Lights out: San Francisco

Claudia Grande
Queer Stories
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4 min readApr 23, 2018

Quando scende la notte, San Francisco tende l’orecchio. Ascolta.

Ascolta le dichiarazioni d’amore dei ragazzi ubriachi nelle discoteche di Castro; rincorre il fruscio delle gonne tra i locali di Chinatown; inala le nuvole di popper che foderano il cielo sopra Folsom Street e sbanda, sballa, cerca indizi pronunciati in una lingua sconosciuta — il cifrario segreto dell’Hanky Code; insegue bandane, bandane rosse, che sporgono dalle tasche dei giovani di North Beach e indicano le rispettive tendenze sessuali, la preferenza per l’attivo o il passivo. San Francisco non ha bisogno di chiedere per sapere: soltanto, tende l’orecchio. Ascolta. E tutta quella generazione d’incompresi, emarginati, di figli ribelli degli anni ’70 parla con lei; parla e piange, e qualche volta si confessa, perché la nota blu dell’Oceano Pacifico possiede uno strano potere: restituisce alla gente la sua parte più vera. Quando scende la notte, però, San Francisco ha paura. Ha paura dei negri, e accetta che le macchine di lusso dei bianchi sfreccino tra pozze di vomito e spazzatura, nel sudario di un paio di larve affamate dal crack; e lascia che i fottuti negri ci muoiano, per quel crack, e che il colletto inamidato dei bianchi disprezzi il rantolo della miseria; e finge di non guardare, quando i fottuti negri spingono le loro sedie a rotelle oltre le vetrine dei negozi, coprendo con uno straccio ciò che resta delle gambe. Quando scende la notte, il cigolio delle sedie a rotelle riempie gli occhi vuoti della luna, e tutto dorme a San Francisco, tutto inspira ed espira; una linea di fuoco si alza e si abbassa e dimentica il male, il disagio infilzato sulle antenne dei grattacieli.

Se avessero domandato a Sylvester James di che colore è la pelle del gospel, quand’era bambino, avrebbe risposto: è blu San Francisco, perché lui apparteneva all’Oceano Pacifico, all’acciaio del Golden Gate Bridge. Non leggeva l’orrore sul viso di Frisco, il rifiuto nei confronti degli afroamericani come lui. Soltanto, Sylvester cantava. Cantava nel coro gospel di una piccola chiesa nera, e aveva una voce spassionata di donna, un infaticabile falsetto dal vibrato lirico. Vestiva gli abiti della madre per impersonare la diva che sognava di essere; divenne presto abbastanza maturo da dichiarare la propria omosessualità. E così, persino gli afroamericani iniziarono a temerlo: fu cacciato dal coro, ripudiato dalla sua stessa famiglia. Perse il tetto di casa a tredici anni. Perse sua madre, il suo patrigno, i suoi fratelli, e si lasciò alle spalle San Francisco, scappando tanto lontano da finire a Los Angeles.

E adesso, vive qui, nella Città degli Angeli.

È stato adottato da un’altra famiglia — le Cockettes, una compagnia di travestiti come lui, che tira a campare mettendo in scena spettacoli teatrali nei localini dei sobborghi.

Sylvester passeggia per Sunset Boulevard, osservando il tramonto colorare di rosso la strada. Dà un calcio a una lattina vuota. Forse qualcosa cambierà, pensa.

Forse riuscirò a farmi bastare Los Angeles, un giorno, e i due spicci che raccatto sgambettando con le Cockettes; forse sarò la diva degli ultimi e dei reietti, la stella più triste che si ricordi a memoria d’uomo, calpestata da tutti e coperta di sputi.

Sylvester si ferma. Siede sul ciglio di un marciapiede. Accende una sigaretta, buttando il fumo in faccia al sole giusto per prendersela con qualcuno. Non parla. Lascia che i rumori del traffico e gli schiamazzi di Los Angeles riempiano il silenzio, goccia dopo goccia. Non ha un soldo in tasca, non ha una famiglia, non ha un compagno accanto a sé; non ha una casa in cui tornare, né una terra che possa dire sua. Non ha radici, ormai, perché i bianchi non accettano i negri e i negri non accettano i froci, il branco d’invertiti di merda che rivendica a gran voce il diritto di prenderlo in culo.

Sylvester getta la sigaretta sull’asfalto. Calpesta il mozzicone con la scarpa. Alza la testa su Sunset Boulevard e guarda il sole dritto negli occhi, fino a che l’orizzonte si copre di macchie viola. Eppure, qualcosa mi resta, pensa.

Ho la gioventù. Ho la bellezza. Ho una voce da diva anni ’30. Ho le piume colorate e i tacchi alti delle Cockettes, e i miei occhi non sono vuoti come la luna di San Francisco. Ho questo tramonto su Sunset Boulevard. Ho questo pacchetto di sigarette, queste dita, queste mani; ho un bagaglio di dolore più grande degli altri e una vestaglia da notte, bianca, che ho rubato a mia madre prima di dirle addio, e fa brillare la mia pelle come l’ebano tirato a lucido. Ho la mia pelle nera, la mia carne rossa, il mio cuore di donna.

Ho la mia identità.

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Claudia Grande
Queer Stories

Nata a Chieti. Laureata in Giurisprudenza. Ha lavorato per due anni presso uno studio legale internazionale. Attualmente, frequenta la Scuola Holden (Torino).