Do The Evolution

Massimo Lazzari
Quando guardo verso Ovest
7 min readOct 22, 2017
Da qualche parte sulla Via Francigena, Toscana

“This land is mine, this land is free

I’ll do what I want but irresponsibly”

[Pearl Jam, 1998]

Marco è seduto su una sedia a dondolo, nella veranda della sua casa di campagna. Con un bicchiere di vino bianco in mano, contempla il paesaggio che si apre sulle colline di Offida, sulla valle del Tronto e, poco più a Est, sul mare Adriatico.

Il sole sta tramontando alle sue spalle, le ombre si allungano sulla terra bruciata dal caldo estivo. La giornata volge al termine, un’altra dura giornata di lavoro nei campi. Marco allunga le gambe, godendosi il meritato riposo fisico e mentale. Nell’aria risuonano le note della musica che proviene dall’interno della casa, e si diffonde l’odore della cena che la moglie sta preparando.

Questo è un momento speciale, molto significativo, per Marco. Da oltre trent’anni, al tramonto, si siede in veranda, con una bottiglia del vino che produce, e riflette sulla sua vita. Fa i conti con il suo corpo che, anno dopo anno, invecchia.

E con la terra che, anno dopo anno, si ritira lasciando spazio al deserto.

Oggi, contrariamente al solito, non è silenzioso. Sta condividendo le sue riflessioni con la nipotina Gaia. La ragazzina l’ha contattato dal luogo in cui vive, un luogo molto lontano, profondamente diverso dalla calda campagna marchigiana. Il motivo che ha spinto Gaia a contattarlo ha illuminato il volto rugoso di Marco.

«Nonno, devo scrivere un tema sulla tua vita» aveva esordito Gaia saltando i convenevoli, come solo i bambini sanno fare.

«E perché proprio su di me?» aveva replicato Marco, tentando invano di sopprimere un moto di orgoglio.

«Perché fai quel lavoro strano».

«Vuoi dire il contadino?»

«Sì. Il contadino. Ecco come si dice, non mi veniva in mente. Dove sto io nessuno ne ha mai visto uno vero. In carne e ossa intendo».

«In effetti anche qui è un mestiere sempre più raro».

A questo primo scambio di battute era seguito un silenzio di qualche secondo. Marco era stato sopraffatto dalla malinconia e dai ricordi di un passato ormai remoto. Gaia era rimasta con il fiato sospeso, temendo di aver offeso il nonno. Poi Marco si era riscosso e aveva iniziato a raccontare alla nipotina la sua storia.

«Sai, Gaia, io non ho sempre fatto il contadino. Anzi, all’inizio del secolo facevo una vita completamente diversa».

La rivelazione aveva accentuato la curiosità della ragazzina.

«Davvero? E cosa facevi nonno?»

«Tante cose. Troppe. Ma andiamo con ordine. Hai da scrivere?»

«Nonno, ma cosa dici?» aveva ridacchiato Gaia. «Oggi non scrive più nessuno! Non è necessario! Ti sto memorizzando».

Marco aveva scosso la testa, rassegnandosi al suo anacronismo. «Giusto! Allora iniziamo. Come sai, sono nato e cresciuto a San Benedetto. All’età di diciotto anni mi sono trasferito a Bologna per studiare all’università. Mi sono laureato nei primi anni Duemila. Quindi sono andato a Milano per una specializzazione. Finiti gli studi ho lavorato come consulente aziendale per diversi anni. In quel periodo viaggiavo molto: Inghilterra, Turchia, Russia. Poi ho avviato diverse attività imprenditoriali, alcune sono andate bene altre no».

Gaia aveva interrotto brusca il monologo. «Scusa nonno, non ho capito! Tu andavi in tutti quei posti per lavorare?»

«Si, Gaia. Ero sempre in auto, treno, aereo».

«Ma … perché?»

«Vedi piccolina, a quei tempi era necessario spostarsi fisicamente per incontrare le persone. Non come adesso».

«E non si perdeva tempo per fare tutti questi spostamenti?»

Marco era scoppiato in una risata.

«Non immagini quanto! Il tempo, del resto, non era l’unico problema. Pensa all’inquinamento prodotto dalle automobili, il carburante consumato, il traffico. Purtroppo cinquant’anni fa si credeva che il nostro pianeta fosse un’inesauribile fonte da cui attingere a piene mani, senza preoccuparci di cosa avremmo lasciato alle generazioni future. Inoltre c’erano troppi interessi economici».

«In che senso nonno?»

«Beh, Gaia, tutti lucravano sulla distruzione del nostro pianeta: compagnie petrolifere, industrie, banche, governi. E del resto, come poteva essere altrimenti? Il sistema produceva ciò che la società richiedeva a gran voce: auto potenti e veloci, tecnologie sempre più avanzate, voli intercontinentali low-cost, cibi provenienti da ogni parte del mondo. E pensa che avevamo il coraggio di chiamarlo progresso».

Gaia si era incupita sentendo i discorsi del nonno. È ancora poco più che una bambina, ma i valori che le sono stati inculcati nella società in cui vive le hanno già fatto comprendere la relazione causa-effetto che lega ciò che il nonno le sta raccontando e ciò che vede con i suoi occhi ogni giorno.

«Però, nonno, scusa se te lo chiedo, ma tu non ti comportavi come tutti gli altri?»

Marco aveva riflettuto un istante sulla domanda. La stessa domanda che si era posto tanti anni prima, e a cui si era dato la risposta che gli aveva cambiato la vita. La stessa risposta che sta per fornire ora a Gaia.

«Purtroppo sì. Dietro ogni cosa che facevo c’era il tentativo di primeggiare, di elevarmi al di sopra degli altri, di andare più veloce. Ero ossessionato dal denaro. E dal tempo. Poi però sono sceso dal treno e ho capito la verità».

Le ultime parole Marco le pronuncia con un ghigno misterioso, che potrebbe adattarsi benissimo al viso di un santone indiano.

«Cosa hai fatto nonno?» domanda perplessa Gaia.

«Sono sceso dal treno».

«Quale treno?»

«È una metafora. Significa che ho smesso di correre e mi sono fermato. Mi sono guardato indietro chiedendomi quali risultati avessero prodotto tutti gli sforzi che avevo fatto fino a quel momento. E quali danni. Le risposte che mi sono dato mi hanno convinto a mollare tutto e ritirarmi qui. In campagna, nella mia terra natale, a coltivare i campi e fare il vino».

«E questo quando è successo nonno? Quanti anni avevi? Cos’è che ti ha fatto cambiare idea?»

Il pensiero di Marco vola a quegli anni, i ricordi gli gonfiano il cuore.

«Avevo più o meno trentacinque anni. Quindi parliamo di quarant’anni fa».

«Il papà ha quarant’anni» mormora Gaia pensierosa.

«Sei una bimbetta molto sveglia Gaia» ribatte Marco con un buffo tono cospiratorio.

«Quindi nonno, da quando è nato il papà tu hai cambiato vita e ti sei trasferito in campagna, giusto? E poi hai sempre fatto il contadino?»

«È proprio così. Una volta che ti leghi alla terra non torni più sui tuoi passi. All’inizio ero un po’ inquieto, lo confesso. Pensavo fosse solo un’altra fase di transizione. Poi, piano piano, ho perso interesse verso la società che continua a correre dietro a valori effimeri».

«E adesso sei felice, nonno?»

Marco sospira. La domanda più difficile del mondo. Come si fa a dare una risposta? Ci prova.

«Vedi Gaia, la felicità è una cosa a cui si pensa molto quando si è giovani. Si cerca in ogni modo di raggiungerla, anche a discapito delle altre persone o del pianeta che ci da la vita. Poi, quando si cresce, ci si rende conto che la felicità è uno di quei valori effimeri di cui ti parlavo. Non esiste, perlomeno non in senso assoluto. Quando arrivi alla mia età ti guardi indietro e non ti chiedi se sei stato felice. Ti chiedi se hai contribuito a rendere il mondo un posto migliore».

«E tu nonno? Hai contribuito?»

«Diciamo che perlomeno, nella seconda parte della mia vita, ci ho provato con tutte le mie forze. E questa consapevolezza mi da serenità».

«E adesso cosa stai facendo nonno?»

«Intendi in questo momento?»

«Si, nonno, cosa fai in questo momento?»

«Sono seduto in veranda a guardare il tramonto. Bevo un bicchiere di vino. Ascolto musica».

«Che musica ascolti?»

«Non la conosci piccolina. È musica del secolo scorso».

«Ti prego, nonnino, dimmelo»

«Va bene, te lo dico. È una playlist di Eddie Vedder. Il cantante di un gruppo rock che andava molto di moda ai miei tempi: i Pearl Jam. Il disco è la sound track di uno dei miei film preferiti. Si chiama Into the wild. Sarà un caso ma si adatta benissimo al discorso che stiamo facendo».

Mentre il nonno parla, Gaia acquisisce velocemente tutte le informazioni relative a quegli strani vocaboli. Retaggi di un passato in cui l’inglese era ancora la lingua universale.

«E cosa vedi nonno?»

Marco apre un istante gli occhi, anche se non è necessario per rispondere alla domanda.

«Vedo l’erba gialla che ondeggia sotto la brezza della sera. Vedo gli alberi ricolmi di succosi frutti maturi. Vedo la luna che spunta timida da dietro le colline».

«Sai nonno che il papà ha promesso di portarmici?»

«Dove?»

«Sulla luna. Quando diventerò maggiorenne».

«Gaia fammi un favore. Dì al papà di portarti qui. Digli che vuoi vedere con i tuoi occhi un vero pomodoro, assaggiare l’uva naturale, accarezzare il grano e sentire l’odore della terra. Vedrai che sarà molto meglio che andare sulla luna».

«Hai ragione nonno! Glielo dirò sicuramente. Adesso però scusami ma devo scappare. Grazie per la storia e salutami tanto nonna Silvia».

«Ciao piccolina. Stammi bene. Saluta il papà e la mamma».

Marco sospira e interrompe la comunicazione telepatica. In sottofondo, una voce del secolo scorso, continua a cantare, profetica.

Society, you’re a crazy breed, I hope you’re not lonely without me.

Questo racconto è tratto da Quando guardo verso Ovest, una raccolta di 33 racconti con titoli ispirati ad altrettante canzoni rock del XX secolo.

Il libro è stato pubblicato da Antonio Tombolini Editore nel 2015 e può essere acquistato qui.

Tutti i proventi derivanti dalle vendite del libro vengono devoluti dall’autore all’Associazione Mondobimbi Onlus, che li usa per aiutare i bambini del Madagascar ad andare a scuola.

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Massimo Lazzari
Quando guardo verso Ovest

Autore di La Storia dell’Acqua (2021), La Fine della Terra (2019), Il libro perfetto (2017), Quando guardo verso Ovest (2015) ed Esprimi un desiderio (2012)