I BITCOIN IN SEI PUNTI
Cosa sono, perché se ne parla tanto e qual è il futuro della blockchain
di Andrea Caruso, Irene Roberti Vittory e Paolo Sparro
COS’ È IL BITCOIN
Si scrive con la maiuscola per indicare il sistema, con la minuscola se invece ci riferiamo alle singole unità. “Bitcoin” non sarà stata la parola dell’anno 2017, ma è di sicuro una delle parole più chiacchierate del mondo. E su cui aleggiano dubbi e interrogativi — sollevati non solo da gente comune, ma anche da eminenti studiosi ed economisti — circa il suo presente e soprattutto il suo futuro. Cosa si intende per bitcoin? Una criptovaluta, cioè una valuta che vale nel mondo digitale e non è sottoposta a vincoli e mediazioni da parte di banche e organizzazioni. Non è quindi una moneta nel senso “classico” del termine, perché una moneta ha quattro funzioni essenziali: è un mezzo di pagamento, ha una funzione numeraria, è mezzo di scambio ed è riserva di valore. Per capire il concetto basta pensare, ad esempio, ai nostri euro: le banconote vengono stampate dalla Banca Centrale Europea, sono tangibili, vengono utilizzate per acquisti che si fondano sullo scambio tra denaro e prodotto che vale una certa quantità di denaro. Il loro valore è deciso dallo Stato perché riflette la ricchezza di uno Stato. Tutto questo non vale per i bitcoin, il cui valore viene stabilito unicamente dal mercato. I bitcoin materialmente non esistono, ma possono essere acquistati, scambiati online, utilizzati in un numero sempre crescente di attività che accettano il pagamento in denaro virtuale. Perché la valuta “nascosta” — creata dal giapponese Satoshi Nakamoto, pseudonimo dietro cui si cela chissà chi — può sempre essere trasformata in denaro “vero”. In ogni caso, i bitcoin non sono l’unica criptovaluta esistente. In circolo ce ne sono molte: a oggi, come riportato sul database Coinmarketcap, sono quasi 1400. Qualcuna, forse, destinata a emergere come e più dei bitcoin.
COS’È LA BLOCKCHAIN
Ogni utente in possesso di bitcoin ha un proprio wallet, un portafogli digitale. Ma come si spendono i bitcoin? O meglio: come avvengono le transazioni? È qui che entra in gioco la blockchain, letteralmente “catena di blocchi”: il registro sterminato di tutte le transazioni avvenute nel sistema Bitcoin. Bisogna tener presente che le transazioni con bitcoin avvengono sulla base di un meccanismo peer-to-peer (quello adottato anche da diversi software per scaricare file online e condividerli con altri utenti). Ogni utente, dunque, può verificare tutte le transazioni che stanno avvenendo in un dato momento, senza conoscere i dettagli dell’operazione, che restano segreti: ognuno ha un proprio codice crittografico — una chiave privata, appunto — per accedere al proprio conto e identificarlo. Quando c’è un trasferimento in atto (o più di uno: vengono ripartiti in blocchi di transazioni) i dispositivi connessi devono dare l’ok perché avvenga, a garanzia della correttezza dell’operazione, di cui è visibile solo una chiave pubblica: una conferma che consiste nella risoluzione di un problema crittografico.
Chiaramente a risolverlo non è l’utente, la persona fisica, ma i dispositivi (o il dispositivo: ne basta uno) connessi. Essendo i problemi difficilissimi da risolvere, sono necessari computer con adeguata potenza di calcolo: non pc qualsiasi, ma il più delle volte sistemi di dispositivi — vere e proprie “fabbriche di bitcoin” — che consumano quantità impressionanti di elettricità e che si trovano soprattutto in Cina e Stati dell’est Europa, dove lavoro ed energia costano poco. Secondo i calcoli di Digiconomist, piattaforma che analizza l’universo Bitcoin, creare questa criptovaluta comporta il consumo dello 0,13% dell’intera energia globale. Questo processo di “estrazione” di bitcoin prende il nome di mining: i miner sono coloro che dispongono di computer potentissimi, che in cambio delle verifiche sulle transazioni ricevono gratuitamente bitcoin. A transazione avvenuta, comunque, la spesa effettiva è registrata nella blockchain: per questo motivo sono in molti a sostenere la trasparenza del sistema. Allo stesso tempo, la presenza di stringhe crittografate fa arricciare il naso a chi, al contrario, pensa che la criptovaluta incentivi traffici illeciti.
Perché il prezzo dei bitcoin è salito all’improvviso (per poi crollare)?
Semplificando al massimo: per la legge della domanda e dell’offerta. Partiamo da quest’ultima perché l’offerta di bitcoin cresce molto meno velocemente della domanda. A novembre del 2016 la quantità di gettoni virtuali in circolazione ha sfondato la soglia dei 16 milioni, oggi sono circa 16 milioni e 800mila. Sappiamo poi che la quantità di nuova moneta che verrà estratta attraverso il mining, si dimezzerà ogni anno. I bitcoin possono essere in qualche modo assimilati ad una risorsa naturale che andrà in progressivo esaurimento, quando si arriverà al tetto dei 21 milioni di criptomonete estraibili col mining (in realtà, va precisato che è già stato possibile creare dei duplicati o dei bitcoin “paralleli” tramite un procedimento chiamato hard fork).
A cambiare repentinamente e in positivo è stata la domanda, e qui i fattori di spinta della richiesta di bitcoin sono molteplici. All’inizio della sua storia, il mondo della finanza non vedeva di buon occhio la moneta virtuale, ritenendola un mezzo di pagamento poco tracciabile, utilizzato soprattutto per il riciclaggio di denaro contante e/o per effettuare transazioni illecite nel darkweb (celebre è il caso del sito Silk Road, chiuso nel 2013 dall’FBI, dove era possibile acquistare droghe).
Negli ultimi anni tanti eventi hanno riabilitato la reputazione del bitcoin, che non ha mai smesso di essere utilizzato anche per piccole transazioni o acquisti nei negozi. Anzitutto è stata migliorata la crittografia della blockchain, rendendo il metodo di certificazione delle transazioni più sicuro e praticamente impossibile da violare. Ad aprile del 2017 il Giappone è stato il primo paese del mondo a riconoscerlo per legge come valuta legale: c’è già un’azienda che ha offerto ai suoi dipendenti la possibilità di accettare in bitcoin parte dello stipendio, mentre il governo pensa in futuro all’emissione di una propria criptovaluta per incentivare ancora di più i pagamenti elettronici, a scapito del contante. Nel frattempo in Cina — dove in passato era concentrato circa il 90% delle transazioni in bitcoin e dove ha sede la quasi totalità degli stabilimenti che ospitano i server che lavorano all’estrazione dei bitcoin — la banca centrale sta valutando di imporre una stretta sulle piattaforme di acquisto e vendita di valuta virtuale; una delle più importanti, BTC China ha sospeso la propria attività di trading a settembre causando un crollo del 35% del valore del bitcoin. Le autorità di Pechino hanno già vietato le inital coin offering (ICO), la cui parallela diffusione nel resto del mondo è un altro dei fattori di incremento della domanda di bitcoin.
COSA SONO LE ICO?
Sono un metodo di raccolta di finanziamenti per le imprese innovative (startup). Lo startupper illustra ai potenziali investitori il progetto d’impresa ed emette un certo numero di gettoni virtuali (token) analoghi ai bitcoin, generati su Ethereum, una piattaforma di blockchain open-source. L’investitore partecipa mettendo a disposizione una parte di capitale e in cambio riceve i token digitali che potrà decidere di conservare oppure convertire in valuta reale sulle piattaforme di scambio. Nel 2017 sono stati raccolti circa 6 miliardi di dollari attraverso il meccanismo delle ICO.
Anche l’attenzione mediatica di cui sono stati oggetto i bitcoin negli ultimi mesi ha contribuito ad accrescerne la richiesta, catalizzando l’attenzione di nuovi investitori — addetti ai lavori della finanza ma anche principianti poco esperti — attratti dalla possibilità di facili e immediati guadagni, in un ciclo economico in cui azioni e obbligazioni non offrono rendimenti particolarmente allettanti.
Alla fine di ottobre del 2013 il cambio bitcoin/dollaro arrivava a 200$, mentre il 2017 si era aperto con il superamento di quota 1000 dollari per un bitcoin. Un anno dopo (gennaio 2018) la valuta virtuale si aggirava inizialmente intorno ai 16mila dollari. Ma il grafico degli ultimi due mesi ha presentato oscillazioni da montagne russe: in tre settimane (26 novembre-16 dicembre) il prezzo è più che raddoppiato, fino a sfiorare i 20mila dollari; due settimane dopo, il bitcoin valeva il 30% in meno. Stabilizzatosi intorno agli 11mila dollari a gennaio, all’inizio di febbraio è caduto al di sotto dei 10mila euro. Mentre scriviamo 1 bitcoin è scambiato a meno di 7mila dollari, cioè grosso modo quasi un terzo di quanto valeva poco prima di Natale, nei giorni del picco.
COSA SONO I FUTURES SUI BITCOIN?
A spingere in su domanda e prezzo dei bitcoin è stato anche il lancio a metà dicembre delle contrattazioni di futures, ossia di strumenti finanziari derivati, sui due mercati di scambio di Chicago Chicago Board Options Exchange (CBOE) e Chicago Mercantile Exchange (CME).
Questi futures sono legati alle fluttuazioni del prezzo dei bitcoin, perché consentono agli investitori di scommettere su come varierà il valore della criptomoneta, anche in negativo.
BOLLA O NON BOLLA?
Tra le grandi banche di Wall Street, Merril Lynch ha vietato ai propri dipendenti di offrire ai clienti prodotti finanziari basati sul bitcoin, compresi i fondi di investimento a causa di “preoccupazioni circa l’idoneità e l’ammissibilità” di tali prodotti”. L’impennata del valore dei bitcoin è stata spesso paragonata a quella dei bulbi di tulipano nel XVII secolo, mentre Buttonwood’s notebook, un blog del settimanale The Economist ha assimilato l’euforia per la criptovaluta a quella per le società operanti nel web, le dot-com, tra la fine degli anni ’90 e il 2000. Diversi economisti hanno espresso scetticismo e preoccupazione per l’esplosione di una bolla legata ai bitcoin. Per Paul Krugman è persino più evidente di quella immobiliare che causò la crisi del 2008 mentre Joseph Stiglitz suggerisce che andrebbero addirittura messi fuorilegge. Nonostante il valore totale di mercato di tutti i bitcoin attualmente in circolazione si aggiri (mentre scriviamo) intorno ai 110 miliardi di dollari, e la moneta creata da Satoshi Nakamoto sia la quinta più diffusa al mondo, l’ammontare di transazioni e la platea di investitori coinvolti sono ancora piuttosto bassi se confrontati a quanto avviene ogni giorno sulle principali Borse del mondo. Ecco perché autorità di regolazione e banche centrali hanno temporeggiato molto prima di iniziare a formulare le prime raccomandazioni. Ed è bastato qualche rumor filtrato dai gabinetti di governo (Cina, Corea del Sud, Israele) sull‘ipotesi di una stretta contro l’attuale Far West regolatorio, per causare il tonfo del bitcoin.
Il problema del bitcoin è che a differenza di una valuta come l’euro o il dollaro, non hanno alle spalle un’autorità monetaria (come la Banca Centrale Europea o la Federal Reserve) che funga da garante di valore, ne regoli la quantità in circolazione e lo preservi dalla volatilità. Non è legato ad una materia prima, ad un bene fisico o al patrimonio immobiliare e finanziario di una società che ne è proprietario. Ha avuto e avrà un valore fino a quando chi lo utilizzerà come moneta riterrà che lo abbia. La diffusione del Bitcoin come metodo di pagamento prosegue, anche se resta confinato a una nicchia di consumatori (su coinmap.org è possibile vedere quali attività lo accettano). Eppure negli anni la criptovaluta è andata verso esiti e utilizzi del tutto opposti a quelli preventivati. Nata come mezzo di scambio “anti-sistema”, decentralizzato e libero da commissioni, in contrasto al potere di Stati, banche centrali e istituti di credito, è ora soprattutto un asset finanziario che fa gola agli speculatori e ai lupi di Wall Street. Se è vero che non acquistiamo un’auto nuova pagandola con i lingotti d’oro, nel lungo periodo è possibile che utilizzeremo la moneta virtuale non più per fare la spesa ma come bene-rifugio nelle nostre casseforti virtuali.
Se davvero le criptovalute e soprattutto la blockchain saranno la prossima rivoluzione di internet e/o della finanza, allora vietarle sarà non solo impossibile ma anche inutile. Le autorità e il mondo dell’economia dovranno piuttosto pensare a come trasformare e disciplinare un mercato che allo stato attuale è una specie di Far West; si pensi ad esempio agli aspetti legati alla tassazione e all’anti-riciclaggio, per citare due delle questioni più importanti. Non a caso il Bitcoin è già nell’agenda dei temi del prossimo G20.
IL FUTURO DELLA TECNOLOGIA
I bitcoin magari finiranno in una grande bolla, ma ciò non toglie che la tecnologia applicata all’ambito finanziario — il “FinTech” — non solo non finirà, ma continuerà a evolversi. «Non dobbiamo diffidare delle tecnologie, perché sono indispensabili per trattare la massa immensa delle informazioni. Ma dobbiamo usarle bene. Ci vorrebbero nei consigli di amministrazione delle banche più ingegneri, statistici, crittografi e magari meno avvocati ed economisti», ha dichiarato alla Stampa, il 2 gennaio, Fabio Panetta, vicedirettore della Banca d’Italia. «Ma siamo lontani — aggiunge nell’intervista — dal momento in cui ci affideremo a una intelligenza artificiale». Nel frattempo però i colossi della Rete si portano avanti: Facebook — che permette, negli Stati Uniti, di effettuare pagamenti per i propri amici virtuali — e Google, Amazon — che con Amazon Lending fa credito, in Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, ai rivenditori più affezionati — e Alibaba, con il nuovo “AliPay”, offerto, qui in Italia, grazie a un accordo con Unicredit: si tratta di una app per effettuare pagamenti in maniera rapida, come si stanno attrezzando a fare sempre più servizi ed esercizi commerciali.
CACCIA AI PIRATI DELLE CRIPTOVALUTE
IL LABORATORIO DI CYBER-SECURITY ALL’UNIVERSITÀ DI PERUGIA
La blockchain è come un coltello, dipende che utilizzo ne fai. All’Università di Perugia la squadra di docenti e ricercatori diretta dal professor Stefano Bistarelli ha utilizzato la tecnologia alla base del Bitcoin per costruire un sistema di voto elettronico, vincendo anche due premi (Aws research grant di Amazon e il Microsoft Azure research). Ma il laboratorio di cyber-sicurezza prova anche a passare al setaccio i milioni di transazioni che si aggiungono alla ‘catena’, alla ricerca di quelle illecite. Gli informatici perugini, per esempio, hanno individuato i principali indirizzi a cui migliaia di utenti nel 2017 hanno versato la somma di 300 dollari ciascuno per riavere i file dei propri computer, infettati da un ransomware (WannaCry, il più celebre).