Adele Succetti
psicoanalisi lacaniana oggi
13 min readJul 1, 2020

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Violenze e discorsi — Sezione clinica di Milano — 27 giugno 2020

Violenze e discorsi è il tema che, con Piero Bossola, abbiamo scelto di affrontare nei due incontri che terremo nel corso della Sezione clinica di Milano. Era un tema già molto attuale lo scorso anno, quando lo abbiamo scelto, e ora, dopo quanto successo da marzo ad oggi, soprattutto in Lombardia, il tema delle violenze e dei discorsi mi sembra ancora più impellente. Abbiamo scelto i due sostantivi al plurale perché, come vedremo, le violenze e i discorsi sono molteplici, sono vari.

Per cominciare, citerei due affermazioni di Lacan che ci mostrano la complessità, addirittura l’annodamento, tra le violenze e i discorsi. Anzitutto in un testo del 1954, “L’introduzione al commento di Jean Hyppolite sulla Verneinung di Freud”, Lacan dice: “Non sappiamo forse che ai confini dove la parola si dimette, inizia il dominio della violenza, e che questa vi regna già, anche senza che ve la provochi?”. Già in questa prima frase, Lacan indica che parola, linguaggio e violenza sono interconnessi: il linguaggio è essenziale come barriera alla violenza ma, al tempo stesso, il dominio della violenza, qualcosa che è dell’ordine del fuori simbolico, vi regna già, è già presente in esso, è potremmo dire strutturale. Il simbolico limita la violenza, la argina, così come il diritto e le leggi, come indicava Freud nel suo carteggio con Einstein, la arginano, dando origine, però, alla violenza-forza della comunità, un altro aspetto del disagio delle civiltà. Nel caso del soggetto, invece, la violenza, che viene limitata dal linguaggio, in realtà è interna al soggetto stesso in quanto ha a che fare, è una manifestazione — come vedremo meglio in seguito — della pulsione, del godimento. Questa è l’elaborazione stessa del Disagio della civiltà: c’è una forza pulsionale interna al parlessere che deve trovare il modo di convivere nella civiltà, che la civilizza, all’epoca di Freud e in luoghi meno democratici di quelli in cui viviamo noi anche ora, con la forza. Anche nel Seminario V dedicato alle formazioni dell’inconscio, Lacan accenna alla violenza sottolineando, però, più l’opposizione tra violenza e parola: “la violenza è proprio quello che è essenziale nell’aggressione (…) Non è la parola è persino precisamente il contrario” (J. Lacan, Le Séminaire. Livre V, Les formations de l’inconscient, pp. 459–460).

L’altra affermazione di Lacan che mi sembra importante per circoscrivere il campo delle violenze e dei discorsi si trova già ne “La scienza e la verità” del 1965–66 in cui Lacan parla dell’“effetto di comando” proprio del significante: il significante (che poi chiamerà significante padrone) comanda e, in questo realizza, una forma di violenza, quella eventualmente con cui abbiamo a che fare nelle cure che dirigiamo, dal momento che il soggetto si lamenta del potere, della violenza di alcuni significanti che gli sono piovuti addosso nel corso della sua esistenza producendo dei traumi. Si tratta, ovviamente, di un’altra forma di violenza, non fisica, ma che può avere anch’essa effetti nel corpo….

Anzitutto il termine violenza, dal latino violentia, derivato dal verbo violare, che, secondo la Treccani sta ad indicare: Usare violenza a persone trasgredendo norme morali e di rispetto della loro integrità fisica e dignità umana; usare violenza sessuale contro qualcuno, violentare: b. Riferito, come compl. oggetto, a cose degne di particolare rispetto, con sign. analogo a quello di profanare: v. una chiesa, un altare, l’ostia consacrata, manometterli sacrilegamente, farli segno ad atti di violenza sacrilega; 2. a. Forzare, invadere usando la violenza, e comunque non rispettando la legalità e le norme esistenti: b. Trasgredire, non rispettare quanto è specificamente tutelato da leggi o da obblighi e doveri di natura sociale o morale, e le leggi e gli obblighi stessi: v.

Il termine violènza s. f. [dal lat. violentia, der. di violentus «violento»], invece, significa: 1. Con riferimento a persona, la caratteristica, il fatto di essere violento, soprattutto come tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale, facendo anche ricorso a mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di costringere alla sottomissione, coartando la volontà altrui sia di azione sia di pensiero e di espressione, o anche soltanto come modo incontrollato di sfogare i proprî moti istintivi e passionali. Per estens., riferito ai sentimenti e alle loro manifestazioni, forza particolarmente intensa: reprimere la v. degli istinti, della passione; sfogare, contenere la v. dell’ira. É interessante notare che la radice del termine violenza deriva da vis, che significa anche forza, energia, da cui proviene anche il termine vir, uomo. Come dire che la violenza, l’energia è qualcosa che specifica l’uomo, l’essere parlante.

Per affrontare il tema delle violenze oggi, ho deciso di partire da un testo di riferimento che forse avrete già letto, ovvero l’articolo del 18 marzo 2017 di Jacques-Alain Miller sui “Bambini violenti” (cfr. AA.VV., Enfants violents, Institut psychanalytique de l’Enfant, Navarin, Paris, 2019), che di recente è stato pubblicato in un testo edito dalla Scuola Lacaniana, Adoviolenza. In questo testo Miller ci offre degli spunti interessanti per cominciare a riflettere sulle violenze nel mondo contemporaneo — che ormai sono presenti in ogni luogo, nelle istituzioni, nei luoghi in cui si diffondono i discorsi e anche talvolta laddove si fa cultura, nel mondo e nei social.

Due modalità della violenza

Ci sono, infatti, ci indica Miller, due modalità fondamentali della violenza che si tratta di reperire ogni volta che ci troviamo di fronte a un atto violento. La prima modalità è quella della violenza come sintomo, ovvero come una soddisfazione sostitutiva che viene al posto di qualcos’altro. É la violenza come spostamento di un godimento rifiutato che, non essendo riuscito a realizzarsi, si realizza nella forma sostitutiva del sintomo. Di fatto, la modalità sintomatica è quella per così dire normale in quanto, come diceva Lacan in Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio, “la castrazione, significa che il godimento deve essere rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della legge del desiderio”. Questa frase, apparentemente complessa, può essere tradotta nel senso che, per il fatto stesso di essere nel linguaggio, gli esseri parlanti hanno dovuto rinunciare al godimento primo, il godimento dell’oggetto perduto, che è un godimento mitico. All’inizio, infatti, c’è una perdita strutturale, che con Lacan possiamo chiamare castrazione o rinuncia al godimento, mentre il godimento che gli esseri parlanti possono raggiungere, e che di fatto possono tollerare, è invece quello limitato dal desiderio e dal principio di piacere. Si tratta di un godimento, per così dire, vivibile … che nulla ha a che vedere con il godimento mortifero che, invece, si manifesta nelle violenze e negli eccessi, di ogni tipo, nel troppo…. Come spiega bene Miller, la castrazione — che è la legge e la condizione umana — corrisponde al rifiuto del godimento nel reale per una soddisfazione — sostitutiva, ma vivibile — sotto l’egida del simbolico, vale a dire entro i limiti del simbolico. Questa è la soddisfazione sintomatica… che ogni persona trova per sopperire, per poterci fare cioè con la rinuncia al godimento che l’essere al mondo in quanto esistenza gli impone. In questo senso, Miller afferma che l’essere umano in quanto parlessere è costretto ad essere sintomatico… ogni sua soddisfazione, ogni suo godimento, è sintomatico, vale a dire, viene al posto di quello che è un buco, viene cioè a tappare un buco iniziale.

Un’altra modalità della violenza, non sintomatica e non sostitutiva, dice ancora Miller, è invece la violenza “che non è un sostituto della pulsione”, ma che è piuttosto la soddisfazione della pulsione di morte. Proprio perché l’essere parlante nasce nel linguaggio, nell’Altro, da un lato si produce quella perdita di cui ho accennato prima e, dall’altro, quello che nel mondo animale sarebbe l’istinto si manifesta come una pulsione, una spinta vitale ma che, come ha scoperto già Freud, va contro il bene dell’individuo, contro la sua stessa vita. La pulsione è una spinta costante che punta alla soddisfazione ma che, a differenza dell’istinto, non ha limiti nella sua ripetizione, va contro gli interessi del soggetto e per questo si chiama anche pulsione di morte. Possiamo comprendere così la violenza come soddisfazione della pulsione di morte, che è molto diversa dalla violenza come sintomo. Si tratta di una differenza fondamentale sia rispetto a chi compie la violenza sia rispetto a chi la subisce. Nel caso della violenza come sintomo, infatti, la violenza può essere un messaggio, com’è il caso della violenza isterica o comunque nevrotica, che sta al posto di una domanda d’amore, oppure che esprime una difficoltà a convivere con la propria mancanza, con il buco che sta al cuore dell’essere parlante, o in altri casi con la caduta di alcuni ideali. Quando si manifesta, in genere, possiamo supporre che qualcosa del fantasma non abbia tenuto, sia venuto meno, per cui l’atto violento è il prodotto dell’angoscia oppure una difesa, un limite, contro un troppo di godimento. In quanto sintomo, la violenza introduce un limite (laddove l’equilibrio del fantasma non ha tenuto) o comunque un vuoto necessario per non soccombere al troppo del godimento.

La violenza nevrotica, ad ogni modo, come indica Miller, sovvertendo un po’ i luoghi comuni, tende all’Eros, è una violenza contraddittoria in quanto tende ad unire, tende a fare uno con l’Altro, rifiuta cioè la mancanza per fare uno con l’Altro. In questo caso, la violenza, così come l’odio che, come sottolinea Miller, è “un legame sociale importante”, può servire a fare legame, può essere cioè alla base di un legame sociale paradossale, ad esempio il gruppo che usa la violenza per far sentire, nel sociale, la propria questione, che si coalizza contro un altro, identificando nell’Altro il suo oggetto cattivo, il proprio insopportabile. In questo tipo di violenza, quindi, l’Altro è presente, temuto o osteggiato, ma in ogni caso esiste … e proprio per questo il soggetto può dire qualcosa del proprio atto, può cioè simbolizzarlo.

Nel secondo caso indicato da Miller, quello della violenza come pura pulsione di morte, e che nel bambino violento forse è ancora più chiara, si tratta invece del desiderio di distruggere, di fare a pezzi… anche l’Altro, il suo desiderio e il suo godimento ma soprattutto si tratta distruggere di per sè. In questo caso, ci indica Miller, non si tratta tanto di capire la causa, i motivi di questo tipo di violenza… perché la causa è precisamente la pulsione di morte, cioè il desiderio di distruggere. È necessario, però, per chi ascolta il soggetto autore di violenza, cercare di estrarre le condizioni in cui questo passaggio all’atto — in cui il soggetto che lo compie di fatto scompare, in cui il soggetto è un mero strumento della pulsione di morte — si realizza. Si tratta in altri termini di far dire attorno a quello che è successo senza ostinarsi sulla causa… È una violenza simbolizzabile? Lo strappo simbolico che essa mostra è esteso oppure è puntiforme? L’atto di violenza distrugge tutto oppure è un atto limitato nel tempo, che buca il simbolico in modo limitato, forse anche ripetuto? Si tratta della violenza difensiva di un soggetto autistico — che si protegge dall’Altro — oppure della violenza contro l’Altro cattivo (in tutte le sue manifestazioni) in una struttura paranoica? In questo caso, si tratta quindi di fare un lavoro di simbolizzazione sui bordi … perché, di fatto, laddove ci sarebbe la causa in realtà c’è un buco, il buco in cui sprofonda il soggetto violento e con lui chi subisce la violenza. In genere, suggerisce ancora Miller, l’origine di questo tipo di violenza-godimento-pulsione di morte dipende da un difetto del processo di rimozione che, quando è attiva, quando si è prodotta, invece, ha permesso uno svuotamento, ha permesso l’oblio, la dimenticanza, vale a dire l’introduzione di un meno. La rimozione è ciò che permette che qualcosa della mancanza si iscriva. La rimozione, d’altro canto, è la forza che, secondo Freud, cancella, oblitera le azioni, i pensieri, i godimenti… che la civiltà, la cultura non approva in quanto vanno contro la sua stessa esistenza. La rimozione, in altri termini, è un altro nome degli interdetti imposti dalla civiltà, della metafora paterna, che rifiuta la violenza e l’aggressività. Quando però gli interdetti e la metafora paterna sono in difetto, oppure quando vengono rifiutati come avviene nel caso della forclusione, è possibile che, nella relazione con l’altro, la pulsione si manifesti come violenza distruttiva. Non c’è stato un meno, il soggetto non ha acconsentito alla perdita, e, in particolari contingenze, l’atto violento, bypassando il simbolico, può venire a introdurre un meno radicale, cioè l’espulsione dell’oggetto stesso. Sappiamo, infatti, che in una situazione di difetto di rimozione, è difficile che l’oggetto pulsionale sia staccato, si sia separato e questo costituisce la fragilità della sua struttura soggettiva.

L’indicazione di Miller rispetto alla violenza-pulsione di morte ci è preziosa in particolare oggi, in un mondo in cui, invece degli interdetti, dei limiti, ci sono piuttosto degli imperativi di godimento, a fare, a godere, a dire di sì … siamo in una sorta di ossimoro, una civiltà-cultura violenta, che invece di proteggere dalla violenza con il simbolico, invece di velarla, con i suoi imperativi-costrizioni a godere, le sue ingerenze nel privato (i social che entrano in casa con immagini di violenza e di sesso), la autorizza o addirittura la comanda. Come ci ha insegnato Miller, sin dal suo corso su “L’Altro che non esiste e i suoi comitati d’etica”, nel discorso ipermoderno quello che comanda è l’oggetto a e le sue manifestazioni in quelle che Lacan ha chiamato le latuse, ovvero gli oggetti-gadgets. A livello del soggetto, però, gli oggetti plus-godere non introducono dei limiti, non producono una regolazione simbolica del godimento, ma piuttosto a-ddizione, vale a dire l’iterazione di godimenti che si ripetono. In questo senso, possiamo affermare che il mondo contemporaneo con i suoi oggetti e i suoi imperativi di godimento produce, non più rimozione, ma piuttosto qualcosa dell’ordine del trauma, uno strappo, una lacerazione nel simbolico e nel fantasma da cui ognuno si difende secondo le proprie modalità sintomatiche o i propri strumenti. Siamo passati, come sottolinea È. Laurent a partire dal seminario inedito di Lacan, L’insu que sait de l’une bévue s’aile à mourre , del 1977, dal mondo dell’Altro che non esiste a quello dell’Altro rotto, in cui il simbolico è fragile e plurale.

L’Altro è rotto ma questo non impedisce, fortunatamente, l’esistenza dei discorsi intesi come i legami sociali. In effetti, come segnala ancora Miller nel suo testo, il soggetto, il bambino nella fattispecie, è determinato dal “discorso che gli è anteriore”, dalle parole che vengono dette prima della sua nascita, attorno ad essa, e ovviamente anche in seguito. Questa determinazione, che è dell’ordine dell’alienazione ai significanti dell’Altro, concomitante con la perdita di godimento, è già la prima forma di violenza che si impone al soggetto, nella forma dei significanti imposti o comunque delle identificazioni mutuate dall’Altro. Si tratta, in questo caso, di quella che Miller chiama la “violenza simbolica inerente al significante”, che deriva dall’imposizione di un significante padrone. In questo senso, l’intervento dell’analista nella cura permette precisamente all’analizzante, bambino o adulto che sia, di scollarsi dai significanti imposti, traumatici, di reinterpretarli… comunque di sgonfiarne il potere aggiungendovi altri significanti, relativizzandoli.

Le due modalità della violenza indicate da Miller possono essere intese anche come violenza in una struttura soggettiva che include l’Altro e violenza senza l’Altro, vale a dire senza limite. Da cui derivano anche due letture possibili dell’atto che la violenza produce: nel primo caso, possiamo parlare di acting out, in cui il soggetto passa all’atto in relazione o sulla scena dell’Altro: invece di dire all’altro, passa all’atto. Nel secondo caso, invece, abbiamo il passaggio all’atto vero e proprio, atto senza soggetto, in cui il soggetto si abolisce e finisce nel buco del proprio atto. Nel primo caso possiamo annoverare, ad esempio, il caso dell’uomo delle cervella fresche, che uscendo dallo studio dell’analista va a mangiare soddisfacendo la propria pulsione orale; nel secondo caso, abbiamo, ad esempio, lo schiaffo di Dora al signor K., quando costui dice che sua moglie non è niente per lui, che si presenta quando qualcosa del suo fantasma entra in crisi, viene fatto vacillare…. Come ci ha indicato Lacan, ad ogni modo, quando si tratta di un acting out, che include l’Altro, e quindi della violenza-sintomo, possiamo interpretare al paziente la sua intenzione aggressiva, la sua delusione, la sua domanda d’amore, ecc… nel caso del passaggio all’atto, invece, la cosa è molto più complessa, talvolta non si tratta piuttosto di un lavoro sui bordi.

L’atto, che sia di violenza vera e propria o meno, è un buco nel sapere e nel legame con l’Altro. Nulla lasciava prevedere che un certo atto potesse prodursi … e invece, un atto si produce proprio staccandosi dall’Altro delle convenzioni civili e dall’Altro della parola, del simbolico. In questo senso, l’atto non si spiega, resta incomprensibile …. E l’analista deve, con umiltà, accoglierlo per quello che è: un momento di rottura radicale — e in questo senso sempre violento — una sorta di taglio che introduce una discontinuità fra un prima e un dopo. Esso, in ogni caso, manifesta un distacco dall’Altro, un rifiuto dell’Altro che può esprimere anche un moto di libertà, di rivolta necessaria. In ogni caso, l’atto è preceduto dalla dimensione dell’angoscia, addirittura, come indica Lacan nel Seminario X, “l’angoscia indica qualcosa del luogo dell’atto”. Nell’atto, però, il soggetto è assente e chi comanda è la pulsione acefala, il godimento. Come indica Serge Cottet, “il passaggio all’atto, in quanto attraversamento selvaggio del fantasma cortocircuita l’inconscio. In questa situazione di «destituzione soggettiva» e di invischiamento nell’oggetto, la scelta di godimento rende obsoleta ogni deliberazione” (cfr. S. Cottet, « Criminologie lacanienne », Mental, n. 21, p. 35) vale a dire che nell’atto è l’oggetto pulsionale — che è un altro nome lacaniano del godimento — che ha il sopravvento, mentre il soggetto non è neppure in condizione di decidere.

Quando la rimozione non ha funzionato, quando la violenza è la pulsione di morte, il passaggio all’atto è spesso un trattamento del godimento, della spinta pulsionale, forse l’unico, che il soggetto ha trovato per espellere qualcosa del godimento che lo invade, per fare buco in un troppo di godimento. Talvolta si tratta del ritorno nel reale di qualcosa che non è stato simbolizzato nella storia del soggetto o del suo altro genitoriale. Per questo motivo il passaggio all’atto può avere un effetto calmante, che riduce o fa rientrare un eventuale delirio… Questo effetto, però, si produce senza passare attraverso il simbolico, rifiutando l’Altro in modo radicale. L’analista, quindi, quando viene interpellato, eventualmente può accompagnare il soggetto a dirne qualcosa, a dire qualcosa di quel troppo innominabile, a nominarlo in “un’impresa di traduzione costante” (E. Laurent).

Nel suo testo dedicato ai “Bambini violenti”, Miller sostiene che, di fronte al bambino violento, l’analista deve procedere con la dolcezza o con una “contro-violenza simbolica”. Ovviamente, anche nel caso di adulti violenti, non si tratta di porre dei limiti, di imporre un contenimento, di affermare un no … in quanto la pulsione non ascolta i limiti e neppure la legge. Come spiega bene A. Stevens nel suo articolo “Un cadre ou un bord?”, si tratta di realizzare un “litorale piuttosto che una frontiera”. Si tratta di un dire, piuttosto che di un detto: mentre il detto nega il soggetto e lo corregge, il “dire che non” … risponde al soggetto e dice di no, a lato, alla violenza, alla cosa violenta che lo ha preso. Come dice Stevens, “un dire che non che limita il godimento localizzandolo attraverso uno spostamento, agganciandovi un sembiante”, vale a dire qualcosa di un simbolico… (cfr. esempio del piccione morto in istituzione…. Un ragazzo, in preda a un godimento che lo invade, vuole fare a pezzi un piccione morto per vederne le ossa ma l’operatore gli dice: “non funzionerà, non si riuscirà a vederne le ossa, meglio seppellirlo e poi, fra qualche settimana, le ossa si potranno vedere”. Non si dice di no al soggetto, a quello che è spinto a fare ma, piuttosto, si dice di no al godimento). Di fronte all’atto violento, quindi, si tratta di aiutare il soggetto a costruire un bordo, simbolico, che gli permetta, almeno in parte, di bordare il godimento e quindi di separarsene.

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