Copertina

Martini e Ferretti

Un romanzo

Marco Bonifacio
Quettar
Published in
3 min readJun 9, 2016

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Seconda guerra mondiale. Martini e Ferretti sono due giovanissimi allievi dell’Accademia Navale, improvvisamente catapultati su un’isola del Tirreno perché chiamati a far parte di un’unità di élite, una squadra segreta di arditi selezionata per cercare di risollevare le sorti della guerra.

Si sentivano come mai prima: scelti. Non c’era altro che girasse per le loro teste. Scelti. In mezzo a una marea di allievi avevano scelto loro due.

L’addestramento è durissimo, ma ancor più duro è fare i conti con il proprio io, quella parte più intima di sé stessi che si cerca di nascondere agli sguardi altrui. È così soprattutto per Ferretti, più introverso e taciturno dell’espansivo Martini, più incline a difendersi dai colpi della vita e ad erigere muri e barriere dietro i quali celare le proprie debolezze.

“Parli sempre di paura Torrisi e io ho paura.” Aveva rotto la diga. “Non so bene neanche di cosa, forse anche solo di domani, ma è paura. Tutto è sempre e solo una minaccia.”

Ma nel rapporto con il membro più anziano della squadra e nella scoperta che la naturalezza di Martini nasconde un’istintiva saggezza, pian piano Ferretti apre il proprio animo alla possibilità che la realtà sia positiva, non una minaccia da cui difendersi.

Desiderò solo che non smettesse, che potesse continuare per sempre quella forza che era figlia della luce. Capì in un istante che era gioia. Impossibile da catturare. Poteva solo arrivare.

Intanto la guerra prosegue e proprio Ferretti è scelto per una rischiosa missione: infiltrarsi nella principale roccaforte inglese per aprirne le difese. Gradualmente, tuttavia, si scopre che il disegno è più grande e la lotta è contro il Male che dalla notte dei tempi cerca di schiacciare l’uomo e che nel corso della storia si concretizza di volta in volta in una determinata forma di potere.

L’organizzazione, ‘loro’, erano potentissimi, potevano tutto. Non erano contro quello che era considerato l’ordine stabilito. Non erano, da quello di cui si era convinto progressivamente, contro lo Stato, l’esercito, il controspionaggio. Erano semplicemente dentro tutto. Rafforzandone la spina dorsale.

Di fronte a questo potere diabolico, così pervasivo e connaturato all’uomo e alla sua storia, la vittoria definitiva sembra un’utopia: si può solo cercare di arrestarne l’avanzata, magari con l’aiuto di una scalcagnata e improbabile compagnia.

“E certo, senza dire niente. Se tu dici che non dobbiamo farlo non lo facciamo. Oh Torrisi, ti ho detto che ti vengo dietro e di che altro c’hai bisogno?”

Così, le armi più efficaci per la battaglia non sono i segretissimi ordigni messi a punto dal Comando italiano, ma l’amicizia, che permette di vedere in sé con una chiarezza inaspettata, l’amore, che irrompe imprevisto e scompiglia gli schieramenti, la scoperta della realtà come bellezza, che supera gli orrori e l’insensatezza della guerra, persino il sacrificio, che non è eroismo ma consapevolezza lieta e serena del proprio compito.

“Ci vuole sempre uno che dia tutto” dice inaspettato, poi alza la voce e richiama la squadra: “Torniamo a casa!”.

Vivendo in questo modo, c’è posto anche per uno sguardo di pietà verso chi ha consapevolmente scelto di servire il male, pur se questi non si lascia toccare da quello sguardo, ma anzi sputa impotente tutto il proprio disprezzo davanti alla misericordia.

L’altro in qualche modo se ne accorge. E, impossibilitato a dire altro, gli sputa. La saliva sulla guancia. Con una mano si tocca. Un abisso di tristezza lo coglie, una tristezza per chi ha bruciato la speranza.

Martini e Ferretti, di Marco Andreolli, edizioni Pagina

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