Recluse ai margini

Chiara Sivori
Quattro Colonne
Published in
3 min readJan 20, 2017

Storie e statistiche di detenzione femminile

Di Michele Bonucci, Valentina Mira, Davide Serusi e Chiara Sivori

La storia di Stefy. La giovane donna intervistata è un’ex detenuta del carcere di Capanne. È nata in Nigeria, dove a 15 anni è stata venduta dal padre come sposa a un uomo molto più grande di lei. È scappata di casa per evitare il matrimonio, e dopo mille peripezie è giunta in Italia. Qui non ha trovato lavoro. In compenso ha conosciuto un uomo italiano, che l’ha coinvolta in un traffico di stupefacenti.

Nel 2006 è stata arrestata dalla polizia ed è così che è iniziata la sua esperienza in carcere, dove è finita a più riprese, per un totale di otto anni. La sua testimonianza racconta di celle sovraffollate (con sei, a volte addirittura otto persone costrette a una difficile convivenza), di litigi quotidiani con le altre detenute, ma anche di speranza. È stato un assistente sociale a svolgere un ruolo cruciale nella sua vita, facendo la differenza.

Una volta uscita dal carcere, è stato proprio lui a trovarle lavoro in un ristorante. Il reinserimento tuttavia non è stato facile. Quando i gestori del locale hanno scoperto che lei era un’ex detenuta, il loro comportamento nei suoi confronti è cambiato radicalmente. “Mi trattavano come un animale”, ha detto alle telecamere. Al momento, Stefy non ha un lavoro, ma continua a considerare l’Italia come la sua seconda patria.

Uno scudo per i detenuti. Antigone, l’associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale”, è nata alla fine degli anni ottanta, promossa da Massimo Cacciari, Stefano Rodotà e Rossana Rossanda. Vi aderiscono magistrati, operatori penitenziari, studiosi, parlamentari, insegnanti e cittadini che si interessano di giustizia penale.
Antigone promuove dibattiti sul modello di legalità penale e processuale del nostro Paese; raccoglie e pubblica informazioni, rapporti e norme sulla realtà carceraria, con l’obiettivo di sensibilizzare la collettività sui problemi dei detenuti.

Simona Materia, responsabile della sede regionale dell’ Umbria, si sofferma sulle attività che coinvolgono le donne del carcere di Capanne, un modo per non lasciarle isolate ma per prepararle al reinserimento nella società: “Le ragazze hanno la possibilità di fare palestra, sport, yoga e danza, suonare il pianoforte, guardare film, preparare manufatti e abiti che vengono utilizzati durante una sfilata finale. Inoltre, sono stati organizzati diversi corsi di italiano, dato che le detenute sono per lo più straniere. Un modo per respirare la normalità”.
Simona Materia ci parla dell’affettività in carcere, i rapporti madri-figli e quelli con le altre detenute.

Un focus su Capanne. La casa circondariale di Perugia ha iniziato a essere operativa nel 2005, entrando in piena attività nel luglio 2009. La sezione femminile è ospitata in un padiglione separato rispetto ai reparti maschili, sfruttando l’estensione del terreno del carcere (40 ettari).

Nella sezione femminile le celle sono da due o da quattro persone (talvolta occupate anche da una singola detenuta), e sono fornite di bagno, doccia, acqua calda, piano cottura e termosifoni. Inoltre, in tutte le sezioni sono presenti una biblioteca, una cappella, una scuola e anche una palestra che può essere usata per quattro ore al giorno, a turni.

Dal punto di vista religioso si organizzano messe sia di rito cattolico che ortodosso, si recita il rosario e si studia la Bibbia.

Le detenute in Italia. Le donne costituiscono solo il 4% dei detenuti nel nostro Paese, e dato il loro numero esiguo non esistono molte strutture dedicate alle loro specifiche esigenze. In un contesto difficile come la pena carceraria, le donne vengono dunque messe ancora di più ai margini rispetto agli uomini: le detenute sono viste come un problema non molto importante, solo un piccolo aspetto delle mille criticità che riguardano il carcere in generale.

In Italia esistono solo quattro carceri esclusivamente femminili, quelli di Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia e Venezia Giudecca. Il resto delle strutture detentive dedicate alle donne, circa 50, sono semplicemente delle sezioni di penitenziari maschili. Ciò significa che per le donne è più molto più alta la probabilità di allontanamento dal luogo di residenza, in cui si trovano i loro legami familiari.

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