Like two strangers

Claudia Grande
Queer Stories
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12 min readApr 24, 2018

Ci sono almeno mille modi di descrivere l’estate, e tutti quanti portano il tuo nome.

Un camioncino sterza sulle note di Pretty Woman.

Marina punta i piedi sopra i bordi della strada.

È il 1 luglio 2017. Piove.

La pioggia estiva sembra stridente, come le note di Pretty Woman tra i capelli scompigliati di Marina. In cima al camioncino un altoparlante bagna il cielo con la sua canzone di poliestere. Marina detesta i capelli in disordine perché no, le ragazze non sono più belle quando si arruffano tutte, quando la smettono di pettinare i capricci senza provare vergogna del giorno. Le ragazze sono più belle quando si lasciano rubare dallo specchio senza opporre resistenza: è questa la verità.

Il camioncino svolta l’angolo a sinistra.

Marina attraversa la strada. È tardi.

Le dieci in punto si spargono a terra come grosse manciate di sale.

Troppo tardi per uscire da lavoro, troppo presto per tornare a casa: le strisce pedonali balbettano un sacco di dubbi a cui Marina non ha voglia di rispondere. Ha paura. Non di Bologna o delle sue mura di carta; non della strada che s’incrina sotto le Porte, e neanche di quella sera storta di luglio, a dire il vero, nonostante la sua ossessione per i segreti degli altri. Ha paura di non riconoscersi. La tua depressione è direttamente proporzionale al tuo successo, Marina, le ripete il capo quando fa le ore piccole in studio. Un professionista serio deve essere stressato: se ti rilassi, sembra che tu non abbia nulla a cui pensare, e ai clienti vanno di traverso gli uomini di legge senza pensieri. Preoccupati sempre, mia cara. E’ questo il trucco del successo. Il capo possiede connotati difficili, di quelli che competono agli avvocati di grido. Ma chi cazzo starò diventando, rimugina Marina.

Forse, una persona difficile, che non puoi parcheggiare in salotto.

Una persona senza cornice.

Le persone senza cornice stonano in ogni salotto.

Le foto della mia estate non hanno cornice; e infatti, a nessuno piace starle a sentire.

Marina s’infila dentro il primo locale che si offre di tagliarle la strada: le persone senza cornice sanno abbinarsi soltanto al bancone del bar. Ha molti soldi nel portafogli e poco margine disponibile prima di sedersi alla scrivania, perché le nove di mattina si palesano alla porta quando meno te l’aspetti.

«Cosa c’è che non va?» dice il barista, spillando una bionda media.

«Niente».

Marina beve con foga, fingendo ci sia qualcuno da raggiungere, un posto dove andare. La prima bionda sparisce in un lampo. Le ciglia di lei ne pretendono un’altra.

«Mh. Questo niente mi suona male.»

«Cioè?»

«Stona con le tue occhiaie.»

«Oh. Ultimamente dormo poco».

Il barista ci pensa un po’. Non più del dovuto.

«Sembri triste, in realtà».

Marina picchietta le dita sul bicchiere ghiacciato.

«Che vuol dire ‘niente’?», insiste il barista, mentre lei tenta d’indovinare quanti anni abbia. Adora giocare col tempo degli altri.

«Niente vuol dire niente. Non serve starcisi a scervellare.

«E allora, perché sei triste?»

C’è un orologio senza lancette sopra un ammasso di bottiglie semivuote: fa eco alla dimensione di tutte le solitudini del mondo.

«Perché quando sognavo di fare l’avvocato, m’immaginavo altro. Credevo che avrei combinato qualcosa di diverso. Di unico, magari. Credevo che ogni giorno sarebbe stato nuovo, ma nuovo per davvero».

Il baccano del locale le concede una tregua: Marina stenta ad esprimersi quando l’ascoltano con troppa attenzione.

«Non saprei come spiegarmi meglio. Scusa».

Il barista fa spallucce. Spilla la terza bionda media e ci abbina due dita di whisky.

«Questo te lo regalo io.»

«Grazie».

Marina deglutisce senza dissetarsi: certi pensieri sono difficili da mandare giù; si attaccano alla gola e non mollano mica, e allora tocca fare tardi ad ogni costo. Molto tardi. Barcolla fuori dal pub che sono le due passate. Il barista ha smesso di porre domande e lei di sopportare il suo silenzio. Quando si siede alla scrivania, comunque, non ricorda di che diamine abbiano discusso. Meglio così: almeno il whisky è servito a qualcosa.

Marina tira fuori il cellulare dal giacchino in fresco lana per controllare se il cliente con cui ha riunione si è fatto vivo: è in ritardo. Lei no. L’ipotesi che lui abbia dimenticato l’incontro si affaccia tra i faldoni delle pratiche. Lo schermo tace. Marina è furiosa: odia perdere tempo, il suo tempo. Clicca sulla sezione ‘Note’, elemosinando una scusa qualsiasi per annullare la riunione: un altro appuntamento, ad esempio; e un appuntamento c’è, in effetti. Una data, un orario, un luogo: 30 luglio, 05.30, Piazza Maggiore. Marina inclina la testa verso destra, la reazione istintiva del suo corpo ai rimproveri del capo. Non ricorda di aver mai salvato quel promemoria, ma è palese che non si tratti di lavoro. Ha parlato con altra gente, in quello stupido locale, davanti a quel barista senza volto?

Magari un timido avventore ha digitato quella nota per lei. Forse non è nulla d’importante. Forse è uno scherzo del barista per tirarle su il morale. Marina mette via il telefono e spegne il computer: vuole andarsene presto, almeno per una sera, perché le giornate finiscono in fretta; le alternative si offuscano, le prospettive si diradano. Vola via tutto quanto. Gli avvocati vanno veloce, pensa.

Campiamo di accelerazioni verso il prossimo dubbio.

Ma che mi resterà, quando guarderò indietro?

Cosa succede, quando ciò che possiedi non sei davvero tu?

Siamo anche ciò che possediamo, mormora tra sé e sé. Non devo scordarmelo.

Quando arriva il 30 luglio 2017, l’eterno giacchino in fresco lana sta sorseggiando vodka da quattro soldi nel chiasso dei Giardini Margherita. È domenica; nient’altro che una stupida domenica d’estate, eppure mette spavento. Marina ha ingoiato un discreto miscuglio di alcolici alla festa di laurea di un ragazzo che non conosce. Ce l’hanno buttata dentro i rimproveri degli amici, le accuse di stacanovismo che non riesce a scrollarsi di dosso. Troppo lavoro non fa bene a nessuno, ecco; ma neppure recintarsi dentro parchi stipati d’imbecilli è un esercizio strettamente salutare. Un miagolio di chitarre scordate accompagna la sua insofferenza. Marina non ha racimolato abbastanza coraggio per andarci sul serio, in Piazza Maggiore. È meglio ignorare gli stracci di premonizione che l’universo semina in giro negando le spiegazioni che meritiamo; è meglio chiudere gli occhi su questo massacro di opinioni discordanti, pensa; finché le sue contraddizioni, bisbigliate di soppiatto, la trasportano in Piazza Maggiore, alle ore 05.30 di una domenica d’estate, senza giustificazioni per la corsa a perdifiato oltre il cancello dei Giardini Margherita.

La piazza è vuota.

Non succede nulla.

L’ultimo studente ubriaco striscia verso un appartamento in affitto, tagliando in due il chiarore dei lampioni. Nessuno si avvicina, nessuno le rivolge attenzioni. Il tepore delle stelle non smuove di una virgola il mutismo di Bologna: tutto nella norma. Proprio come temeva. La quotidianità è quanto di più tremendo possa accadere ad un essere umano.

Marina non ha voglia di piangere.

La basilica di San Petronio stabilisce che accendere una sigaretta in quel momento sembrerebbe una specie di cliché letterario. Marina si ferma. Aspetta che la pietra bianca le suggerisca di levarsi di torno.

«Oh, scema! Ma che scherzi fai? Ti ho cercata per un’ora in mezzo ai Giardini, porca puttana. Perché sei scappata così?»

Le parole di Thomas vibrano come una didascalia tra le pagine dei libri illustrati.

L’ha trascinata alla festa di laurea, promettendo divertimento e un ingente quantitativo di cocaina: lei non ha potuto fare a meno di credere alla sua voce, capace di spiegare le circostanze oltre ogni ragionevole dubbio. Thomas è il classico studente di medicina — biondo e affascinante — che ottiene sempre ciò che vuole; però non è colpa sua se la cocaina scarseggia, specialmente di domenica mattina, e se le fiancate di San Petronio scivolano nella nebbia beffeggiando Marina perché nessuno si è presentato al suo cazzo di appuntamento.

«No. Ero solo stanca.»

«Così stanca che hai corso fino in Piazza Maggiore. Complimenti!»

Anna sbuca da chissà dove. Ha la voce di una bambina capricciosa.

Marina la guarda in tralice. Non ha la minima idea di chi sia. Sfoggia un taglio di capelli mascolino e un piercing ad anello sul labbro inferiore: i suoi connotati si scorderebbero facilmente, senza l’intervento di un dettaglio a smorzarne l’anonimato.

«Sì. Per smaltire un po’ prima di mettermi a letto, altrimenti vomito.»

«Contenta tu. Beh senti, noi vogliamo vedere l’alba sui colli. Ho la macchina, posso portarvi. Siamo venuti a prenderti perché non siamo a piedi, insomma, sennò col cazzo che…»

«Saremmo venuti lo stesso. Io sarei venuto. Lei è Anna, comunque».

Marina stringe la mano di quella ragazza fastidiosa, evitando inciampi di cortesia. È magra, coi fianchi larghi. Nemmeno un accenno di tette. Marina la squadra con la cattiveria del boia che t’inchioda alla croce. Sfigata.

«Non so se mi va. Ho sonno.»

«Eddai che tanto è domenica! Puoi dormire quanto ti pare dopo, che senso ha tornare a casa? Thomas mi ha detto che sei una festaiola, e invece non fai che lamentarti. Hai vent’anni, Cristo! Ripigliati!»

«Ventisei. Non mi va e basta. Adesso scusate, ma devo…»

«Ho mantenuto la promessa».

Thomas le molla una pacca sul sedere, sfoderando un ghigno che significa esattamente ciò che Marina spera mentre allunga una mano verso la tasca destra. Anna li studia senza capire, stringe le spalle e tira su col naso. La luna è davvero pungente, nonostante i singhiozzi dell’afa.

«Siete matti voi due. Quindi? Andiamo? Bisogna chiamare Chiara, però. Non so dove sia finita, non risponde al cellulare».

Marina sbuffa di collera, spazientita: avrebbe preferito restare sola con Thomas, scolandosi un paio di birre, e magari quella promessa mantenuta; Anna, però, si è immischiata senza chiedere permesso, rovinando i patti della loro amicizia. Marina non ha intenzione di scendere a compromessi: l’ennesimo retaggio dei rimproveri del capo. Anna deve levarsi di torno. E pure la rincoglionita persa della sua amica.

«E come la rintracciamo? Io non la conosco.»

«Manco io. Manco Thomas. L’abbiamo incontrata alla festa.»

“Sarà andata via per i fatti suoi, no? Ma che ci frega di…»

La basilica di San Petronio trattiene il respiro.

Ci sono presenze che scavalcano l’avversione degli altri senza la minima forzatura, conservando nello sguardo un silenzio che impreziosisce ogni parentesi di suono. Passi ciondolanti attraversano i portici, contornando le fughe della piazza.

Chiara.

Bologna, ad un tratto, sembra meno desolata.

«CHIARAAAAA eccoti qui! Mi hai fatto prendere un infarto.»

Anna si precipita verso di lei, saltandole al collo. Chiara non parla. È immersa nell’oblio degli ubriachi. Le sue gambe indietreggiano malferme, rifuggendo il contatto fisico. Anna prova a baciarla. Chiara inclina il collo dall’altra parte, sottraendosi alla lingua adorante. Anna finge di non aver colto quel gesto di ritrosia, continuando imperterrita ad accarezzarle le guance.

«Perfetto, ci siamo! Possiamo andare. Venite, ho parcheggiato qui vicino. Ho una bottiglia di vino in macchina. Rosso. Beh sì, oggi è caldo per il rosso, però meglio di niente, no?»

Thomas e Marina si scambiano un’occhiata, suggellando il loro accordo.

Anna guida un’utilitaria scalcinata, color prugna, talmente sporca che pare appannata di brina. La fiancata sinistra è graffiata in più punti. Marina sfiora la vernice coi polpastrelli: un mazzo di chiavi penetrato in profondità. Qualcuno doveva essere parecchio arrabbiato. Anna apre la portiera del passeggero per fare posto a Chiara, allacciandole la cintura con apprensione materna; poi, rimbecca la curiosità di Marina con tono stizzito.

«Oh, non farci caso. Un ricordo della mia ex. Certe persone lasciano il segno».

La strada per i colli ruzzola attraverso l’intreccio ramato degli alberi.

Anna monopolizza la radio e la conversazione, sciorinando i dettagli più intimi della sua storia d’amore col sottofondo che meglio le aggrada. Nessuno interviene, tranne i primi rossori del giorno: sta sorgendo il sole.

«Fermati qui,» dice Thomas. «Dai che sennò ce la perdiamo, quest’alba di merda. Poi non ti voglio sentire!»

Anna blatera cazzate persino durante la manovra per il parcheggio. Un odore di fieno reciso riempie l’abitacolo, filtrando attraverso i finestrini abbassati. Marina scruta Chiara, che sonnecchia pacifica, indifferente a tutto il resto.

Le sue labbra sono a forma di cuore, nonostante Marina voglia inventare un paragone originale, uno degno di lei; ma come altro si possono descrivere, le labbra di Chiara? Marina se lo chiede ancora, qualche volta, sfogliando le loro foto senza cornice. Ben disegnate, carnose, con l’arco superiore ricurvo sui denti. La sporgenza degli incisivi esaspera la sensualità della bocca. La mascella squadrata conferisce al suo viso un aspetto androgino. Marina distoglie lo sguardo poco prima che apra gli occhi, di un nero doloroso. Indelebile.

«… Siamo arrivati?» balbetta. La voce di Chiara è calda come l’estate a Bologna, quando luglio non ti lascia respirare neanche sotto il mantello dei portici. Marina percepisce una sfumatura cavernosa, appena un accento sull’impronta maschile degli zigomi.

«Sì, dormigliona!», squittisce Anna, slacciandole la cintura. Chiara salta giù dalla macchina prima che Anna possa propinarle un’altra dose di effusioni; si arrampica fino in cima alla collina, scomparendo oltre la linea frastagliata degli sterpi.

«Ma dove vai? Aspettami! Ehi! Torna qui!»

«Senti Anna, ti piace la cocaina?»

Thomas arrotola i baffi tra l’indice e il pollice della mano destra, stringendo una bustina bianca nell’altra. Anna si zittisce di colpo, presa alla sprovvista dalla sua impudenza. Ma che razza di domande sono?, borbotta la fronte corrugata. Marina sogghigna, pettinando la chioma corvina. Porta sempre una spazzola nella borsa: detesta le ragazze coi capelli in disordine. Tipo Anna, con quel corto scarmigliato del cazzo.

«Non lo so. Non l’ho mai provata. Io non credo che dovrei…»

«Dovere, dovere! Che brutta parola. Vieni con me: c’è una zona su questa collina da cui si vede tutta Bologna. Ci spareremo l’alba più figa del pianeta».

Anna non risponde. Setaccia il paesaggio con le pupille dilatate dall’angoscia.

Cerca Chiara: è sparita.

«Chiara starà dormendo da qualche parte. Era distrutta, no? Vieni con me, fidati».

Thomas ha imparato a leggere nella mente delle ragazze innamorate. Anna si arrende all’assenza: segue il suo cavaliere senza troppo entusiasmo, con una sorta di rassegnazione distratta. Marina aspetta che si dileguino dietro gli arbusti bruciati dalla caligine; poi, segue i passi di Chiara, ripercorrendone i solchi, fragilità gemelle che legano le anime grigie. Chiara è distesa a terra dietro un cespuglio di rododendro. Trema. Ha bevuto troppo. Sente freddo, quasi sviene. Marina si accuccia dietro di lei, stringendola a sé per scaldarla. Intanto, rovista nel giacchino di fresco lana: Thomas le ha sganciato un pezzo di promessa poco prima di allontanare Anna dall’unico ritaglio di quiete a loro disposizione, e Marina lo sa; Thomas ha portato via Anna perché quel ritaglio di quiete appartenesse soltanto a lei, soltanto a Chiara, e Marina lo sa. Sorride. Tira via mezzo filtro da una sigaretta, lecca la parte superiore della carta vergata e la intinge nella cocaina, disposta in piccole righe con la tessera sanitaria sullo schermo del telefono. L’accendino squaglia i margini sporchi del cielo.

«Fumi?,» dice Marina.

«Dipende. Cosa?»

«Una sigaretta. Bagnata».

Chiara piega il collo all’indietro per sbirciare le intenzioni di Marina.

«Non ho mai provato.»

«Se non ti va non fa niente. Chiedevo e basta».

Chiara afferra la sigaretta e aspira una serie di boccate, una di seguito all’altra. Espira con lentezza, mentre l’orizzonte si tinge di bianco dopo il rossore iniziale.

«Prima ti guardavo.»

«Come?»

«Alla festa. Ti guardavo. Stavo venendo a parlarti, ma ho incontrato Anna».

La sigaretta torna al punto di partenza. Marina ha le unghie laccate di nero.

«Oh. Beh, lei è… Interessante.»

«No, non lo è».

Chiara esplode in un colpo di tosse.

«Ti brucia la gola?»

Marina è preoccupata: Chiara sembra pallida; un po’ troppo, rispetto al candore ordinario della pelle.

«No». Pausa. «Domani parto per Edimburgo. Vado a vivere lì.»

«Quanto resti?»

«Non l’ho deciso. Almeno… Tanto. Potresti venire a trovarmi».

Marina non risponde. Chiara continua a tremare. Si stringe forte al suo petto.

Restano così, immobili nell’alba, più vicine che mai per quanto totalmente sconosciute.

«Pensi che sarai felice, a Edimburgo?»

«Non lo so. Forse mi mancherà il sole. Dicono che lì piove sempre.»

«Quando ci manca qualcosa, però, non siamo mica felici.»

«No. Infatti.»

«Allora perché parti?»

Il silenzio spezza il mattino a metà.

La sigaretta si spegne nell’erba, intrisa di umori notturni.

«Ti senti sola, Marina?»

Chiara s’è infilata una camicia di lino per affrontare la festa di laurea. Una camicia arancione, con una serie di arabeschi viola che scimmiottano le filosofie orientali. I bottoni stretti non riescono a nascondere il suo seno: sembra piccolo e turgido. Da mordere.

«Io sì. Per questo vado a Edimburgo: per stare sola con gente che non conosco. I miei amici non hanno più nulla da darmi. Nemmeno la solitudine».

Il vento strappa una manciata d’erba e la getta lontano, disegnando una gabbia sul frinire dei grilli.

«Anna è innamorata di te.»

«Mh. E tu sei innamorata?»

«Lo sono stata. Una volta».

Marina accarezza il viso di Chiara, i suoi capelli, le sue labbra.

Chiara ha le labbra a forma di cuore. Bellissime.

Forse era questa, la parola giusta; quella che avrebbe inventato per lei.

«Per caso hai ancora un po’ di cocaina?»

«Sì. Ce l’ho qua sul telefono. Ti serve una banconota?»

«… Non voglio sniffare.»

“Ok. Ti preparo un’altra sigaretta».

La luce è cambiata: usa un piglio prepotente, ma solo per gioco, strattonando la camicia di Chiara, l’amarezza che Marina non riesce a confessare. Osservano insieme la polvere bianca che sfrigola sulla colonna di tabacco.

«Le sigarette bagnate fanno un odore strano».

Quanti anni hai, Chiara?

L’età non è altro che un secondo battesimo, perciò Marina smette di tirare a indovinare: l’età non si cancella, una volta che l’hai ricevuta; e mentre il tempo passa per tutti, le impressioni non vengono via neppure a calcare la mano. Marina non vuole crescere lasciandosi Chiara alle spalle. Vuole portarla con sé nonostante i suoi anni.

Nonostante Edimburgo.

«Oggi sei bella, Marina. Scommetto che lo sei tutti giorni».

«Penso sia ora di andare. Dovremmo proprio andarcene via».

Chiara sorride senza voltarsi. I suoi passi non fanno più rumore.

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Claudia Grande
Queer Stories

Nata a Chieti. Laureata in Giurisprudenza. Ha lavorato per due anni presso uno studio legale internazionale. Attualmente, frequenta la Scuola Holden (Torino).