

A questo punto del testo, Lacan si riferisce ancora una volta a Georgin indicandogli che, con questo suo sviluppo/elaborazione, egli ha “animato la struttura” (AE, p, 410), le ha dato anima, corpo, a tal punto che nulla lascia presagire un’unione possibile fra linguistica, psicoanalisi ed etnologia. In effetti, la linguistica “fornisce il materiale dell’analisi, addirittura l’apparecchio con cui vi si opera” (AE, p. 410) ma, anche se l’inconscio — come diceva Lacan nella prima risposta — è la condizione della linguistica, quest’ultima “non ha comunque la minima presa su di esso” (AE, p. 410). Per aver presa sull’inconscio, per avere effetti su di esso, non basta cioè l’approccio linguistico, l’operazione analitica che la linguistica permette… ci vuole ben altro, altro che riesca a toccare il corpo e le sue modalità di godimento. La linguistica, infatti, come già indicava nella prima risposta a Georgin, “lascia in bianco/lascia vuoto ciò che vi fa effetto: l’oggetto a” (AE, p. 409), oggetto a, causa del desiderio ma anche — soprattutto negli anni ’70 — oggetto a che sta ad indicare i godimenti del corpo, tutto quello cioè che produce effetti nel corpo. Questo oggetto indica la differenza tra la linguistica e la psicoanalisi in quanto quest’ultima non si limita all’analisi della struttura linguistica dell’inconscio ma ha come sua “la posta dell’atto analitico” (AE, p. 410), vale a dire dell’atto che, in qualche modo, può operare a livello del godimento proprio perché ogni atto parte dall’oggetto o comunque mette in gioco l’oggetto a.

Per mostrare quella che lui chiama la “carenza del linguista” (AE, p. 410), Lacan sottolinea che “il particolare della lingua è ciò per cui la struttura ricade sotto l’effetto di cristallo” (AE, p. 410), di cui aveva già accennato nella sua precedente risposta. Il particolare della lingua, cioè, secondo Lacan, fa sì che la struttura subisca effetti di precipitato, di attrazione, in senso chimico, di alcuni significanti su altri, subisca cioè il peso maggiore di alcuni significanti oppure di altri… Per questo Lacan fa un’affermazione forte rispetto a Saussure ovvero che il fatto che “qualificare, questo particolare (della lingua) come arbitrario è un lapsus che Saussure ha commesso […in quanto..] si proteggeva [….] dal discorso universitario” (AE, pp. 410–411) utilizzando proprio il termine di “arbitrario” che, secondo Lacan, è il termine “che domina il discorso del padrone” (AE, p. 411). Per proteggersi dal discorso universitario che universalizza tutto, in altri termini, Saussure ha dato più valore all’autonomia del significante, al suo carattere arbitrario, vale a dire slegato dal corpo e dal soggetto, mentre di fatto, in segreto, lavorava sugli anagrammi che tutto mostrano salvo l’autonomia significante. A livello del discorso del padrone, infatti, quando si sostiene l’arbitrarietà del significante, si può ritenere che “un discorso modella la realtà senza supporre nessun consenso del soggetto, che lo divide, anche se ne ha, per il fatto che lo enuncia e che si pone come enunciandolo” (AE, p. 411). Il discorso del padrone, e la linguistica che si fonda sull’arbitrarietà del significante, in un certo senso, sostengono che il significante non ha effetti sul soggetto che, invece — come l’esperienza della psicoanalisi permette di cogliere — viene diviso dal significante, sia per il fatto che lo enuncia sia nell’atto stesso di enunciarlo, e inoltre — cosa da non dimenticare, soprattutto nella clinica — a cui il soggetto acconsente… oppure no. “Solo il discorso che si definisce per il giro che gli dà l’analista, manifesta il soggetto come altro, cioè gli consegna la chiave della sua divisione” (AE, p. 411) — questo è il potere della parola nel discorso dell’analista, in cui l’analista occupando il posto dell’oggetto a, fa emergere la divisione soggettiva che è costitutiva dell’essere parlante. In questo senso, attraverso la parola, egli consegna al soggetto la chiave della sua divisione, lo manifesta come altro. La scienza, che Lacan rappresenta invece con il discorso dell’isterica, rendendo “il soggetto (diviso) padrone, lo ruba” (AE, p. 411) in quanto il suo desiderio (espresso proprio nella barra), come avviene con Socrate, non fa altro che “barrarmelo senza rimedio” (AE, p. 411), vale a dire produrre la divisione…. come condizione ultima dell’essere parlante.

Sul lato dell’etnologia, invece, “non c’è la minima barriera” (AE, p. 411), per cui aggiungere l’inconscio, nella forma dei sogni, all’analisi etnologica non produrrebbe “nessun effetto di foratura ma bensì di pozza” (AE, p. 411). Mentre l’inconscio buca il sapere universitario, buca il sapere universale, e divide il soggetto, nell’ambito dell’etnologia, dice Lacan, una “ricerca/inchiesta che si limita alla raccolta di un sapere, la nutriremmo di un sapere della nostra botte” (AE, 411), vale a dire di un sapere filtrato dai nostri fantasmi. La ricerca etnologica, in un certo senso, recensendo il sapere che cerca, trova solo quello che può vedere… Anche dalla psicoanalisi, però, ci avverte Lacan, non ci si deve attendere di “recensire i miti che hanno condizionato un soggetto, sia esso cresciuto nel Togo o nel Paraguay” (AE, p. 411) poiché l’unico mito che resta nel discorso della psicoanalisi è l’Edipo freudiano che, ovviamente, può essere attualizzato e rappresentato con il discorso del padrone: un S1 al posto di comando (il Padre) che serve per tappare la faglia del desiderio inconscio e il rapporto impossibile del soggetto con il sesso e con le generazioni. Ad ogni modo, aggiunge Lacan seguendo il suo amico e maestro Lévi-Strauss, il materiale del mito — quello che il mito ricopre — in quanto tale è “intraducibile” (AE, p. 411) nel senso che alloggia un reale che non può essere tradotto, e neppure detto, anzi che usa il mito per dirsi. Per questo motivo etnologia e psicoanalisi non hanno molto in comune. La cura, infatti, ribadisce Lacan, si realizza solo “in una lingua particolare (che si chiama: positiva)” (AE, p. 412) e questo “fa garanzia che ‘non c’è metalinguaggio’, secondo la mia formula” (AE, p. 412). La lingua della cura, infatti, è la lingua concreta, la lingua parlata e in essa “l’effetto di linguaggio vi si produce solo dal cristallo linguistico” (AE, p. 412), vale a dire dal potere di attrazione, dal peso che ogni elemento linguistico ha in una determinata lingua per un determinato soggetto, diverso per ognuno. Ciò che la rende universale è solo il fatto della sua topologia, in forma di striscia di Moebius, o comunque di pieni e vuoti, in cui “un discorso vi si sposta”, (AE, p. 412), nel senso che un discorso vi può circolare.

Per questo motivo, il mito — dal punto di vista della psicoanalisi lacaniana — non vi trova spazio, addirittura rifiuta tutto quello che Lacan ha sviluppato con il concetto di “istanza della lettera nell’inconscio” (AE, p. 412). Il mito, infatti, non si serve né della metafora né della metonimia, come dice Lacan “non condensa, spiega. Non sposta, alloggia” (AE, p. 412), vale a dire che non ha nulla a che vedere con la topologia del soggetto, in quanto effetto della topologia di una lingua, perché non si fonda sul vuoto, su quello che non esiste, ovvero il rapporto sessuale, che Lacan qui indica come “sfondo” (AE, p. 412). Così, dice ancora Lacan, “nella psicoanalisi (perché anche nell’inconscio) l’uomo della donna non sa niente, né la donna dell’uomo. Al fallo si riduce il punto di mito in cui il sessuale si fa passione del significante” (AE, p. 412). Detto in altri termini: non c’è rapporto tra i sessi, mentre il fallo è il “punto di” che, in francese, è anche una negazione — niente di — mito che traduce semplicemente il fatto che il fallo è il significante della significanza, un sembiante che esprime la passione del significante e di questo tutti i miti sono pieni; ed è questo che cercano (e che trovano) gli etnologi, mentre il loro obiettivo è quello di “fare scritto di un sapere la cui essenza è che non si trasmette per iscritto” (AE, p. 412), vale a dire un sapere che si trasmette oralmente. Jacques-Alain Miller sottolinea, a questo proposito, che “la passione del significante è la sottomissione del sessuale all’ordine del linguaggio”, che lo determina e che si insinua nel sessuale stesso.

A questo punto Lacan, che vuole dare spazio al godimento, prende un po’ le distanze dalla struttura: anche se ha dato valore, e una lettura nuova, al significante, questo non significa che il segno non lo interessi… al contrario, il segno lo interessa perché esso ha a che vedere proprio con il corpo parlante. “Se il significante rappresenta un soggetto, secondo Lacan (non un significato) e per un altro significante (il che significa: non per un altro soggetto), allora come può, tale significante, cadere al segno che, a memoria di logico, rappresenta qualcosa per qualcuno?” (AE, p. 413). Se il segno può essere rappresentato dal: “Non c’è fumo senza fuoco”, in che modo si passa dal significante S1-S2 al segno che, invece, mette in gioco qualcosa del reale? Come indica Lacan, in quanto “psicoanalista, è del segno che sono avvertito” (AE, p. 413). Potremmo dire del segno linguistico quando cade come un oggetto fuori senso, fuori catena significante, da un lato si mostra come significante Uno e, dall’altro, lascia apparire il vuoto dell’oggetto. Un oggetto condensatore di godimento, che ci dice cioè qualcosa del godimento del soggetto. Il segno, come indica infatti Pierre-Gilles Guéguen, “fa segno della presenza del godimento. Il fumo (…) fa segno del godimento del fumatore”.[1] Come segnala Philippe La Sagna, il “non c’è fumo senza fuoco” è il modello di sillogismo nyaya nella logica indù.[2]

L’analista, quindi, “è avvertito del segno” (AE, p. 413) e, aggiunge Lacan, “se mi segnala qualcosa che devo trattare, so che ho trovato nella logica del significante [qualcosa] per rompere il leurre del segno” (AE, p. 413), vale a dire l’inganno, l’esca…, il tranello a cui si crede e che il segno rappresenta. Questo qualcosa che permette di rompere l’inganno è “la divisione del soggetto: divisione che attiene al fatto che l’altro sia quello che fa il significante” (AE, p. 413). Ciò significa, banalmente, che l’inganno del segno — qualcosa da trattare — si sgonfia con l’uso del significante stesso, in quanto il significante fa entrare in campo necessariamente la divisione del soggetto, gli equivoci, i malintesi. Il significante rende il soggetto altro a se stesso, in quanto “è uno solo dall’altro” (AE, p. 413).

La divisione soggettiva, però, non si verifica solo a livello del significante, laddove il soggetto dell’inconscio si colloca nel buco, nello iato tra i due significanti. La divisione soggettiva è attiva ed efficace proprio perché essa, come dice Lacan, “ripercuote/riverbera i destini dell’assalto/assedio che, tale quale, l’ha confrontata con il sapere del sessuale — traumaticamente” (AE, p. 413) in quanto tale assalto è condannato al fallimento poiché “il significante non è adatto a dar corpo a una formula qualsiasi del rapporto sessuale” (AE, p. 413). In altri termini, la divisione soggettiva rinvia alla castrazione/impossibile dovuta al fallimento del significante a far fronte al sessuale. Il sessuale costituisce un assalto, un assedio per l’essere parlante perché esso fa trauma sempre, non ci sono le parole per dirlo, non esiste rapporto sessuale che si possa scrivere a livello dell’inconscio. É interessante notare il fatto che Lacan parla del sapere (inconscio) del sessuale … ciò che fa buco in quanto non esiste la formula del rapporto. “Da cui”, aggiunge, “la mia enunciazione: non esiste rapporto sessuale, sottinteso: formulabile nella struttura” (AE, p. 413). In risposta alla domanda di Georgin sulla struttura, Lacan mostra quindi che la struttura in psicoanalisi è bucata, si fonda cioè su una formula che non esiste, un buco nel sapere. E anche l’analista, interpretando “quel qualcosa”, cioè l’oggetto, quando “fa intrusione di/con il significante” (AE, p. 413), in realtà deve tenere a mente che è “faglia, e di struttura” (AE, p. 413). L’essere parlante, infatti, è bucato, è faglia di struttura, non-tutto in quanto non tutto può dirsi a livello del significante.

Questa lettura della struttura bucata, sottolinea però Lacan, deriva dal concetto stesso di inconscio, così come Freud l’aveva teorizzato, in cui si tratta sempre di un due: o l’uno o l’altro, come l’operazione che Lacan chiama dell’alienazione e che traduce l’alienazione del soggetto parlante all’Altro del linguaggio. Questa stessa alienazione determina o produce il passaggio dal significante al segno, come recupero della parte perduta, dell’oggetto che cade. Per questo motivo, suggerisce ancora Lacan, bisogna “procurare (qualcuno) con urgenza” (AE, p. 413) al soggetto, nella fattispecie un analista lacaniano. È necessario, cioè, qualcuno che operi a livello dell’oggetto in quanto — come indica bene Lacan — “ci basterebbe la salita allo zenith sociale dell’oggetto detto da me piccolo a, con l’effetto di angoscia provocato dallo scavamento di cui lo produce il nostro discorso, in quanto manca alla sua produzione” (AE, p. 414). Si tratta di una frase complessa che, però, almeno nella parte della “salita allo zenith sociale dell’oggetto piccolo a” è piuttosto nota o comunque diffusa in ambito lacaniano. Con questa affermazione, Lacan sottolinea come, con il discorso del capitalista, unito e sostenuto dagli sviluppi tecnico-scientifici, l’oggetto piccolo a, oggetto perduto a seguito e in concomitanza dell’alienazione significante, nucleo vuoto dell’essere parlante, abbia assunto forme concrete e diffuse, oggetti gadgets, oggetti che si innestano sugli oggetti pulsionali, ma, a differenza di questi ultimi, oggetti concreti che tappano il vuoto, che lo riempiono… talvolta provocando angoscia. Lo scavamento prodotto dal discorso dell’analista introduce invece il vuoto e, in questo, “manca alla sua produzione”, quella che avviene invece nel discorso del padrone.

Come indica infatti Lacan, “che sia da una tale caduta che il significante cade al segno, da noi è fatta l’evidenza/prova del fatto che, quando non si sa più a che santo votarsi (in altri termini: quando non c’è più significante da friggere, è quello che il santo fornisce), vi si compra qualsiasi cosa, una macchina ad esempio, con cui far segno d’intelligenza (…) della propria noia, cioè dell’affetto del desiderio di Altra-cosa” (AE, p. 414). Il significante — sotto cui corre il desiderio –, quindi, cade al segno, cioè al godimento, quando il significante perde la sua funzione, il suo valore, e al suo posto si acquista un oggetto da mettere sul buco del desiderio di Altra-cosa. Questa osservazione, di psicoanalisi applicata alla realtà per così dire esteriore, tuttavia “non dice niente dell’oggetto piccolo a perché è deducibile solo a misura della psicoanalisi di ciascuno, il che spiega il fatto che pochi analisti lo maneggiano bene, anche se lo hanno preso dal mio seminario” (AE, p. 414). Per questo motivo, Lacan utilizza poi quella che lui chiama una “parabola” (AE, p. 414).

Per riprendere l’esempio del fumo, segno o segnale, in opposizione allo statuto del significante, Lacan ribadisce che il fumo “fa segno” (AE, p. 414) al fuoco e quindi il fumo è “il segno, perché non del fumatore? Ma forza, del produttore del fuoco: sarà più materialista e dialettico a piacere” (AE, p. 414). Il fumo, quindi, come le nubi del godimento descritte in precedenza, fa segno del godimento del fumatore e, anche, del produttore del fuoco. La cosa è complessa, come mostra l’esempio di Ulisse che, rientrando ad Itaca, vede il fumo sull’isola… che ovviamente non è diretto o fatto solo per lui. È necessario, quindi, come suggerisce Lacan, “più rigore sul principio del segno” (AE, p. 414). Se si considera, infatti, “il mondo come fenomeno” è inevitabile che “il noumeno … faccia segno solo al supremo qualcuno” (AE, p. 414) e, in questo modo, mostri la povertà di quanti “suppongono che tutto fa segno: è il qualcuno di nessun luogo che deve architettare/complottare tutto” (AE, p. 414), in altri termini l’Altro pieno e consistente. Come suggerisce Lacan, per capire meglio la questione del segno, si dovrebbe dire: “non c’è fumo senza fuoco”, così come si può dire “non c’è preghiera senza dio”.

Ed è “curioso” aggiunge Lacan con ironia, che gli incendi nelle foreste non mostrino “il qualcuno a cui il sonno imprudente del fumatore si rivolge” (AE, p. 415). E che “sia necessaria la gioia fallica, l’urinazione primitiva con cui l’uomo, così dice la psicoanalisi, risponde al fuoco” (AE, p. 415) per far capire che ci sono “altre materie per fare soggetto rispetto agli oggetti che la vostra conoscenza immagina” (AE, p. 415). Imitando l’Amleto di Shakespeare e, nello specifico, il verso che dice: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”, Lacan ribadisce che il segno sta ad indicare l’oggetto di godimento e che questo è ben diverso rispetto a qualsiasi immaginazione. Addirittura, indica Lacan, facendo riferimento alla “prospettiva marxista del plus-valore” (AE, p. 415), “quando si riconoscerà il modo di plus-godere che fa dire «ça è qualcuno», saremo sulla via di una materia dialettica forse più attiva della carne da Partito, utilizzata come baby-sitter della storia” (AE, p. 415). In questo senso, a suo avviso, la psicoanalisi è sovversiva, molto più del marxismo: la psicoanalisi, infatti, con la sua invenzione della passe può illuminare in che modo “ça è qualcuno”, ovvero un plus-godere, un godimento singolare è qualcuno. Dopo l’incorporazione del linguaggio che mortifica il godimento, infatti, come indica Miller, c’è il plus-godere, il resto di godimento che resta fuori mortificazione ma che conserva comunque l’impronta del significante. Questo è il godimento permesso all’essere parlante, di cui l’analista è avvertito e che, con il suo operare, aiuta l’analizzante a circoscrivere.

[1] P.-G. Guéguen, “Radiophonie”, questions 1 et 2, Quarto, 115–116, p. 100.

[2] Cfr. Ph. La Sagna, R. Adam, Contrer l’universel, L’Etourdit de Lacan à la lettre, Editions Michèle, Paris, 2020, p. 78.

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